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La lezione di Althusser tra scienze, politica e filosofia.

 

di Andrea Cavazzini


pubblicato in Critica Marxista n. 1, 2009


 

 

Il terzo convegno internazionale organizzato a Venezia dall’Associazione “Louis Althusser”, guidata da Maria Turchetto, si è tenuto a Venezia nei giorni 29-30-31 ottobre[1], ed è stato pensato secondo una formula ambiziosa. Se, da un lato, si trattava di presentare la nuova traduzione di Per Marx, opera inaugurale del filosofo comunista francese e della sua rilettura di Marx[2], dall’altro lo scopo era di riprendere il rapporto con le scienze ed il loro divenire storico che Althusser riteneva centrale, non solo per poter cogliere il significato dell’opera marxiana, ma anche per conquistare una posizione critica nel campo filosofico (tale è il progetto del Corso di filosofia per scienziati, la cui pubblicazione ha inaugurato nel 2000 le attività dell’Associazione, e di cui si è a lungo parlato nel convegno).

Rispetto al convegno di due anni prima, in occasione della traduzione di Leggere “Il Capitale”, mirante ad offrire una vasta panoramica internazionale delle possibili linee di sviluppo dell’eredità althusseriana, queste giornate si sono date obiettivi più determinati e legami tematici più stretti tra i diversi interventi: questa linea è stata premiata dallo sviluppo di un ricco dibattito tra i partecipanti, sorto spontaneamente dai rimandi impliciti ed espliciti di ciascuna relazione alle altre. In questo senso, si è avuta una dimensione più propria ad un seminario di lavoro che ad un convegno, si è cioè potuto assistere in atto ad uno sviluppo di problemi e ad una circolazione di concetti come ad altrettanti frutti di un lavoro comune non risolvibile nella mera somma di linee di ricerca ovviamente già avviate ed indipendenti.

La tavola rotonda, in apparenza eterogenea alle giornate epistemologiche, ha in effetti cercato di stabilire un bilancio dell’operazione althusseriana inaugurata da Per Marx attraverso un tentativo, da parte di Y. Duroux (protagonista e testimone diretto di quella stagione esaltante di innovazioni teoriche e politiche), di riprendere sistematicamente i nodi concettuali cruciali e tuttora aperti del lavoro di Althusser – quali l’ideologia, la filosofia, la pratica – e dei “colpi di sonda” su temi specifici: lo statuto dell’ideologia e la critica dell’immediatismo fenomenologico, di cui S. Legrand ha sostenuto l’opposizione ad una nozione del pensiero e della conoscenza come pratica e produzione; l’analisi, condotta da G. Sibertin-Blanc, sul ruolo della metafora teatrale nell’idea di un pensiero che si costruisce innanzitutto come Darstellung, “messa-in-scena” e dispositivo topico; e infine il rapporto tuttora enigmatico ad Hegel (C. Loiacono). Lo sfondo di queste posizioni teoriche althusseriane resta cruciale per comprendere il significato dell’operazione che il filosofo ha voluto intraprendere rispetto alle scienze – operazione che, nelle due prime giornate, si è voluto in certo senso ripetere, aldilà della lettera althusseriana, ma cercando di ritrovarne il senso a partire dal modo in cui si pone attualmente il doppio problema della costruzione della conoscenza entro le pratiche e i dispositivi concettuali delle scienze e dell’esistenza delle scienze in un campo di forze sociali e ideologiche implicate in modi diversi in questa costruzione (appunto, i temi dell’ideologia, della pratica, e della produzione di pensiero che la tavola rotonda ha ritrovato al cuore di Per Marx).

Le due giornate rappresentano quindi un doppio asse problematico suggerito dalle posizioni althusseriane: da un lato, quello delle innovazioni interne al pensiero scientifico in quanto esse inducono (per riprendere un termine caro a Ch. Alunni) trasformazioni dei quadri della razionalità, mutazioni nel modo di pensare, effetti imprevedibili nell’insieme delle forme umane di vita e dunque dell’immagine che gli uomini hanno di se stessi e del loro rapporto con la realtà; dall’altro, quello degli effetti che le ideologie, i rapporti economici e politici, e le mentalità diffuse (che M. Buiatti chiama “spirito del tempo”) esercitano sulla produzione e la trasformazione del pensiero scientifico. Donde degli sviluppi che hanno toccato i concetti portanti grazie a cui ogni scienza delimita la propria specificità nel campo del sapere e i rapporti sistematici e storici dei singoli ambiti scientifici (quindi la stratificazione storica di ciascuna scienza, il ritmo specifico della sua storicità), fino ad investire lo statuto della nozione di verità e quello del discorso filosofico.

Lo studio delle “scienze in atto” ha rivelato innanzitutto la crucialità odierna della biologia, al cuore di numerosi interventi (Longo, Cavazzini, Buiatti): le scienze della vita sono oggi in grado – almeno virtualmente, cioè a condizione che qualcuno pensi realmente ciò che racchiude la loro situazione attuale per costruire a partire da ciò un apparato concettuale adeguato – di liberarsi dalle ideologie del riduzionismo fisicalista e del determinismo genetico-molecolare, per cogliere invece la specificità irriducibile dello “stato vivente della materia” (termine caro a Buiatti). Per G. Longo si tratta quindi di mostrare analogie e differenze tra matematica, fisica e biologia nel pensare l’impredicibilità (rispettivamente come indecidibilità di proposizioni formali, comportamento caotico di sistemi fisici deterministici, e impossibilità di ricavare l’organismo dal solo livello genetico), e al tempo stesso di cercare strumenti fisici e matematici in grado di cogliere la singolarità fisica “anti-entropica” del vivente nell’ottica di una teoria globale delle categorie specificamente biologiche. Inoltre, l’attuale ricerca Evo-Devo, articolando sviluppo ed evoluzione, reintroduce una problematica relativa alla dimensione formale e strutturale del vivente – una problematica dell’acquisizione dinamica della forma nel corso dell’ontogenesi e del rapporto all’ambiente che permette di articolare selezione naturale e eredità alla considerazione dell’organismo come un tutto, realizzando quella Nuova Sintesi, comprensiva delle dimensioni anatomiche, fisiologiche, etologiche e embriologiche, preconizzata da C. H. Waddington, ma conculcata dalla Sintesi Moderna mendelo-darwiniana degli anni ’30-’40 prima, poi dal boom delle ricerche molecolari e genomiche. Da tutto ciò, l’intervento di A. Cavazzini ha tratto la possibilità di costruire oggi un sistema categoriale specifico alla biologia, che reincorporerebbe antiche nozioni filosofiche quali potenza e totalità. Queste nozioni possono venir recuperate dalla biologia contemporanea (dopo essere state proscritte dalla Sintesi Moderna), in virtù del ritmo ricorsivo e non lineare della storia delle scienze della vita. Ciò mette in questione un concetto althusseriano centrale (ispirato dai lavori di Alexandre Koyré sulla rivoluzione scientifica), la rottura epistemologica da cui ogni scienza otterrebbe la propria specificità demarcandosi dalle altre e dai discorsi prescientifici.

F. Balibar ha mostrato (rileggendo il Corso di filosofia per scienziati) che già in una scienza apparentemente così demarcata dalla propria preistoria quale la fisica, questa rottura è problematica, e resta difficile individuarla in modo univoco rispetto ai differenti livelli, e quindi alle differenti storicità, di cui consta un campo scientifico: la rottura epistemologica ha una sua validità (perché le cose cambiano senza dubbio tra Galilei e l’aristotelismo, per dirla con Koyré, così come tra Newton-Euclide e Einstein, per dirla con Bachelard), ma a condizione di specificarne i piani locali e molteplici di pertinenza.

Anche Ch. Alunni ha insistito su una continuità nelle scienze, al livello delle strategie diagrammatiche, dei dispositivi figurali, ad un tempo visivi e manuali, che intervengono ricorsivamente nella costruzione del pensiero fisico-matematico: i diagrammi fissano gesti ed operazioni e ne inducono di nuovi, possono essere modificati, variati e trasposti per produrre accostamenti inediti e innovazioni concettuali, in essi si sedimenta il pensiero scientifico in atto. Inoltre, con ciò si mostra la natura ad un tempo costruttiva e intuitiva del concetto scientifico: diagrammi e formule sono ben lungi dall’offrirsi immediatamente al senso vissuto (ideologico, si è detto), eppure conservano un nocciolo tematico suscettibile di intuizione intellettuale, di un’apprensione intuitiva ed astratta, ciò che distrugge il dualismo filosofico tra percezione e intelletto, tra conoscenza intuitiva e simbolica.

Questa stratificazione storica delle scienze comprende “strati” extrascientifici: Buiatti ha messo in luce gli interessi economici e il sistema di valori e pregiudizi (orientato all’utilità immediata e al profitto) che sostengono la persistenza di un riduzionismo genetico scientificamente insostenibile: in generale, Longo, Cavazzini e Buiatti hanno a vario titolo ricordato la tesi (bachelardiana) per cui il pensiero scientifico è attraversato da valori extrascientifici, d’origine non solo ideologica e sociale, ma anche affettiva, che orientano, flettono, e modificano, la posizione dei problemi, la creazione dei concetti, e i presupposti impliciti che strutturano l’attività conoscitiva: ad esempio, la richiesta di un determinismo capace di prevedere integralmente le possibilità del vivente a partire dai suoi geni è retta da una passione per la sicurezza e la certezza (già presente nella ricerca della “decidibilità” in matematica e della predicibilità laplaciana in fisica), che si combina poi con richieste sociali di controllo e di certezza degli utili. Ma questi valori di sicurizzazione e di utilità non sono i valori – o non i soli – dello spirito scientifico, che procede soprattutto per distruzione delle certezze preliminari e ovvie e che implica un atteggiamento di ricerca disinteressata incompatibile con la sottomissione ad imperativi utilitaristici (Longo ha giustamente ricordato che grandi innovazioni concettuali in matematica, fisica e biologia sono frutto di risultati negativi - che determinano i limiti di un campo teorico dall’interno e con i mezzi del campo stesso - non applicabili in modo immediato: ma oggi la dimostrazione di non poter fare qualcosa verrebbe ritenuta improduttiva e inutile da molti scienziati e dai loro finanziatori pubblici e privati…).

Sulla base di queste ricerche, gli interventi di Castelli Gattinara e Turchetto, e la Presentazione di “Epistemologia”, hanno affrontato problemi di principio destinati a restare aperti. Se Castelli ha perorato la causa di una nozione aperta e costruttiva di “verità”, tratta da correnti filosofiche quali il razionalismo aperto di Brunschvicg e di Enriques, fino a Foucault e Althusser, nell’ottica di una considerazione dello spirito scientifico come una posizione di valore in dibattito costante con altre nel campo storico e sociale, M. Turchetto ha invitato – sulla base del citato Corso althusseriano – a farla finita con le genericità mistificatorie della filosofia: contrariamente alle tesi di Althusser, non sarà “la filosofia di Marx” a poter “essere utile alle scienze”, ma proprio la “scienza di Marx”, la scienza della storia e delle formazioni sociali che consente agli scienziati di veder chiaro nella loro collocazione sociale, laddove la filosofia non fa che “sfruttare” le scienze tramite il gioco verbalistico di nozioni vuote.

Il dibattito su questi è temi proseguito nella Presentazione di “Epistemologia” il pomeriggio del 30 ottobre. Poiché chi scrive ha partecipato al dibattito con posizioni proprie, le riesporrò qui brevemente: sul nesso scienze-società, mi sembra che lo specifico dell’epistemologia francese rispetto ad altre correnti di epistemologia storica (la scuola inglese di Haldane e Needham, quella sovietica di prima dell’era staliniana[3]) consista nel rifiuto di ridurre lo spirito scientifico all’epifenomeno di valori culturali – esso stesso è un valore, ma un valore autonomo, e suscettibile, in virtù della sua autonomia, di opporre una resistenza all’assorbimento dell’attività conoscitiva nelle norme sociali dominanti. Oggi il pericolo maggiore mi sembra essere non solo il rifiuto da parte della scienza di riconoscere la propria non-neutralità rispetto alla società, ma anche e soprattutto il fatto che questa pretesa di neutralità coincida con una sottomissione acritica ad imperativi sociali (l’“utilità”) dati come naturali (utilità per chi e rispetto a quali criteri?), cioè che la presunta neutralità della scienza come strumento rafforzi la sua incorporazione ai rapporti di potere. Riaffermare l’autonomia dello spirito scientifico significa allora accentuarne il valore di indipendenza rispetto alle norme stabilite da questi rapporti.

Riguardo alla filosofia, un altro carattere dell’epistemologia francese è la tesi per cui il divenire delle scienze produce della filosofia, fa nascere nuovi concetti e apre nuove possibilità alla razionalità. Ciò rende insufficiente (senza annullarla del tutto) la distinzione tra una filosofia “che serve le scienze” ed una che “le sfrutta”, perché entrambe queste alternative sembrano trascurare le mutazioni che le svolte delle scienze impongono al discorso filosofico e la capacità di questo di intervenire a sua volta in queste svolte in modo produttivo e non parassitario o subalterno – cioè di essere anche un discorso interno alle scienze, e non solo un’istanza esterna condannata ad oscillare tra la mistificazione e la profilassi. Da ciò segue che lo statuto della filosofia è semplicemente instabile e indefinibile, e che la misura dei suoi effetti entro la dialettica scienze-società va presa caso per caso[4].

Come si diceva, questi temi non sono stati certo chiusi dal convegno veneziano. L’importante è che siano stati almeno sollevati. Un bilancio di questo convegno deve quindi valutarne il tentativo di articolare ricerche e ambiti disciplinari la cui traducibilità non è (più) evidente oggi, e auspicare che ciò costituisca l’inizio di un processo generale di riflessione in una fase storica in cui una società sempre più abbassata al livello delle sue norme dominanti sembra dirigersi con caratteristico cupio dissolvi verso un’epoca di eclissi tanto della scienza, intesa come ricerca critica di verità e di sapere, che della filosofia, intesa come riflessione critica sulle condizioni e gli effetti della verità e del sapere. Non è improbabile che queste due eclissi siano in qualche modo legate a quella, persistente, di quasi ogni principio di orientazione nell’ambito politico. Ma questo non è il luogo per aprire questo ulteriore interrogativo.

    

                                                     


 

[1] Si veda il sito dell’Associazione per il programma dettagliato: ricordiamo che la prima giornata “Scienze in atto/Attualità delle scienze” ha visto gli interventi di F. Balibar, G. Longo, A. Cavazzini, Ch. Alunni e E. Castelli Gattinara, mentre la seconda, “Scienze e società”, è stata animata da M. Buiatti, M. Galzigna, M. Turchetto. La defezione di A. Cutro e V. Morfino ha fatto sì che il pomeriggio del giorno 30 fosse dedicato ad una presentazione – animata da M. Buiatti, E. Castelli, A. Cavazzini e M. Turchetto - di “Epistemologia”, collana gestita dall’Associazione, assieme alla gemella “Althusseriana”, presso Mimesis, e dedicata all’epistemologia storica “alla francese”.   

[2] Ora edito da Mimesis, Milano, in “Althusseriana”; alla tavola rotonda del 31 ottobre, dedicata a questa nuova traduzione, hanno partecipato Y. Duroux, L. Tomasetta, S. Legrand, C. Loiacono, G. Sibertin-Blanc. 

[3] Un discorso a parte – impossibile in questa sede – meriterebbero Marcello Cini e gli autori del celebre L’ape e l’architetto (di cui Ch. Alunni è il traduttore francese), la cui ascendenza è panzieriana e operaista. 

[4] Y. Duroux ha ricordato nella tavola rotonda che quando Althusser parla di “filosofia” intende una struttura disciplinare e istituzionale francese - legata alla costruzione del sistema educativo repubblicano, alla formazione delle élite, ed alla correlativa gerarchizzazione dei saperi - per cui la filosofia è un affare di Stato, e nel rapporto di “addomesticamento” delle scienze nel quadro della formazione di una società borghese laica e democratica trova una sua legittimazione cruciale. Il rapporto scienze-filosofia va dunque visto non apriori, ma a partire dalla specificità dei modelli disciplinari nella costruzione dei sistemi universitari dell’Europa moderna e contemporanea.