Maria Turchetto è stata recentemente istigata alla stroncatura di Impero di Hard e Negri. L'operazione, commissionata inizialmente al vecchio killer da Actuel Marx, è stata successivamente appoggiata da altre riviste italiane e straniere. La versione più estesa di questo lavoro di bastonatura teorica è ospitato nella rivista virtuale <http://www.intermarx.com> e comprende il pezzettino, non pubblicato altrove, sulle ambigue simpatie degli autori di Impero per Althusser e Foucault che qui di seguito proponiamo.
Per concludere, mi sento in dovere di fare qualche pulce alla categoria
di "umanesimo" impiegata dagli autori e centralissima nella loro
argomentazione. "Strano umanesimo", come ho già detto:
strano perché è il prodotto di una ibridazione (o di
un contagio? di un meticciato? di una corruzione? tutte
queste cose sono comunque molto, molto imperiali e postmoderne) tra la cultura
anglosassone e quella italiana degli autori. Per un anglosassone, umanesimo
significa in primo luogo "a system of belief and standards concerned
with the needs of people, and not with religious ideas", dunque laicismo
o ateismo, e solo in secondo luogo "the study in the Renaissance of
the ideas of the ancient Greeks and Romans" (Longman, Dictionary
of English Language and Culture). Per un italiano, l'Umanesimo è
un glorioso capitolo della storia patria: è il "movimento intellettuale
che accompagnò la nascita e lo sviluppo del rinascimento (seconda
metà del sec. XIV-XVI)" (Garzanti, Nuova enciclopedia universale),
quello di Petrarca, Alberti, Ficino e Pico della Mirandola. Per intenderci,
chiameremo il primo "significato filosofico", il secondo "significato
storico" del termine umanesimo. L'ibridazione tra i due consiste in
pratica nel sostenere che Petrarca, Alberti, Ficino e Pico della Mirandola
(insieme ad altri autori, precedenti o successivi, ma ritenuti in qualche
modo filosoficamente irrinunciabili, primo tra tutti Spinoza) riscoprirono
non già i ciceroniani studia humanitatis, ma l'ateismo. Più
precisamente, a questi autori (considerati peraltro espressioni della "moltitudine",
vera artefice di questa rivoluzione culturale) si deve il rovesciamento
della trascendenza in immanenza, la sostituzione dell'uomo a dio nella prerogativa
della creazione.
Per la verità il "significato filosofico" (anglosassone)
del termine ha un precedente ottocentesco (ed europeo: me ne scuso con Hardt,
ma è impossibile non essere eurocentrici nel campo della storia della
filosofia occidentale): penso soprattutto a Feuerbach, che usò appunto
il termine "umanesimo" per caratterizzare la propria posizione
antiteologica e antispeculativa. Ed è ben noto che Marx criticò
pesantemente l'umanesimo feuerbachiano nelle Tesi su Feuerbach e
nell'Ideologia tedesca, in quanto fondato su un'idea metastorica
di uomo. Di umanesimo si parlerà ancora nel '900 con Sartre (L'esistenzialismo
è un umanesimo); soprattutto, nel '900, si parlerà molto
autorevolmente di antiumanesimo: dalla Lettera sull'umanesimo di
Heidegger, alle posizioni "antiumanistiche" di Althusser (emblematica
- e molto esplicita - è la parte finale del saggio E' facile esseremarxisti
in filosofia?) e di Foucault (penso soprattutto allo straordinario capitolo
"L'uomo e i suoi duplicati" di Le parole e le cose).
Che guaio! Gli autori preferiti dei Nostri - Marx, Althusser, Foucault -
sono critici dell'umanesimo filosofico! Che fare? L'elzeviro
L'UMANESIMO DOPO LA MORTE DELL'UOMO (pp. 125-126) tenta di salvare capra
(umanesimo) e cavoli (Althusser e soprattutto Foucault): a forza di giochi
di parole e di botte di dialettica, sostenendo che Il Foucault delle ultime
opere (quelle sulla "cura del sé") è, in realtà,
umanista, anzi uno dei migliori seguaci dell'umanista più bravo di
tutti che è Spinoza, il che comunque non contraddice le opere precedenti,
ma configura un interessante "umanesimo antiumanista (o post umano)"
(p. 126), del tutto in linea con il progetto rinascimentale. Povero Foucault,
frullato nella dialettica!
La contraddizione, in realtà, questa volta è insanabile, non
c'è dialettica che tenga: in primo luogo, perché l'"umanesimo
filosofico" proposto da Empire è proprio quello criticato
da Marx, Althusser e Foucault; in secondo luogo, perché non ci sono
sintesi abbastanza potenti da tenere insieme impostazioni teoriche incompatibili:
lo storicismo umanistico professato da Hardt e Negri non può avere
che un rapporto di Realrepugnanz con il radicale antistoricismo di
Althusser, con la critica al "marxismo umanistico" che questo
autore ha costantemente portato avanti, con il sistematico smontaggio delle
"scienze umane" cui Foucault ha dedicato una vita di studi. Non
è un problema da poco, perché, tra i 126 autori (li ho contati)
citati in Empire, Althusser e Foucault sono, per così dire,
quelli davvero presenti: importanti, presi sul serio, utilizzati. A loro
vengono tributati interi elzeviri, le loro categorie sono ampiamente
riprese, impiegate, rielaborate.
Althusser, forse, delle due è l'auctoritas minore. La lezione
principale che Hardt e Negri ne traggono consiste nell'individuare in Spinoza,
Machiavelli e Marx i punti più alti del pensiero politico occidentale
autenticamente democratico. Un simile prestito, senz'altro limitato, consente
forse di passare sotto silenzio aspetti fondamentali dell'elaborazione althusseriana,
assai difficili da integrare in uno zibaldone come Empire, pure apparentemente
in grado di metabolizzare qualsiasi cosa. In primo luogo, la critica al
"marxismo umanistico", appunto, sotto la quale l'impianto di Empire
ricade totalmente. Sentite Althusser: "E' in causa [...] la pretesa
teorica di una concezione umanistica di spiegare la società e la
storia, partendo dall'essenza umana, dal soggetto umano libero, soggetto
dei bisogni, del lavoro, del desiderio, soggetto dell'azione morale e politica.
Io sostengo che Marx non ha potuto fondare la scienza della storia e scrivere
Il Capitale se non a condizione di rompere con la pretesa teorica
di ogni umanismo di questo genere"[1].
Sembra scritto contro Empire. In secondo luogo, la critica radicale
a ogni "filosofia della storia" e, in particolare, a quella che
la tradizione marxista ha confezionato "con un certo numero di formule
di Marx ed Engels [...], questo hegelismo rovesciato che alimenta un'impossibile
e impensabile filosofia della storia [...], la cattiva filosofia della rivoluzione
inevitabile come Fine dei Tempi, come compimento dell'essenza umana, ecc."[2]: calza come un guanto alle storie narrate
da Hardt e Negri. In terzo luogo, la critica al soggettivismo: come conciliare
una dinamica capitalistica pensata come "processo senza soggetto"
con l'idea tutta operaista della soggettività operaia che spinge
e plasma il capitalismo e le sue trasformazioni? come conciliare le tesi
sul "materialismo aleatorio" degli ultimi scritti althusseriani
con "la storia prodotto dell'azione umana", per di più
coerente e prevedibile al punto che possiamo contemplarne la fine, mostruosa
storia al tempo stesso retta da leggi e mossa da soggettività coscienti
che troviamo all'opera in Empire?
Con Foucault le cose vanno ancora peggio, perché il prestito è
più cospicuo. Di Foucault vengono ripresi i concetti di "biopolitica"
e "biopotere": Negri se n'è invaghito da qualche anno,
e continua a farne un uso improprio. "Il comando imperiale non si esercita
secondo le modalità disciplinari dello stato moderno, bensì
con le modalità del controllo biopolitico" (p. 319), leggiamo
in Empire. Ancora: "l'Impero costituisce la forma paradigmatica
del biopotere" (p. 16). Peccato che, in Foucault, la "biopolitica"
designi invece la peculiare tecnologia di potere che opera nello Stato-nazione,
l'"arte di governare" legata all'emergere della "ragion di
Stato"[3]; e peccato che, per Foucault,
il "biopotere" si caratterizzi proprio le modalità disciplinari
del suo esercizio[4]. Ma allora come
è possibile, restando fedeli a Foucault, attribuire la biopolitica
all'Impero (alla scomparsa dello Stato-nazione anziché alla
sua comparsa) e negare il suo carattere disciplinare?
Non disperate, i nostri acrobati non temono nulla, tantomeno le contraddizioni.
Li abbiamo già visti ricorrere ai libri del Capitale che Marx
non ha scritto: a Foucault riservano un trattamento analogo, attribuendogli
una distinzione tra società disciplinare e società del controllo:
"Per molti aspetti, l'opera di Michel Foucault ha preparato il terreno
all'analisi del funzionamento concreto del comando imperiale. In primo luogo,
essa ci permette di individuare un passaggio storico fondamentale nelle
forme sociali, e precisamente, il passaggio dalla società disciplinare
alla società del controllo" (p. 38). In nota, leggiamo
che "pur non essendo articolato esplicitamente da Foucault, il passaggio
dalla società disciplinare alla società del controllo rimane
implicito nelle sue opere": insomma, non l'ha mai detto ma qualche
volta deve averlo pensato, e comunque il gioco è fatto, l'uno si
è diviso in due e abbiamo ottenuto un concetto per lo Stato-nazione,
la "disciplina", e un concetto per l'Impero, il "controllo".
Ora si tratta di definire in che cosa il controllo sia diverso dalla disciplina,
e qui le cose si fanno un po' più difficili: il controllo è
una disciplina più interiorizzata e più ampia, "la società
del controllo può quindi essere definita come una intensificazione
e generalizzazione dei dispositivi normalizzatori della disciplina [...]
che si estende ben oltre i luoghi strutturati dalle istituzioni sociali,
mediante una rete flessibile e fluttuante" (p. 39). Un cambiamento
un po' troppo semplicemente quantitativo per segnare una svolta epocale?
Possiamo sempre sperare, hegelianamente, in un salto dalla quantità
alla qualità. Il controllo, insomma, è una sorta di stadio
supremo della biopolitica, in cui la biopolitica "non si limita
a regolare le interazioni umane, ma cerca di dominare la natura umana"
(p. 16).
In quest'ultima frase è possibile cogliere, al di là delle
forzature e degli usi impropri dei testi foucaultiani, l'effettiva incompatibilità
tra la concezione del potere proposta da Foucault e quella degli autori
di Empire. Per Foucault il biopotere non domina la natura umana,
la crea. In questo consiste l'"antiumanesimo" di Foucault,
impossibile da conciliare con l'"umanesimo" di Hardt e Negri:
non c'è un Uomo autentico oppresso dal potere, è una specifica
forma di potere (più precisamente, le pratiche discorsive ad esso
collegate) che ha creato la peculiare nozione prometeica di Uomo che ancora
circola nelle società occidentali e che Hardt e Negri puntualmente
ci ripropongono. Il potere moderno, ci insegna Foucault, ha modalità
positive, costruttive e non meramente repressive: ma questa lezione non
può essere accettata se si vuole tutta la creatività dalla
parte della moltitudine oppressa. "Prima della fine del XVIII secolo
l'uomo non esisteva, come non esistevano la potenza della vita, la
fecondità del lavoro, lo spessore del linguaggio. E' una creatura
recentissima quella che la demiurgia del sapere fabbricò con le sue
mani, meno di duecento anni or sono. Ma l'uomo è invecchiato così
in fretta che si è potuto facilmente pensare che egli avesse atteso
nell'ombra, per la durata di millenni, il momento d'illuminazione in cui
sarebbe stato infine conosciuto"[5].
Ed ecco qui Hardt e Negri che ancora una volta, dopo Adam Smith, dopo Feuerbach,
riscoprono l'uomo, la potenza della vita, la fecondità del lavoro,
la forza creatrice del linguaggio.
Prima di flirtare dell'altro con Foucault, bisognerà prendere una
decisione: è il biopotere che plasma l'uomo, o è la moltitudine
che possiede da sempre il biopotere, e che smettendo di porlo al servizio
del capitale realizzerà finalmente il comunismo? Il lieto fine di
Empire in cui "il biopotere e il comunismo, la cooperazione
e la rivoluzione restano insieme semplicemente nell'amore, e con innocenza"
(p. 382), suggerisce questa seconda prospettiva. Contro la lezione
di Foucault che, come ogni pensatore davvero critico, ci impone il prezzo
dell'abbandono delle ideologie consolatorie.