Louis Althusser
I marxisti non parlano mai al vento. Risposta a John Lewis

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Introduzione

La filosofia è unita alla politica come le labbra ai denti

di Leonardo Tomasetta

Che dire! Mi sembra essere questa la frase che dà la chiave di volta al vigoroso pamphlet althusseriano. Il lettore se la ritroverà davanti molto più in là, all'inizio della Nota critica sul culto della personalità. Ma proprio perché in questo scritto Althusser aggredisce con i "denti" della politica i marxisti idealisti di tutte le tendenze, voglio chiarire subito il mio punto di vista sulle finalità recondite della Risposta. Questa "aggressione" trova il suo punto alto d'ispirazione nelle "labbra" della filosofia di Althusser, che, col suo fraseggio scolpito, al limite della ossessione iterativa, indirizza, e al tempo stesso smorza, la sua vis polemica sui nomi più celebrati del gotha filosofico di Francia.
J. Lewis, a cui il pamphlet è formalmente indirizzato, è solo la figura retorica di una resa dei conti che Althusser meditava da tempo nei confronti di una "cattedrale" filosofica (Sartre, Garaudi, Sève, ecc.) a cui non avrebbe forse riservata tanta attenzione, se, ai suoi occhi, questi celebrati filosofi di Francia non avessero avuto il grave torto di voler accreditare le loro scelte filosofiche in nome del marxismo.
Occorre storicizzare.
Siamo agli inizi degli anni 70. A ridosso delle più grandi convulsioni sociali e politiche che il secolo XX abbia conosciuto: la più prolungata contestazione giovanile che la storia ricordi a livello mondiale; le rivendicazioni paritarie dei movimenti femminili; i massicci scioperi operai, specie in Francia e in Italia; il XX Congresso in URSS; l'invasione della Cecoslovacchia; la guerra in Vietnam; la minaccia atomica con l'installazione dei missili russi a Cuba; i primi scricchiolii all'interno delle arrugginite strutture dei partiti comunisti d'Europa. Quel mondo, quegli eventi, stimolavano grandi svolte, nuovi progetti, endemici sommovimenti ideologici, inedite, o ritornanti speculazioni filosofiche.
La grande riflessione critica si divideva a quei tempi fra le maestose note della Scuola di Francoforte e i vari afflati umanistici dell'esistenzialismo e del "situazionismo" francesi.
Sull'altra sponda dell'Atlantico, Marcuse, come un navigato surfista, dominava sull'onda lunga della rivolta studentesca, colorando di nuove suggestioni il fascino della trasgressione. Di qua dell'Atlantico, Louis Althusser, solitario guardiano di un tempio che stava già per essere dissacrato e saccheggiato, sfoderava la spada affilata della polemica per organizzare l'ultima resistenza. E lo fa, si illude di farlo, con le armi della logica, con il rigore dell'esercizio critico, che spesso si ritorcerà contro se stesso.
Commette allora lo stesso errore di Martin Lutero nei confronti della chiesa cattolica apostolica romana. Vuole rivendicare l'ortodossia del suo marxismo sapendo che la chiesa madre moscovita teneva stretto il controllo sui partiti comunisti d'europa.
Althusser, che, fra i tanti meriti acquisiti sul campo, ha anche quello di aver descritto con tanto acume gli apparati ideologici di Stato, commette l'errore (rapportato all'epoca) di sottovalutare il peso egemonico dell'"apparato ideologico" del comunismo internazionale. Apparirà perciò ingenua la sua domanda sul perché i comunisti alla J. Lewis siano tanti e i comunisti alla Althusser pochi. Il potere si "situa", si radica, si ramifica, tanto più capillarmente, quanto più può appellarsi alla tradizione, per farne, essa sì, un sinonimo di "ortodossia".
Ma a parte ciò, è la difesa dell'ortodossia che, a mio avviso, suona falsa sulla bocca di Althusser. Il suo, diciamolo subito, è un marxismo critico, e nel senso più radicale del termine: il fatto stesso di andare a caccia delle più piccole sviste, debolezze, "aporie" all'interno dell'imponente opera di Marx la dice lunga. E la sua è una qualità che i marxisti dovrebbero apprezzare se vogliono coniugare la loro vocazione rivoluzionaria con i parametri della scienza. Una qualità che si riscontra in tutta la "pratica teorica" di Althusser: un uomo - soggetto, agente (?), qui non interessa - determinato quanto si vuole (come ognuno di noi) dalle circostanze materiali, ma sempre pronto a correggere i propri errori, a "raddrizzare" le inevitabili curvature che il suo pensiero ha dovuto assumere, sotto la sferza degli eventi.
Nel mio Stratificazione e classi sociali - Sociologia e marxismo avevo dedicato ad Althusser molto spazio[1]. In parte, per manifestargli la mia gratitudine per avermi aiutato a sciogliere (grazie al suo concetto di "surdeterminazione") uno dei nodi più controversi del concetto di sovrastruttura in Marx; più spesso per avanzare i miei dubbi sui criteri "troppo gerarchici" con cui in Per Marx aveva risolto il rapporto teoria-prassi.
A distanza di pochi mesi (20 febbraio 1975), mi sono sentito assai gratificato nel ricevere una sua lunga lettera. Dopo gli apprezzamenti di rito per il mio lavoro, candidamente mi confessa la sua sorpresa per avere io prestato tanta attenzione ai suoi "provocatori" interventi[2]. Poi, con discrezione, mi spiega che il suo concetto di "pratica teorica" non era destinato a risolvere il problema più generale del rapporto teoria-prassi, ma ad ottenere, "in tempi così difficili", "l'autonomia relativa" della teoria e conferirle quel carattere pratico, attivo, materialistico di "rottura con la sua rappresentazione tradizionalmente idealistica".
E' la riproposizione, con parole meno solenni, del concetto forte di filosofia come "lotta di classe nella teoria" che il lettore troverà nelle pagine della Risposta. Ma intanto desidero sottolineare il dato caratteriale dell'interlocutore: una persona in permanente tensione fra la necessità di affermare con forza le sue intime convinzioni e il dovere di prestare l'orecchio a qualsiasi critica proveniente sia dalle confutazioni altrui, sia dalla lezione dei fatti.
Lo dimostra la citazione, nella lettera che ho ricordato, della metafora leniniana del bastone da raddrizzare ogni volta che s'incurva troppo da un lato. Ma lo dimostrano soprattutto i continui aggiustamenti di tiro, riscontrabili anche in questo lavoro, con note, osservazioni o postille. Una persona rara, dicevo prima. Unica, vorrei precisare adesso che sono costretto ad assistere o ai camaleontici travestimenti dei maître à penser, o alla chiacchiera a ruota libera dei monopolisti del sapere mediatico.
Ma torniamo alla filosofia di Althusser, e il lettore non me ne voglia se mi lascerò andare in qualche autocitazione di troppo. La frase con cui ho titolato la mia introduzione esprime già la stretta connessione che Althusser vede fra politica e filosofia. Una connessione però che, si badi bene, non implica una posizione ancillare della filosofia verso la politica. A dispetto della sua sprezzante ironia verso i "marxisti della cattedra", Althusser è pur sempre un cattedratico e un cattedratico di filosofia. Ora, chi conosce l'"imprinting" cattedratico sa benissimo che l'ultima libertà che un docente universitario può concedersi è quella di subordinare l'autonomia della propria disciplina al primato di un altro sapere, fosse pure quello marxista. E del resto, il nostro Cesare Luporini, nell'introdurre il Per Marx, dirà proprio che all'interno del marxismo di Althusser c'è il "rifiuto ragionato della morte della filosofia"[3]. Una ragione, però, che lo porta ad assegnare alla filosofia una doppia possibilità: agire sulla scienza, sia in senso progressivo, sia in senso regressivo. La filosofia materialista, le tesi del marxismo-leninismo, non solo non contraddicono con la "scienza della storia di Marx", ma l'arricchiscono di nuovi concetti. La stessa ragione lo porterà più avanti a ripetere l'autocritica che aveva già fatto nella Prefazione alla edizione italiana di Lire le Capital (1967), tenendo distinte la "rivoluzione filosofica" dalla "rottura epistemologica". Solo la seconda ha a che fare con la scienza e in Marx la prima farà da buttafuori della seconda.
Detto così, nel lettore potrebbe nascere il sospetto di trovarsi difronte a una sorta di tautologia. In realtà nel testo althusseriano i passaggi sono parecchi, anche se a volte così insistiti da provocare qualche moto d'insofferenza. Va, in ogni caso, dato atto ad Althusser di aver ribadito anche in questa Risposta (lo aveva anticipato nel 1968, in Lenin e la filosofia) che la filosofia non è una scienza, non ha un oggetto, non ha una storia (nel senso scientifico delle parole), ma è "politica nella teoria".
Rimane però la questione del posto che la teoria occupa nella scala delle ideologie. Ma, a differenza di quanto si poteva leggere in Per Marx, dove veniva collocata al vertice di tutte le pratiche e, scritta con la T maiuscola, prendeva addirittura il posto della "dialettica materialista", qui la teoria, anche se nella accezione più alta di filosofia, non è mai "pura". In essa permane la "tendenza dominante" generata dalle sue interne contraddizioni.
A mio avviso, si tratta di una rettifica molto importante, che fa cadere un'altra forzatura critica che anche ai nostri giorni si sente ripetere. Cioè quella della mancanza in Althusser del senso del dialettico. Anzi, della sua predilezione per un materialismo da cui sia bandito il termine dialettico.
Più avanti vedremo meglio in che senso si può parlare di dialettica quando ci si riferisce al pensiero di Althusser. Qui mi limiterò ad accennare ai problemi del dubbio e delle contraddizioni che accompagnano il suo lavoro. Chi come me ha avuto la fortuna di scambiare con lui direttamente, sa che Althusser era l'incarnazione stessa del dubbio e ne era consapevole. Voglio dire che nessuno più di lui viveva il dubbio come compagno inseparabile del suo lavoro. E il dubbio lo spingeva a fare spazio, talvolta eccessivo, alla ricerca delle contraddizioni all'interno delle sue stesse tesi. Questa ansia metteva in moto il suo irrefrenabile stimolo di continua rielaborazione del proprio pensiero. Ma, a parte le personali sensazioni, sta di fatto che in questa Risposta la duplice natura delle qualità filosofiche del marxismo viene continuamente ribadita, pur affermando "il primato dell'essere sul pensiero".
Ma torniamo per un momento sulla pretesa che, in questa Risposta, Althusser rivendica che il suo pensiero politico rappresenti l'ortodossia marxista-leninista.
Ritengo che oggi un seguace di Althusser dovrebbe cominciare col mettere in discussione la stessa opportunità di ricorrere al binomio Marx-Lenin per affermare l'ortodossia del marxismo.
La rivendicazione delle ortodossie scatena sempre le più feroci guerre di religione e poi credo non interessi a nessuno sapere oggi chi sono i marxisti ortodossi. Viceversa, a parte la grande suggestione che scatenò a suo tempo la "teoria dei cento fiori" di Mao-Tse-tung, ritengo che il pensiero può dirsi veramente libero quando si presta a una molteplicità d'interpretazioni.
Diversa è la questione della scientificità di una teoria. Si richiede, in questo caso, che qualsivoglia affermazione sia sostenuta dalla sua verifica empirica. Ovvero, da quello che Koyré ha definito il "dialogo sperimentale". Vale a dire qualcosa che implica sia la comprensione, sia la modificazione dell'assunto. Ma ciò che più rileva sul nostro piano politico è che il primato della "verità scientifica" venga assegnato a quello dei "cento fiori" che si dimostrerà più in grado di attecchire nello specifico habitat del comunismo.
E' nell'ottica della ricerca di una tale "verità" entro il pensiero umano, che Marx aveva assegnato il primato alla prassi sulla teoria[4]. Del resto, che neppure Althusser fosse intimamente convinto che il suo pensiero politico rappresentasse l'ortodossia marxista, lo dimostra il fatto che, ad appena quattro o cinque anni di distanza dal suo pamphlet contro J. Lewis, comincerà ad elencare una serie di problemi che Marx non aveva affrontato, o eluso, o, peggio, risolto attraverso la contaminazione con la filosofia hegeliana. Lo farà al convegno organizzato da "Il Manifesto", tra l'11 e il 13 novembre 1977. Continuerà nel 1978, con lo scritto rimasto incompiuto dal titolo Marx nei suoi limiti[5].
Non sono problemi di poco conto e uno di essi riguarderà, nientedimeno, il criterio "contabile" con cui Marx aveva affrontato il problema del plusvalore, sottraendo alla "teoria dello sfruttamento" quel respiro ampio che, se sviluppato, avrebbe potuto evitare lo scadimento della transizione al comunismo nell'economistica versione del socialismo di stampo staliniano.
E' fuor di dubbio che il cosiddetto "criterio contabile" del plusvalore abbia a che fare con la lettura che non solo Stalin, ma tutta la dirigenza comunista ha dato delle teorie sul plusvalore. Ma addebitarne la colpa a Marx, oltre che frutto di una attenzione parziale ai testi, a me sembra uno scavalcamento della storia. I problemi che, entro il capitalismo, si ponevano all'epoca della manifattura non possono essere confusi con quelli che sono nati nell'età del postfordismo e della automazione del lavoro.
Ma converrà procedere per gradi. Sviscerare il problema in questa sede potrebbe risultare ridondante rispetto alle categorie che hanno fin qui sostenuto la polemica. Quelle che s'incontrano in questa Risposta, sono, elencandole: le masse; il proletariato; la lotta delle classi; l'umanesimo; lo stalinismo; e solo per inciso l'economismo[6].

Le Masse

Althusser, per una simmetrica contrapposizione alla categoria "uomo" celebrata dagli idealisti, le chiama in causa all'inizio della sua replica a J. Lewis. E facile però accorgersi che ne parla con un certo imbarazzo. Si limita a dire: "In effetti le masse sono parecchie classi, strati e categorie sociali raggruppate in un insieme talvolta complesso e mutevole". E poco dopo aggiunge: "il soggetto/masse pone dei seri problemi d'identità, d'identificazione. Un soggetto è anche un essere di cui si può dire `è lui'. Per il soggetto/masse, come si fa a dire: `è lui'?".
In realtà la parola diventa per Althusser soltanto un segno, una espressione vuota che gli serve per introdurre la vera categoria che gli sta a cuore:

Il proletariato.

Ed "è intorno al proletariato (la classe sfruttata nella produzione capitalistica) che si unificano le masse che `fanno la storia', nello specifico, la rivoluzione che esploderà nell'anello più debole della catena imperialista mondiale".
In questo passo Althusser è veramente in odore di ortodossia. Un'ortodossia in cui il bastone si è curvato tutto dalla parte di Lenin, giacché Marx non avrebbe mai sottoscritto che la rivoluzione proletaria potesse dare buoni frutti attaccando l'anello più debole della catena imperialista.
Ma qui s'impone una domanda che vorrei ripetere ai nuovi lettori per evitare che, nella fretta di andare "oltre Marx", ci si liberi, come suol dirsi, dell'acqua sporca buttando a mare anche il bambino. La domanda è questa: si sono chiesti i critici di Marx da "sinistra" (?) perché quest'uomo abbia speso un'esistenza ad analizzare così pedantemente l'anatomia e la patologia del Capitale, mettendo in fila ben cinque tomi, comprese le Teorie sul plusvalore?
Anche i marxisti che non sono andati fino in fondo nella lettura di questi tomi sanno che il lavoro di Marx era legato a un obiettivo politico: scoprire quale forza materiale, quale "agente storico", avesse potuto, nelle condizioni date, essere in grado di portare a compimento la lotta di emancipazione del proletariato.
Althusser non ha dubbi al riguardo. Risponderà anzi, con Balibar, che sono le stesse condizioni dello sfruttamento a rendere la classe operaia "capace di dirigere tutte le classi sfruttate", aggiungendo in seguito che in questa impresa il proletariato verrà aiutato dalla creazione "delle organizzazioni per la lotta di classe, che si pongono all'avanguardia del movimento di tutti gli sfruttati per strappare il potere di Stato alla borghesia".
Dunque fin qui sembrerebbe pacifico che l'agente storico di cui parlavo prima sia il proletariato. Ma quale? Quello dell'epoca della manifattura, del taylorismo e del fordismo, o della tuta e colletti bianchi dei nostri giorni?
Ritornerò più avanti su questo tema. Per ora mi limito a far risaltare una grande ovvietà, e cioè che il proletariato inteso alla maniera del "lavoratore produttivo" alla "Cipputi" è una specie in via d'estinzione nelle aree più sviluppate del capitale. Non solo la rivoluzione non potrebbe contare su di esso, ma, ammesso che se ne possa ingigantire la presenza, la conquista del "potere di Stato" di cui parla Althusser non sarebbe in ogni caso qui possibile con metodo democratico.
I partiti e i sindacati della classe operaia, i loro dirigenti, in tutti questi anni hanno vissuto di rendita sull'operaismo. Ne hanno fatto il vessillo con cui hanno coperto le varie contaminazioni borghesi del loro modo di essere e di pensare. Nessuno meglio di Althusser ha descritto questa lenta, ma inesorabile corruzione ideologica e solo di recente si sono levate da noi voci isolate rivolte a fare luce sulla "sconcertante parabola dell'operaismo italiano"[7].
Il risultato è stato che da almeno un ventennio la lotta delle classi in Occidente è diventata una bestemmia e la stessa classe operaia sembra essere caduta in letargo[8]. In compenso, gli automatismi normalizzatori del mercato "globale", controllano (nel senso di una sommatoria a risultato zero) le pratiche contestative (laddove esistono) della "sinistra", tradizionale o radicale che sia.
Ma questa è una storia a sé, tutta da scrivere.
Per ritornare ad Althusser, si ha il dovere di aggiungere che già in questa Risposta traspare netta la sua critica all'economismo e alla tenacia con cui ha accreditato la versione "contabile" del plusvalore. Purtroppo ne fa risalire la colpa fino a Marx, quando invece prevalenti sono le responsabilità dei marxisti che, dopo di lui, hanno cessato di analizzare ciò che accadeva a livello dell'organizzazione del lavoro e della riproduzione della forza lavoro.
Non abuserò dello spazio che ho a disposizione per dimostrare questa mia tesi. Elencherò invece, nello stesso ordine con cui sono apparsi negli scritti postumi di Althusser, gli altri aspetti di deficit analitico del marxismo. Sono i problemi della natura dello Stato entro le società imperialiste; del funzionamento dei sindacati e dei partiti operai irretiti nel gioco dello Stato borghese; del come stabilire rapporti non strumentali col movimento di massa; del come superare le tradizionali divisioni fra la sfera economica e la sfera politica; del come assecondare infine un reale deperimento della funzione dello Stato.
Il lettore che ne avrà interesse potrà trovarne sviluppi più dettagliati nel già citato Marx nei suoi limiti, ma è altresì chiaro che altra acqua, dopo Althusser, è passata sotto i ponti della storia e che i marxisti, se non si sono completamente mummificati nel riformismo, farebbero bene a considerarli insieme a tutte le altre acquisizioni che il progresso scientifico ci ha nel frattempo consentito di ricevere.

La lotta delle classi

E' il vero punto di forza di questa Risposta. Ma non per la riproposizione di una formula, quanto per la funzione chiarificatrice che la lotta delle classi assume nelle scelte di campo. Il semplice appellarsi alle classi non è infatti di per sé segnale di rotta verso il comunismo. E' il ruolo che si attribuisce a queste lotte che fa da spartiacque fra un rivoluzionario e un riformista. Se ci si limitasse a dire che sono le classi (o peggio le masse) a fare la storia al posto dell'uomo, si tratterebbe, come lo stesso Althusser riconosce, di una questione meramente nominalistica.
La differenza sostanziale, la presa di distanza del marxismo scientifico dall'idealismo sta nel ruolo che viene attribuito alla lotta: "la lotta delle classi è il motore della storia" aveva già proclamato Marx.
E quale esempio più riuscito, da parte di Althusser, delle due squadre di rugby? Gli uni (i riformisti) si limitano ad osservare che in campo sono schierate due squadre prima della partita; gli altri (i rivoluzionari) ritengono che classi e lotta di classe siano concetti inseparabili. Senza la lotta, le classi non esisterebbero neppure. Ed è durante il loro scontro che si può capire chi è schierato da una parte e chi dall'altra.
Ne consegue che in assenza della lotta delle classi, il movimento della storia si arresta. Al limite la sua ruota potrebbe girare all'indietro.
Ma converrà a questo punto fare un breve richiamo storico perché anche il lettore più giovane possa capire l'importanza della posta in gioco.
Quando Althusser ribadisce questi concetti siamo negli anni in cui il marxismo occidentale trova il suo punto di forza nella riscoperta dell'"umanesimo socialista". Ne consegue che la sua intellighenzia si produce nell'esaltazione delle qualità dell'uomo antropologico che l'organizzazione capitalistica del lavoro ha nel frattempo asservito alla forza produttiva delle macchine.
Parallelamente, sul piano della risposta politica a questo stato di asservimento, i partiti della classe operaia puntano sulla trasformazione graduale dell'organizzazione del lavoro, attraverso due fondamentali strumenti: la lotta economica guidata dai sindacati e la lotta politica guidata dai partiti. E' il classico modello della via democratica al socialismo, ma gli avversari del proletariato, caricaturalmente, attribuiranno questa strategia al modello sovietico. Eppure non potevano ignorare che in URSS i sindacati disponevano di un potere soltanto decorativo e che la conquista dello Stato non poteva avvenire per via elettorale, dal momento che il "pluralismo" e le procedure elettorali non facevano parte dell'armamentario della legislazione sovietica.
La scelta strategica dei partiti operai europei verrà, in un primo tempo, ricompresa sotto la parola composita social-democrazia. In un secondo tempo, e cioè dopo la caduta del muro di Berlino, si scinderà nel binomio socialismo-riformista. Oggi che anche il "socialismo" è diventato una parola sospetta, si usa dire più anodinamente riformismo, amalgamando in esso tutto ciò che può essere ricondotto a un generico populismo sociale.
Come si vede, mettere al centro il problema della lotta delle classi non è questione di semplice restauro filologico. E', come si è detto, necessità di istituire un discrimine politico che possa separare il marxismo dall'intruglio del riformismo.
Ma mettere al primo posto la lotta delle classi, avverte opportunamente Althusser, implica analizzare la materialità della lotta e "questa materialità è in ultima istanza, l'unità dei rapporti di produzione e delle forze produttive sotto i Rapporti d'un modo di produzione dato, in una formazione sociale storicamente concreta".
Questa precisazione, nell'economia della Risposta, ha un valore decisivo perché si tratta di eliminare dalla rosa delle spiegazioni possibili sul farsi della storia quella più astratta e inconcludente della "trascendenza". Si afferma perciò la funzione decisiva della lotta delle classi nella fondazione del marxismo come "scienza della storia". Althusser fa derivare la nascita di questa scienza dalla elaborazione da parte di Marx di tutta una serie di nuovi concetti: "il modo di produzione", le "forze produttive", i " rapporti di produzione", "infrastruttura-sovrastruttura, ideologie", ecc. Ma il fondamento teorico di essa starebbe tutto nella cosiddetta "rottura epistemologica" del 1845.
Già in Leggere il Capitale Althusser aveva sostenuto che la scienza nasce come "sorpresa" dell'ideologia a seguito di una rottura epistemologica che si verifica al suo interno[9]. Qui rettifica e si rammarica di aver "pensato la filosofia col modello delle scienze". Viceversa, "la filosofia è soltanto la politica nella teoria". La sua evoluzione segue perciò i tempi e le fasi alterne della politica, con la possibilità che in essa ritornino saltuariamente vecchie categorie. Ma poi conclude che "nel caso di Marx, possiamo dire che tutto accade `in contemporanea': rivoluzione filosofica e rottura epistemologica. Ma è la rivoluzione filosofica che determina la "rottura epistemologica"[10].
A mio avviso (ma non soltanto mio), non sono argomenti sufficienti per elevare a statuto di scienza della storia i risultati di un'analisi economica che copre un arco limitato di tempo. Né la geniale intuizione di essere la lotta delle classi il "motore della storia" può essere considerata la causa che spiega, sia pure in ultima istanza, l'intero movimento della storia. Non ho dubbi, però, che, in quanto metodo di analisi materialista della storia, il marxismo si mostra ancora oggi insostituibile, o perlomeno valido per comprendere i processi storici al riparo dalle diverse opzioni ideologiche. Ed è a partire da Marx che la meta, del socialismo esce dalla vaghezza del saintsimonismo, dell'owenismo e del proudhonismo per diventare un traguardo da perseguire scientificamente.
E qui sospetto che si apra un baratro davanti a me, su cui si fermeranno attoniti anche i miei compagni di strada.
Sì, perché è inutile nasconderlo, parlando di meta, di traguardo del marxismo, ripropongo inevitabilmente il problema del télos. A differenza dei filosofi, ho però la fortuna di potermi scaricare di dosso questa sofisticatissima querelle. Da interessato analista dei fatti storico-sociali, non posso invece non tener conto che in nome del fine del socialismo milioni di uomini hanno lottato e sono morti in ogni parte della terra, lasciando a poche decine di filosofi il gusto di discettare intorno al rapporto fra materialismo e finalismo.
Certamente, anche Althusser con l'affermazione della storia come processo senza soggetto(i), né fine(i), spezza una lancia contro il finalismo. Ma attenzione! Un conto è il fine nell'accezione deterministica di Hegel, un altro il fine della lotta delle classi che diventa motore della storia. Un motore, lo sa bene qualsiasi meccanico, può portare la macchina fino al traguardo, o andare "fuori giri", o addirittura "grippare". Non è detto perciò da nessuna parte, tranne che nel vaticinio politico del Manifesto del Partito Comunista, che la società capitalistica approderà trionfalmente alla società comunista. Torna perciò a merito di Althusser l'aver distinto fra Marx ancora contaminato da hegelismo e Marx che si è lasciato Hegel definitivamente alle spalle. In questa seconda età di Marx, e in particolare in base a quanto si può leggere nel Libro III de Il Capitale, nelle Teorie sul plusvalore e nella parte seconda dei Grundrisse, in Marx è ben presente la consapevolezza che per ogni tendenza al "crollo" del sistema capitalistico si sarebbero sviluppate altrettante controtendenze che ne avrebbero ritardato, o evitato, l'evento[11].
Spiace perciò dover constatare che in questa Risposta, per un rigurgito di ortodossia, proprio Althusser dimostri di cadere, sia pure accidentalmente, nella trappola del finalismo[12]. E però, in questo stesso pamplhet, la voce di Althusser si fa solenne quando ammonisce: "I comunisti, quando sono marxisti, e i marxisti, quando sono comunisti, non parlano mai al vento".
Con qualche taglio tipografico, abbiamo elevato questo monito a titolo della presente riedizione della Risposta, proprio perché convinti che il marxismo, indipendentemente dal suo esito comunista, non sia un semplice rizoma della storia, ma la radice profonda di un albero secolare che dovrà dare ancora i suoi frutti. Ma già ora, pur con le sue inevitabili contraddizioni interne, il testo che stiamo presentando costituisce, a mio avviso, un primo, fondamentale contributo che Althusser dà alla definizione di un materialismo dialettico assai diverso dal suo significato storico.
Ho sottolineato provocatoriamente l'aggettivo "dialettico" perché sarebbe ora, da tutte le parti, di smetterla di giocare sull'equivoco. La dialettica di cui parlano Althusser e i marxisti che a lui si richiamano non è il "diamat" di tradizionale memoria. E neppure il semplice rovesciamento della dialettica hegeliana. Non ha niente a che vedere con la "negazione della negazione", o con la semplice opposizione "astratto-concreto".
E' piuttosto il presentarsi di una molteplicità di determinazioni nella produzione di un fatto, di un evento in cui, però, una sola di queste determinazioni si dimostra più incidente delle altre, segnando così una differenza rispetto alle altre. Ed è in questa differenza che in Althusser s'inscrive il concetto di dialettica, o di contraddizione surdeterminata[13].
Con diverso codice, un altro illustre scienziato di Francia, Henri Laborit, studiando le strutture informative del cervello umano, chiama la sintesi di questa molteplicità di determinazioni "auto-organisation"[14].

Umanesimo e stalinismo.

Era il titolo che, nella prima edizione italiana della Risposta a J. Lewis, l'editore De Donato aveva dato a questo pamplhet di Althusser. Se non l'abbiamo mantenuto non è per distinguerci dalle scelte altrui. E' che a distanza di trent'anni lo stalinismo non è più evocativo di altri "ismi" e l'umanesimo ha perso il fascino rinascimentale che da noi ha sempre esercitato. Contrapporremo all'umanesimo fra qualche istante una categoria meno soggettiva, più "globale" e più aderente alla hidden hand che governa il mondo, cioè il mercato. Il che non ci impedirà di rivolgere un po' di attenzione anche allo stalinismo.
Althusser non banalizza la figura di Stalin, riducendola a quella, oggi così ricorrente, del despota sanguinario, macchiatosi di tutte le nefandezze umanamente concepibili. Anzi ne mette in risalto, come sarebbe dovere di ogni storico, il ruolo che ha avuto nel fare da argine al nazismo e di avere invertito, con Stalingrado, la marcia trionfale della wermacht. Commette, a mio avviso, anche l'errore di elogiarlo per la decisione con cui, contro il parere di Trotski, decise di portare avanti la costruzione del socialismo in un solo paese. Ma ciò che non gli sembra tollerabile è la riduzione della "deviazione staliniana" ai concetti di "culto della personalità" e di "violazione della legalità socialista", così come in tutta Europa avevano fatto gli apparati comunisti. Sarebbero proprio questi due concetti, secondo Althusser, a mettere in evidenza l'avvenuta contaminazione borghese del comunismo sovietico e occidentale.
Contaminazione ascrivibile, del resto, alla linea strategica adottata fin dal 1930 dalla III Internazionale, sotto la guida di Stalin. La saldatura fra umanesimo e stalinismo avviene proprio nella propensione a credere che il peso della "personalità" sia decisivo nella determinazione dei fatti storici e che le cause di avvenimenti anche gravi per le sorti di intere popolazioni siano da ricercare nelle pratiche della sovrastruttura giuridica (violazione della legalità socialista). Viceversa, per un marxista, le degenerazioni di un sistema sono sempre da ricercare all'interno delle sue contraddizioni. Dirà perciò che una critica di sinistra che accetti di parlare di deviazione e che si affidi, per definirla, alla ricerca corretta delle sue cause storiche fondamentali, non si soffermerà sull'"Uomo", o la "Personalità", ma indagherà sulle forme della sovrastruttura, sui rapporti di produzione, quindi sullo stato dei rapporti di classe e delle loro lotte, e solo a quel punto potrà parlare del diritto violato, ma anche dei motivi della violazione.

Umanesimo e economismo

E' venuto il momento di ritornare su quello che poche pagine più indietro abbiamo chiamato necessità (avvertita da Althusser negli ultimi tempi) di mettere mano a una teoria dello sfruttamento che non sia risolvibile in termini puramente contabili. Detto più esplicitamente si tratta della cruciale questione del plusvalore, che qui, per evitare prevaricanti sconfinamenti, tratterò tenendo conto solo dei pochi accenni contenuti in questa Risposta.
Mi spiego. L'umanesimo presente nella versione idealistica del marxismo - rileva Althusser - nella prassi storica dei partiti operai, ha sempre fatto coppia organica con la interpretazione deterministica dello sviluppo capitalistico. Dirà infatti: "Dietro le categorie astratte della filosofia, che le servono di facciata, è questa la coppia che volevo prendere di mira, attaccando congiuntamente, e l'umanesimo teorico (intendo dire, non una parola o qualche frase, o anche delle fertili prospettive, ma un discorso filosofico in cui `l'uomo' diventa una categoria con funzione teorica) e l'economismo, in cui le forme volgari dell'hegelismo e dell'evoluzionismo fanno corpo comune. Perché dopo Marx, nessuno (o almeno nessun marxista rivoluzionario) può sbagliarsi : quando in piena lotta di classe le litanie umaniste occupano il primo piano della scena teorica e ideologica, alle spalle c'è sempre l'economismo che vince"[15]. E poi spiega: dietro la storia dei Diritti dell'Uomo c'è Bentham (il fondatore dell'utilitarismo borghese) che trionfa; dietro l'idealismo neokantiano di Bernestein (il massimo teorico della socialdemocrazia tedesca) è la corrente economista che trionfa.
Si tratta di constatazioni inoppugnabili. Da documentare, semmai, per allontanare il sospetto che possa trattarsi di mere affermazioni ideologiche. Ho però già accennato prima al salto storico che si compirebbe affrontando il discorso del plusvalore, così come l'ha impostato Marx all'epoca della manifattura, con i parametri dell'attuale organizzazione del lavoro. Adesso è il momento di aggiungere che il criterio "contabile" non è l'unico con cui Marx si rapporta al problema dello sfruttamento capitalistico, che poi è l'altra faccia dell'espropriazione del plusvalore.
Già Raniero Panzieri, nel suo magistrale Plusvalore e pianificazione, aveva evidenziato come l'espropriazione del plusvalore operaio si traduca in una crescita continua del potere del capitale e come a porre un limite a questa crescita non ci sia altra forza che quella della "resistenza della classe operaia"[15].
Il potere di per sé non è una categoria contabile, ma, se non bastasse questa interpretazione isolata, andando a spulciare in ciò che Marx si riprometteva di sviluppare nel suo Il Capitale, se la morte non glielo avesse impedito, ci accorgeremmo che nei suoi Grundrisse Marx aveva gia annotate le probabili trasformazioni qualitative della sfera capitalistica di produzione. E' il lungo elenco che il lettore troverà in nota a piè di pagina e che contempla la maggior parte dei lavori che i nostri economisti si ostinano a chiamare "improduttivi", quando invece costituiscono la fonte primaria di plusvalore che accresce il potere non solo economico del capitale[16].
Il fatto che tutti questi lavori contribuiscono, chi direttamente, chi indirettamente, all'accrescimento del potere capitalistico, dovrebbe di per sé aiutare nella ricerca, che prima ponevo, dell'attuale agente storico della rivoluzione. Non posso però non considerare che le opzioni ideologiche, da un lato, e gli effetti materiali delle attuali divisioni internazionali del lavoro, dall'altro, rendano quanto mai problematica una classificazione univoca dell'attuale composizione di classe. Ciò che mi premeva e mi preme affermare per il momento è però che l'uso contabile del concetto di plusvalore, più che a Marx, si debba imputare ai partiti e ai sindacati riformisti, che, per giustificare la loro vocazione centrista, hanno bisogno di dilatare il concetto di ceto medio.
In quanto ad Althusser, ora che il discorso si avvia alla sua naturale conclusione, converrà fare un accenno a quelle che sono state considerate le sue nuove "aperture" degli anni '80.
Inizierò dal rapporto fra caso e necessità, che, come opportunamente ha ricordato di recente Maria Turchetto, ha suscitato l'interesse di Althusser fin dai tempi dela sua IV lezione introduttiva al "corso di filosofia per operatori scientifici" (ott./nov. 1967)[17].
Né io, né altri più documentati di me possono affermare che Il caso e la necessità di Monod abbia alla distanza ispirato il "materialismo aleatorio" di Althusser. Di sicuro sappiamo, e Maria Turchetto ce lo conferma, che Althusser giudicava quella di Monod "una teoria idealista della storia", basata sulla "credenza che siano le idee che governano il mondo". La riprova di questo giudizio non ci viene soltanto dalle affermazioni dello stesso Monod, o dalle critiche di Althusser. Ce la dà indirettamente un altro Nobel della chimica, Ilya Prigogine, quando scrive che "La scienza moderna atterriva sia i suoi oppositori, che la consideravano un'avventura inaccettabile e minacciosa, sia alcuni dei suoi sostenitori, come Monod, che hanno visto nella solitudine scoperta dalla scienza il prezzo da pagare per questa nuova razionalità"[18]. La solitudine in cui si crogiola Monod nasce dalla sua personale convinzione (idea che si dimostrerà vera solo a metà, grazie agli esperimenti di Prigogine) di essere la natura passiva e morta e che, una volta programmata, segue eternamente le regole scritte nel suo programma. La scoperta, questa sì veramente rivoluzionaria, di Prigogine sta invece nella dimostrazione che la natura è cieca e sorda solo in situazione di equilibrio. In situazione di lontananza dall'equilibrio, e in particolare in prossimità dello loro biforcazioni, i sistemi naturali diventano sensibili anche a una piccola fluttuazione proveniente dall'ambiente. Possono allora cambiare anche drasticamente il loro comportamento e interagire con le stesse azioni dell'uomo. "Non si può sfuggire all'analogia con i problemi sociali, addirittura con la storia. - Lungi dall'opporre `caso e necessità' cominciamo a vedere come entrambi questi aspetti siano essenziali nella descrizione dei sistemi non lineari lontano dall'equilibrio"[19].
Una tale acquisizione scientifica, in nessun caso sospettabile di derivazione ideologica, perché scaturita da ripetute prove sperimentali, suggerisce anche di porre diversamente la separazione fra "scienze della natura e scienze storico-sociali" di weberiana memoria. Ma la cosa che ci riguarda più da vicino è se una eventuale teoria del materialismo aleatorio, o dell'"incontro" che dir si voglia, possa ancora oggi poggiare su un ingenuo atomismo epicureo, dal momento che, come sottolinea sempre Prigogine, il comportamento di un "orologio chimico" è assai diverso da quello caotico della polvere che danza nell'aria.
E veniamo ora al deperimento dello Stato. Se il marxismo vuole costituirsi come metodo scientifico e insieme perseguire l'obiettivo di un salto qualitativo nella strutturazione dello Stato, diventa maggiormente d'obbligo fare i conti con le categorie di "entropia" e "soglia di nucleazione". Dovrà uniformarsi, cioè, nella sua azione ai comportamenti dei sistemi complessi lontani dall'equilibrio e soffermarsi sulla formazione delle "fluttuazioni pericolose" e delle "strutture dissipative"[20].
L'uomo non fa la storia, ma agisce in essa - ci ricorda saggiamente Althusser - e in questo agire c'è anche l'azione nella natura, che può accelerare i tempi della catastrofe, ma può anche anticipare quel cambiamento di stato a cui il nostro sistema sociale è destinato ad andare incontro, via, via che si allontana dal suo iniziale stato di equilibrio.
C'è un bellissimo passo di Hobsbawm che amo ricordare ora che mi avvio a concludere: "Come un `surfer' il rivoluzionario non crea le onde su cui si muove, ma si limita a tenersi in equilibrio su di esse. A differenza del `surfer' - e qui sta la differenza fra il rivoluzionario serio e la prassi anarchica - prima o poi smette di correre sull'onda e deve controllare la sua direzione e il suo movimento"[21].
Non so quanto sia opportuno parlare di rivoluzione e di rivoluzionari nel terzo millennio. C'è ancora chi fa fatica a capire che la rivoluzione con la r minuscola non è legata all'evento catartico, irripetibile a cui solo pochi privilegiati possono assistere, ma si compie - quando se ne ha la vocazione - giorno per giorno cominciando col mettere in discussione gli schemi e le certezze del giorno prima.
Nel mare della vita chi ama la libertà nel cambiamento deve imparare a osservare il moto delle onde prima di saltare sul suo surf. Questa dovrebbe essere la prima regola da osservare per chi, senza avere la pretesa di farla, vuole agire nella storia. Imparerà così a conoscere che il mare della storia gli si presenta, ora come necessità, con le sue leggi di galleggiamento legate alla statica dei fluidi, ora come caso, affidato ai capricci del vento e delle correnti.
La seconda regola è certamente la più difficile da osservare.
Per darsi una direzione anche il surfer ha bisogno di un télos. Qui scatta quel pericolo che dicevo di trovarsi soli davanti al naufragio. Oppure, quello più ricorrente che, al limite del télos, si finisca per mettersi alla ricerca di théos. E quanti navigatori degli albori hanno finito per fare rotta verso il Sole vedendolo salire sull'orizzonte! E però, se il navigatore, prima di salpare le ancore, si dà una rotta, questo vuol dire che si è attrezzato con le carte e sa dove volere approdare. Non è stato però sempre così e le più grandi scoperte si sono avute quando la meta risultò diversa da quella prevista. L'umanità non avrebbe conosciuto nessuna rivoluzione se coloro che hanno agito nella storia avessero avuto chiari fino in fondo i loro approdi.
Ma come si concilia allora l'amore per l'ignoto con la necessità che ha il surfer rivoluzionario di controllare la sua direzione e il suo movimento? Qui si ritorna al problema della scienza, che però è problema sia di "verificazione", sia di "falsificazione", come propone K. R. Popper. Nell'uno e nell'altro caso, però, non c'è "vero" e non c'è "falso" che non debba essere provato nella prassi. Ma è la teoria che illumina la prassi e non c'è prassi rivoluzionaria (ci ricorderebbe il nostro Althusser) senza teoria rivoluzionaria.
Ebbene, contraddicendo il mio maestro, azzarderò di dire che le cose non stanno esattamente così. Intendo sostenere cioè che mi trovo d'accordo con la prima proposizione, non con la seconda: nessuna prassi può essere attivata senza il supporto della teoria, ma non è detto che quest'ultima debba essere pregiudizialmente "rivoluzionaria" per attivare una prassi rivoluzionaria. Oltretutto, chi può giudicare se una teoria è rivoluzionaria prima ancora che la prassi ad essa riconducibile possa confermarlo?
Nessuna teoria è di per sé rivoluzionaria o conservatrice. Può risultare solo in parte o totalmente vera, parzialmente o totalmente falsa. Prima di questa dimostrazione - che è affidata alla prassi - alla teoria si può chiedere solo che la sua struttura linguistica risulti coerente con i suoi enunciati assiomatici e denotativi.
Alla teoria si richiede perciò una perfezione che la prassi non può e non deve conoscere. Una perfezione che s'imponga alla nostra ammirazione con la stessa "gaudiosa apparenza" che l'artista apollineo rivive nel mondo figurativo del sogno.
Una "gaia scienza" dunque, ma non nel senso nietzschiano di una "coscienza come prodotto di una socializzazione gregarizzante", ma di una conoscenza maturata attraverso il gusto della forma, l'incisività del segno, la perfezione delle geometrie. Un modo quindi di superare anche l'antinomia arte-scienza, senza che la prima scada nell'imitazione di quanto già appare e la seconda nella spiegazione di quanto è già nelle apparenze.