Fondazione "Corrente", 1 giugno, 2002
Al Principio era il Caso: note su una filosofia della/nella frontiera
Silvia Bianchi
"L'ingiustizia è come i serpenti:
morde solo chi è senza scarpe"
(Óscar Arnulfo Romero)
Nel corso di tutta la sua opera (o, se si preferisce, della sua assenza
d'opera), Althusser si trova ad essere, non sempre 'a libro aperto',
e probabilmente suo malgrado, pensatore della e nella frontiera,
transitando da una logica contraddittoria che 'unisce e separa' dei
suoi primi interventi teorici, ad una logica paradossale che 'unisce in
quanto separa' e che presuppone un attraversamento dei campi avversari,
come si può cominciare a leggere sin dagli scritti posteriori a Leggere
il Capitale (1965) e a Per Marx (1965). Se, infatti, in
questi ultimi testi, la filosofia, armata di affilato coltello, era "Teoria
della pratica teorica", cioè, massima disciplina conoscitiva
incaricata di trovare il Vero e la Scienza e di opporli all'Immaginario
e all'Ideologia, già in Filosofia e filosofia spontanea degli
scienziati (1967) e soprattutto in Lenin e la filosofia
(1968) tale visione statico/manichea inizia ad essere posta in questione,
giacché, come mirabilmente espresso nella Prefazione all'edizione
italiana del 1969: "Non si può più prendere come giudice
una verità che non sia anche cammino, cioè traccia, impronta,
lettera stampata, nella materia, nel corpo, nella carne, nella storia. Interessa
ciò che è luogo e cammino, piazza e strada, casa e scala o
corridoio, per trovare dei punti di intersezione, dei crocevia, delle linee
di comunicazione. Le idee non comunicano, con le idee non ci si comunica.
Ci si comunica solo attraverso delle vie aperte"[1].
È qui, dunque, che la filosofia ruminante (accademica ufficiale)
è collocata in rapporto al suo rimorso più profondo
e scandaloso: la Politica. Inseguendo, allora, la "pratica selvaggia"[2] di Lenin, Althusser mostra che la Filosofia
rappresenta (non è) la lotta di classe, che è lotta
di classe nella teoria, indicandone gli eterni schieramenti,
la guerra di posizione, nel Kamfplatz ideologico, di cui parla Kant,
a sostegno del partito materialista o idealista (dominante), nonostante
la sua arrogante pretesa di essere il Grande Neutro Imparziale ed Etereo.
Ma c'è di più: Althusser giungerà ad accogliere l'invito
goethiano ad entrare nel paese del nemico se lo si vuole conoscere,
sostenendo esplicitamente la violazione del Fronte, attraverso una parola/concetto,
"sconfinamento"[3], che compare,
di sfuggita, in una lettera a Fernanda Navarro del 10 luglio 1984, e il
cui significato viene precisato e `lavora' altrove, in un passaggio dell'intervista-saggio
a lei concessa (Filosofia e Marxismo, 1984 -1987), dove è
scritto: "[...] ogni filosofia deve portare nel suo seno il nemico
battuto, per potersi costituire come filosofia nuova. In questo modo, installandosi
in anticipo nel dispositivo nemico e lavorandoselo, modificandolo di conseguenza,
può rispondere in anticipo a tutti gli attacchi e le obiezioni, per
poter realizzare l'impresa di assorbimento e di dominazione del suo avversario.
È così che ogni filosofia di tendenza idealista contiene necessariamente
argomenti materialisti e viceversa"[4].
Da simili considerazioni si può inferire che fra i due termini della
coppia, nominata per la prima volta da Platone, agli albori della storia
della filosofia occidentale, costituita dal circolo degli "amici delle
idee" (a cui appartiene lui stesso) e da quello degli "amici della
Terra" (tra cui comprende gli empiristi, gli scettici, i sensualisti
e gli storicisti) esistono una dipendenza e una compenetrazione, per cui
l'uno è lo "spettro"[5]
inquietante dell'altro, la serpe in seno, giocata però asimmetricamente,
a vantaggio dell'egemonia del primo termine, "su cui è
stata eretta e fondata la coppia stessa"[6].
Egemonia, questa, caratterizzata da una smania di inglobamento senza residui:
"non lasciare niente al di fuori"[7],
ergersi, cioè, a occhio unico e supremo del Reale, capace di vedere
e di abbracciare la totalità di ciò che esiste per dominarla,
l'insieme dei contenuti del pensiero e delle pratiche sociali, "persino
il fango, come diceva Socrate, perfino gli schiavi, come diceva Aristotele,
perfino l'accumulazione della ricchezza in un polo e della miseria in un
altro, come diceva Hegel"[8]. Insomma,
costruire un Sistema che sappia tenere uniti, sotto un medesimo Principio
o Nume tutelare, il cielo stellato alla produzione di scarpe può
non essere tanto difficile; basta coniugare la logica all'estetica, "avendo
il Bello e il Bene", commenta con ironia l'intellettuale francese,
"l'abitudine, nella storia, di uscire insieme la domenica per farsi
vedere dalla buona società"[9].
Compiamo, ora, un passo in avanti. Althusser arriva a spezzare la prevedibilità del presente discorso, introducendo nella sua riflessione alcune figure del movimento: innanzitutto, la figura della "causa errante"[10] e, in secondo luogo, quella del viandante anticartesiano, circolante ne La corrente sotterranea del materialismo dell'incontro (1982). La prima si identifica con la pratica, la materia o la lotta di classe che sono quell' 'al di fuori', quel 'di dietro', che sconcerta la Filosofia Tradizionale e che l'aggira "come nelle operazioni militari si aggira l'avversario per sorprenderne le retrovie"[11]. La realtà obiettiva esterna, infatti, esiste indipendentemente dal soggetto che la scopre, percepisce e conosce: è ad esso anteriore. Ecco, allora, dove s'inserisce la figura del viandante: in un mondo già da sempre dato e, tuttavia, contingente. Avendo ereditato la lezione di Epicuro e di Lucrezio, ma anche di Machiavelli, Spinoza, Hobbes, Rousseau e Marx, a lui non basta camminare diritto per uscire dalla foresta [12], percorrendo quel sentiero elitario che è illuminato dalla Ragione chiara e distinta, perché il suo mondo è tutto il mondo, sorto non dalla Rettitudine deduttiva (che, a priori, ha cognizione precisa del punto di partenza, delle tappe intermedie, e del punto di arrivo del proprio viaggio), ma dal Disordine e dal Clinamen, la Deviazione primordiale aleatoria, che ha consentito e consente agli atomi in perpetua caduta libera e parallela nel Vuoto senza dèi di incontrarsi e di aggregarsi in modo duraturo, inaugurando le Necessità, le società, le congiunture fattuali, gli avvenimenti della vita individuale e collettiva, con tutte le loro differenti importanze. Ma la Deviazione può anche non accadere e gli atomi non incontrarsi mai: pertanto, non si hanno né aggregati né eventi, né guerre né paci, né passioni tristi né passioni gioiose, né piedi né tracce. Sembra, allora, che il viandante althusseriano si orienti, avendo nella mente i versi del poeta Machado, dal sapore materialista aleatorio: viandante, lo sai, il cammino si fa facendolo. Il che è come annunciare che ogni cosa, dalla sua insorgenza al suo risultato, dipende da due poteri: il Caso e gli Incontri.
Ed è adesso, gettate simili premesse, che Althusser può
definirsi apertis verbis filosofo della e nella frontiera, dichiarando
con vigore ne L'unica tradizione materialista (1985), nella sezione
dedicata a Machiavelli, che "quando non si pensa agli `estremi', quando
non si pensa nel limite ed il limite come condizione assoluta di ogni pensiero
e di ogni azione ecc., si resta nella via di mezzo della mediocrità,
dell'eclettismo e in fin dei conti della stupidità"[13]. Proporre, invece, un pensiero capace di
entrare nei margini "equivale anche a pensare ed agire nel rischio,
nei `rischi e pericoli' di un impresa solitaria e responsabile"[14]. E questa solitudine va posta in relazione
alla situazione storica mondiale della seconda metà degli anni '80,
attualmente aggravatasi, descritta nelle pagine finali del testo, che vede
protagonista un'umanità lacerata da conflitti pseudo-nazionali e
religiosi integralistici. "Il corso delle cose è triste"[15], commenta Althusser e, riferendosi
al contesto locale, in una lettera a Fernanda Navarro datata 7 aprile 1985
precisa: "La situazione in Francia è ben lungi dall'andare bene.
La sinistra perderà le elezioni legislative dell' '86, malgrado le
divisioni della destra. La cosa più inquietante è la salita
del Fronte Nazionale, razzista e xenofobo: rievoca dei sinistri ricordi.
E lo stato generale del mondo [...] m'inquieta terribilmente"[16]. Viene da dire: la Storia si ripete. Ma
andiamo con calma.
L'insofferenza che emerge dalle ultime affermazioni consente di fare 'un
salto', portando il discorso a toccare da vicino questioni urgenti, o meglio,
"vive", secondo la felice formula che Stanislas Breton riprende
da Dominique Lecourt e che egli ritiene riguardante "al momento della
nostra storia presente, la vita delle persone, se si vuole delle `masse',
e l'effettività della loro necessaria liberazione"[17].
Esse possono essere in piena sintonia con un tratto peculiare, che attraversa
il complesso degli interventi teorici althusseriani e che trova una risposta
forte nel materialismo aleatorio: la denuncia dell'inganno dell'ideologia
genetica (o problema dell'Origine e del Fine) che conduce, in ultimo, a
sostenere il 'diritto alla nascita' o, il che è complementare e conseguente,
la 'superiorità o inferiorità per nascita'. Antico presupposto
è proprio (e ancora) il Verbo biblico che racconta che ogni creatura
è in Dio prima di essere sulla Terra e che a lui ritorna, salvandosi,
dopo questa breve caduta. L'Origine, perciò, è garanzia del
Fine, che, per altro, già conosce e nutre. D'altronde, nota Althusser
in Sulla psicoanalisi, non si sfugge al "fantasma che fa sì
che ciascuno stenti a immaginare di non essere preesistito alla propria
nascita, in altri termini di non aver avuto da sempre il diritto di
nascere, il diritto alla propria esistenza, il diritto alla propria nascita"[18]. Tale diritto, però, non può
che essere esercitato su un suolo, giacché si nasce sempre da qualche
parte, in un contesto determinato, in un certo insieme di rapporti di forze,
a Nord, a Sud, a Est o a Ovest. E il racconto dell'Origine è sempre
retrospettivo, a posteriori, a cose fatte. Cioè: dal momento che
si è al mondo e lo si abita. Perciò, bisogna parlare di
Origine (sangue) e di Territorio, guardandoli insieme: è così
che il `diritto alla nascita' fabbrica i presupposti ideologici fondamentali
per l'avvento di ogni nazionalismo, inteso come 'diritto al territorio in
cui si nasce', alla Nazione, al contempo Destino e Salute.
Ecco, allora, gli ingredienti sostanziali del nazionalismo, perfettamente
focalizzati da Balibar: dal lato dell'immaginario o del rituale, "l'etnicità
fittizia"[19] o la narrazione che
ogni nazione costruisce, mediante le sue istituzioni, circa una sua base
etnica pura, "che la distingue dalle altre attraverso dei marchi sensibili
(visibili, udibili, ecc.), dei tratti di comportamento 'tipici' o 'emblematici'
suscettibili di essere esasperati in criteri di esclusione"; dal lato
della credenza o fede, invece, "il patriottismo" che canta la
nazione come comunità trascendente, impregnata dall'idea di una missione
trans-storica, quella della Sicurezza/Salvezza dei suoi membri (o di tutta
l'umanità, qualora venga identificata con la Civiltà stessa),
"che ha come contropartita il dovere di ogni individuo di 'trasmettere'
di generazione in generazione un simbolo proprio (che è, per eccellenza,
quello della lingua, ma anche del 'sogno' nazionale, ecc.)"[20]. I due poli individuati hanno notevoli implicazioni
materiali: basti, ad esempio, far riferimento agli scogli burocratici per
l'ottenimento della cittadinanza in paesi europei 'democratici' come l'Italia
o la Germania, la cui legislazione è ispirata allo jus sanguinis,
che sottintende un'accettazione solo temporanea dell'Ospite, assimilato,
secondo l'efficace e spietata immagine di éiûek, al Vampiro
o Non Morto, il quale, occupando la Terra, ne succhia il sangue, impoverendola
senza rimedio. Costui o costei con ciò opererebbe un "furto
di godimento"[21], distruggendo
lo stile di vita autoctono 'originario' e imponendo il 'suo' cibo, i 'suoi'
odori, le 'sue' canzoni, le 'sue' danze rumorose, i 'suoi' strani modi di
fare, di relazionarsi, di ragionare e lavorare. "[...] È abbastanza
divertente", sottolinea éiûek, "osservare la rapidità
con cui si passa dal rimproverare all'altro di rifiutare il lavoro al rimproverarlo
di rubare il lavoro"[22].
Da tutta questa riflessione discende ora una conseguenza semplicemente
disarmante: il mondo può essere un dono (per chi ha il privilegio
di appartenere dall'inizio alla Comunità) o una condanna (per chi
non ha questo privilegio), dipende da Dove e in quali condizioni si nasce,
in altri termini, con Epicuro ed Althusser, dal Caso. Al principio, pertanto,
era il Caso e non il Verbo, giacché casualmente sono 'distribuiti'
tutti gli attributi della sostanza umana, di genere, di classe sociale,
di riferimento geografico e culturale, i quali, anche se cambiati nel corso
del Tempo, rimangono nella memoria del corpo, ben prima della coscienza.
Ma l'atomismo insegna anche un'altra verità sconcertante: il mondo
è un aggregato di atomi, dunque dipende dal loro incontro, prima
del quale non c'è Nulla. Riecco i due poteri, il Caso e gli Incontri,
che aprono nuove strade circa il rapporto Identità/Alterità,
scoprendo che l'Alterità è nel cuore dello Stesso, direbbe
Ricoeur, e che "l'identità è fatta di molteplici appartenenze"[23], aggiungerebbe lo scrittore libanese
Maalouf. È per questo, forse, che Althusser elegge come protagonista
del suo Ritratto di un filosofo materialista (1986) un immigrato,
un immigrato negli Stati Uniti, di nome Nikos e di età incerta, quasi
a voler spezzare il circolo vizioso che fa dell'Origine l'unico elemento
dell'identità, nel pericoloso trinomio: Terra-Identità-Destino.
Concludendo, ciò non significa che il pensatore francese possa risolvere
teoricamente quell' 'essere la frontiera', espressione coniata dallo psicanalista
André Green, che rimanda alla lacerazione delle identità multiple,
migranti, le quali, appunto, non vivono sulla frontiera, ma sono
la frontiera in persona[24], risentendo
di quel "doppio regime di circolazione"[25]
che spacca gli esseri umani in due metà confliggenti: coloro che
"fanno circolare i capitali" e "coloro che i capitali fanno
circolare, secondo le 'delocalizzazioni' e la 'flessibilità'",
con in mezzo una gigantesca massa non qualificabile. Nell'epoca della globalizzazione,
infatti, scrive Balibar, "per un ricco di un paese ricco, tendenzialmente
cosmopolita [...], la frontiera è divenuta una formalità d'imbarco,
un punto di riconoscimento simbolico del suo status sociale che si varca
a passo di corsa. Per un povero di un paese povero, la frontiera è
tendenzialmente tutt'altra cosa: non solo un ostacolo molto difficile da
superare, ma è un luogo in cui si ritorna continuamente a cozzare,
che si passa e ripassa a seconda delle espulsioni e dei raggruppamenti familiari,
nel quale, infine, si soggiorna. È una zona spazio-temporale
straordinariamente vischiosa, quasi un luogo di vita - una vita che è
un'attesa di vivere, una non-vita"[26].