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PREFAZIONE
a Charles Bettelheim, Calcolo economico e forme di proprie

di Gianfranco La Grassa

1. Charles Bettelheim (1913) è uno dei più importanti studiosi marxisti, senza specificazioni temporali. Secondo la divisione accademica degli specialismi scientifici è da considerarsi un economista come, tanto per fare alcuni nomi di " marxisti", Grossman, Rubin, Dobb, Sweezy, Mattick e altri. In realtà, sarebbe più corretto parlare di marxisti tout court. Non esiste, a nostro avviso, una economia marxista e Marx non è, come molti pensano, un continuatore, pur critico, dell'economia politica classica. E' vero che Marx ha usato spesso l'espressione "critica dell'economia politica", e tale è anche il titolo di una sua importante opera del 1859 nonché il sottotitolo de Il Capitale; e per economia politica egli intendeva soprattutto quella di Adam Smith, David Ricardo, ecc. Tuttavia, tutta la sua opera è stata un'analisi delle strutture sociali con specialissimo riguardo, certamente, a quelle della produzione. L'attenzione prestata a quest'ultima non lo qualifica però come economista, poiché il problema centrale è rappresentato appunto dalle forme dei rapporti sociali che sottendono ogni produzione "storicamente determinata".
Molti studiosi avvicinatisi al marxismo hanno dimenticato questo fatto decisivo e hanno spesso trasformato la marxiana critica dell'economia politica in una teoria economica critica, in una sorta di ricardismo pur profondamente riveduto e corretto, con l'individuazione della differenza tra lavoro (fonte del valore dei prodotti-merce) e forza o capacità lavorativa insita nella corporeità umana, venduta essa stessa come merce da chi è sprovvisto di ogni altra proprietà, in particolare di quella dei mezzi produttivi. Tramite il chiarimento della confusione fatta da Ricardo tra lavoro e forza lavoro (egli parlava di lavoro in entrambi i casi), Marx avrebbe "scoperto" l'origine del profitto capitalistico nel plusvalore, ottenuto "sfruttando" i lavoratori salariati pur nel rispetto dello scambio di equivalenti: salario in quanto corrispondente al valore (lavoro) della forza lavoro.
Non è affatto questa l'importanza di Marx nella storia del pensiero, duplicata, non a caso, dall'enorme influenza esercitata per oltre un secolo dalla sua teoria su un processo di rivolgimento sociale e politico. Il fulcro di questa teoria non è l'aver posto nel lavoro la fonte e la misura del valore dei prodotti, bensì il concetto di modo di produzione, in quanto appunto struttura dei rapporti che innerva la produzione sociale, struttura che ha conosciuto diverse forme storiche. La differenza tra lavoro e forza lavoro non poteva essere pienamente colta che da un pensatore vivente all'interno della forma storica denominata capitalistica; e non sarebbe mai stata "scoperta" senza l'indagine relativa alla formazione del modo di produzione capitalistico attraverso il periodo dell'accumulazione originaria del capitale.
Charles Bettelheim è uno studioso marxista che mai ha trattato Marx come l'ultimo dei classici; egli ha sempre avuto una sensibilità particolare per il problema delle strutture sociali della produzione, cioè dei modi di produzione in quanto campi di specifiche articolazioni tra rapporti di produzione e forze produttive. Tuttavia, in una prima fase della sua opera teorica, egli accettò la più tradizionale impostazione marxista, che vedremo subito appresso. Egli, comunque, non fu solo un teorico, ma mise i suoi saperi a disposizione delle pratiche di quelle forze che comunque tentarono di superare le modalità capitalistiche della produzione, soprattutto attraverso lo strumento principe del piano. Dopo la vittoria del FLN in Algeria, fu consulente del primo Presidente di quel paese, Ben Bella, cui fu sempre legato da amicizia e reciproca grande stima. Fu consulente del piano nell'India di Nehru e nell'Egitto di Nasser. Particolare importanza rivestì questa sua attività pratica a Cuba, dove polemizzò con Guevara (quando questi era Ministro dell'economia) per aver combattuto i gravi limiti insiti nell'esasperato soggettivismo rivoluzionario di chi affermava che lo sviluppo di un paese, pensato come socialista, era soprattutto legato al fattore uomo, dimenticando le costrizioni oggettive che cominciarono ben presto a strangolare l'economia cubana.

2. Sia pure brevemente, deve essere considerato lo "stato dell'arte" (marxista) nei primi decenni del secondo dopoguerra, quando andò formandosi il "campo socialista" e il movimento comunista (erede della III Internazionale), orientato dal marxismo, sembrava in inarrestabile ascesa. Dovremo essere, per forza di cose, assai sintetici, indicando alcuni punti salienti di quel marxismo. E' comunque bene ricordare che esistevano correnti "eretiche", dubbi vari di ogni sorta, ma nell'insieme il marxismo appariva una teoria sufficientemente compatta, all'interno della quale si svolgevano certo dibattiti anche aspri, ma sempre entro un alveo in fondo ben delineato.
Piuttosto, va rilevato che il marxismo si divideva in due grandi filoni: quello influenzato da un prevalente economicismo, una teoria che pensava l'intera storia della società in quanto mossa dai processi insiti nelle strutture produttive; e quello che fissava la sua attenzione sulle cosiddette sovrastrutture di tipo politico e ideologico-culturale. In entrambi i casi, la corrente decisiva era di tipo storicistico, legata ad un gradualismo evoluzionistico, che considerava ineluttabile la vittoria della classe operaia (e/o delle "forze popolari") con irreversibile trasformazione della società capitalistica in socialismo e poi comunismo. Alcuni insistevano nel considerare la rivoluzione come l'atto decisivo per innescare tale trasformazione, altri - che diventarono ben presto la maggioranza nel movimento comunista internazionale - pensavano ad una transizione ormai possibile per via pacifica (e magari parlamentare); ma comunque, in ogni caso, la Storia procedeva inesorabilmente verso la fine del sistema capitalistico, ormai putrescente e in inviluppo, un sistema di rapporti che aveva attinto il limite dello sviluppo delle forze produttive possibile al suo interno.
In effetti, che si trattasse di economicisti o di "sovrastrutturalisti", tutti interpretavano il processo storico sulla base delle sintetiche formulazioni marxiane contenute nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell'economia politica. Nel manuale di Economia politica di Oskar Lange - un economista (ed econometrico) sostanzialmente neoclassico considerato marxista perché membro del POUP e ministro economico nel Governo della Polonia "socialista" - venivano evidenziate le coordinate generali di tali formulazioni addirittura denominate I e II legge del Materialismo storico. La prima riguardava l'adeguamento, mediante salti trasformativi, dei rapporti di produzione allo sviluppo delle forze produttive; la seconda affermava l'adeguamento delle sovrastrutture politico-culturali, tramite rivoluzionamenti periodici, alla trasformazione della base economica (rapporti di produzione).
L'elemento decisivo che muove la Storia sarebbe lo sviluppo delle forze produttive, in particolare quelle materiali: i mezzi di produzione, i progressi tecnologici, ecc. Ad un certo punto, tale sviluppo sarebbe entrato in contrasto con i vecchi rapporti di produzione che avrebbero rappresentato un ostacolo allo stesso; si sarebbero formati allora nuovi rapporti di produzione più consoni ad un nuovo periodo di sviluppo produttivo, ma questi nuovi rapporti (implicanti nuove classi sociali) si sarebbero scontrati con il potere politico e culturale delle vecchie classi, e allora sarebbe "subentrata un'epoca di rivoluzione sociale" (Prefazione del '59). Del resto, non è che i "sovrastrutturalisti" contrastassero adeguatamente simili tesi; è ben nota l'affermazione gramsciana secondo la quale una formazione sociale non perisce fino a quando non ha sviluppato al suo interno tutte le forze produttive di cui è capace. L'unica ammissione era la possibilità, sostenuta anche da Engels, che si verifichi un'azione di ritorno delle sovrastrutture sulla base e dei rapporti sulle forze produttive; ma, "in ultima analisi" (o ultima istanza), è più forte la corrente causale forze-rapporti e base-sovrastruttura.
Questo determinismo, a senso unico o incrociato, è sempre servito ai comunisti di tutte le varie correnti. Ha fornito argomentazioni a chi sosteneva la necessità della rivoluzione violenta e a chi invece affermava la possibilità di un gradualismo riformistico; a chi, dopo la "presa del potere" avvenuta sempre in paesi capitalisticamente arretrati, poneva in atto processi di industrializzazione forzata per adeguare lo sviluppo delle forze produttive a rapporti perfino"troppo avanzati", e a chi invece preferiva allentare la presa di una forte "dittatura proletaria", consentendo la formazione di larvati rapporti capitalistici in settori considerati non strategici e di piccolo-media imprenditoria, onde avviare un graduale sviluppo delle forze produttive che alla fine avrebbe imposto, oggettivamente, un nuovo rafforzamento del potere di una classe operaia in fase di espansione. Nell'occidente capitalistico avanzato, tali tesi fornivano ai vari partiti comunisti, quello italiano in testa, l'alibi per l'opportunistica attesa di una crescita che, con il completo rispetto delle regole del gioco "democratiche" (cioè parlamentari), avrebbe fatto maturare la pacifica presa del potere da parte di non meglio precisate "masse popolari", che il PCI identificò con l'alleanza tra operai e ceti medi produttivi (grosso modo quelli che oggi chiamiamo lavoratori autonomi o magari anche "popolo delle partite IVA").
Il fulcro (teorico) di tutta la questione era rappresentato dalla semplicistica rappresentazione del capitalismo come sistema della proprietà privata dei mezzi di produzione e centralità del "libero" mercato, con produzione dei beni completamente anarchica e disarmonica comportante gravi crisi, ecc.; dal che, con argomentazione a contrario, si deduceva che il socialismo nient'altro era che proprietà "pubblica" (in definitiva statale) di tali mezzi produttivi accompagnata da una pianificazione centralizzata della produzione. I rapporti di produzione erano ridotti a rapporti di mera proprietà, considerata oltretutto secondo una visuale soltanto giuridica: o privata o pubblica. Chi avesse realmente il potere di disporre dei mezzi di produzione diventava problema del tutto inessenziale; la forma era tutto, la sostanza nulla. In fondo, una riedizione, pur modificata, del vecchio motto del revisionista Bernstein: "Il fine è nulla, i mezzi sono tutto".
I rapporti della proprietà privata sarebbero stati inadeguati all'ulteriore sviluppo delle forze produttive, che quindi sarebbero entrate in un periodo di stagnazione e putrescenza crescenti. I nuovi rapporti erano, secondo questa visione teorica che si pretendeva marxista, quelli della proprietà statale (con rivincita del socialista di Stato Lassalle su Marx, che lo aveva ampiamente sbeffeggiato nella Critica al programma di Gotha). Il lancio del primo Sputnik nell'ottobre del 1957 sembrò inverare questa aberrante interpretazione del pensiero marxiano. Gli anni successivi, fino alla metà del decennio '60, videro fiorire le più cervellotiche statistiche circa l'impetuoso sviluppo del campo "socialista" che, in un lasso di tempo relativamente breve in termini storici, avrebbe prodotto il 50% più uno della produzione mondiale; e da quel momento, la gara tra i due campi si sarebbe potuta ritenere vinta dal "socialismo in ascesa". In meno di vent'anni l'URSS avrebbe superato gli USA, e la Cina l'Inghilterra, per quanto concerne la produzione di acciaio, burro e carne. E anche questo sarebbe stato la dimostrazione della superiorità dello sviluppo delle forze produttive consentito dai nuovi rapporti di produzione socialisti. E così via.
Su come è andata poi a finire, è inutile spendere parole. Chi non ha vissuto quegli anni, che sembrano lontani qualche secolo, non può nemmeno riuscire a intuire le enormità affermate da comunisti che si credevano in possesso di una scienza sociale esatta quasi quanto la matematica. Nel 1965 uscì Leggere il Capitale di Althusser e i suoi allievi, che portò un duro attacco, decisamente rinnovatore, certo ad un livello di teoria molto elevato, contro un marxismo ridotto a evoluzionismo economicistico e a semplici ricette pratico-politiche del tutto fallimentari oltre che falsificatrici della realtà di un "socialismo" in decadenza, che andò poi accelerandosi fino al crollo del 1989-91.

3. Charles Bettelheim si collegò quasi subito alla svolta althusseriana, che evidentemente corrispondeva alle sue stesse esigenze teoriche; dopo un primo libro di avvicinamento ancora parziale alla nuova impostazione, La transition vers l'économie socialiste, esce nel 1970 il testo qui presentato che è il risultato teoricamente più compiuto dell'adesione dell'autore alla svolta in questione, con una caratterizzazione più accentuata in senso economico-sociale, laddove gli scritti della scuola althusseriana del 1965 erano, se così si può dire, più filosofico-sociali. Calcolo economico e forme di proprietà, inoltre, ha come oggetto specifico la critica delle modalità della sedicente "costruzione del socialismo", mentre Leggere il Capitale ha come obiettivo più diretto la ricostruzione del concetto marxiano di modo di produzione (in particolare quello capitalistico). Tuttavia, il lettore si accorgerà che Bettelheim, criticando il socialismo - o, per essere più precisi, la formazione sociale di transizione (al socialismo) - rinnova anch'esso, e profondamente, l'interpretazione della teoria marxiana del capitalismo.
Il punto focale di un vero cambiamento di paradigma, compiuto sia dagli althusseriani che da Bettelheim, è una sorta di rovesciamento della posizione occupata da forze produttive e rapporti di produzione nel campo costituito dal loro intreccio: il modo di produzione. L'elemento centrale del campo in questione è rappresentato dai rapporti di produzione. Questi non si trasformano dopo che lo sviluppo delle forze produttive da essi consentito ha superato una certa soglia. I rapporti di produzione innervano le forze produttive, lo sviluppo di queste ultime non è meramente quantitativo bensì caratterizzato da una determinata loro strutturazione, che è quella impressa dalla particolare forma storica assunta dai rapporti di produzione. Non esiste un limite quantitativo più o meno ben definito allo sviluppo delle forze produttive, poiché esso sempre riproduce la forma storica dei
rapporti che struttura queste ultime e determina direzioni e qualità dello sviluppo in questione.
I rapporti di produzione, in se stessi considerati, assegnano i posti agli agenti della produzione sia nei veri e propri processi produttivi (di lavoro) sia in quelli di distribuzione e scambio dei prodotti. L'insieme di questi processi costituisce il processo di riproduzione di quella storicamente determinata forma dei rapporti di produzione che implica appunto, nel contempo, la riproduzione dei posti assegnati agli agenti della (e nella) produzione. I rapporti di produzione, in quanto fissano le posizioni degli agenti produttivi, rappresentano la struttura fondamentale di un modo di produzione. Vanno però presi in considerazione anche i rapporti sociali di produzione che sono gli effetti di tale struttura fondamentale relativamente ad una particolare forma storica di società; effetti del tipo della divisione in classi, della divisione sociale e tecnica del lavoro, ecc. Questi effetti implicano il modo in cui gli agenti vedono e si rappresentano la loro collocazione nella società, e si battono per essa; nei rapporti sociali di produzione, quindi, entrano in gioco i rapporti ideologici e quelli politici.
Simili considerazioni, pur esposte in estrema sintesi (l'analisi di Bettelheim è ben altrimenti articolata), fa comprendere che, in questo concetto di modo di produzione, non sussiste solo l'aspetto economico (o addirittura tecnico-lavorativo) dei rapporti di produzione, bensì anche quello politico-ideologico. Di conseguenza, quando si dice che l'elemento centrale del modo di produzione è costituito dai rapporti di produzione, che sono questi ultimi ad innervare lo sviluppo delle forze produttive in un processo che è, insieme, produttivo e riproduttivo (di beni come di rapporti sociali), si deve ben comprendere che detto elemento centrale non afferisce soltanto alla sfera dell'economia bensì anche a quelle della politica e dell'ideologia. Da qui, la decisività della lotta politica e ideologica (la lotta tra classi) nel processo di produzione e riproduzione della struttura dei rapporti sociali, processo che caratterizza qualitativamente lo stesso sviluppo delle forze produttive.
Quanto appena detto implica pure un profondo mutamento del concetto di proprietà (dei mezzi di produzione). Il marxismo tradizionale ha sempre inteso, di fatto, la proprietà in senso meramente giuridico, ponendo una frattura e una alternativa netta tra proprietà privata e pubblica (in definitiva, statale). Il capitalismo sarebbe solo proprietà privata, mentre il socialismo rinvierebbe, come già fatto notare più sopra, a quella statale. Tale distinzione è puramente formale oltre che ideologica. La proprietà in senso sostanziale comporta il possesso dei mezzi di produzione; ma possesso in quanto capacità degli agenti della produzione di metterli in funzione per i propri fini specifici. Tale possesso, dunque, non rinvia alla semplice forma giuridica, bensì a due elementi cruciali: a) l'acquisizione dei saperi produttivi necessari a far funzionare i mezzi di produzione (nucleo centrale delle forze produttive); b) il potere effettivo di disporre di tali mezzi, potere caratterizzato in termini politici e ideologici - e quindi obiettivo della lotta tra classi e frazioni di classi - pur se poi trova generalmente la sanzione giuridica, in cui precipita un certo risultato di tale lotta.
Questa sanzione giuridica può in date fasi storiche - nelle formazioni sociali di transizione - avere un carattere formalmente pubblico, ma ciò non significa l'avvio di una irreversibile trasformazione rivoluzionaria del modo di produzione capitalistico. La presa del potere statale da parte del proletariato, o meglio della sua avanguardia, non è in grado di cambiare immediatamente le condizioni decisive del possesso dei mezzi di produzione in direzione di un loro uso atto a soddisfare i bisogni delle più larghe masse popolari, che ufficialmente - in realtà tramite il partito che vuole rappresentarle - sono appunto le detentrici del potere statale (politico). Malgrado la messa in funzione di un piano centralizzato, permangono nella formazione di transizione certe caratteristiche della produzione capitalistica, in particolare la cosiddetta duplice separazione: a) dei lavoratori rispetto ai mezzi di produzione; b) delle unità produttive, meglio ancora delle imprese, tra di loro.
La prima separazione è il risultato del processo storico denominato da Marx sussunzione reale del lavoro nel capitale. Si tratta in definitiva della perdita dei saperi produttivi da parte della gran parte dei lavoratori salariati, che non sono quindi più in grado, realmente, di mettere in funzione i mezzi produttivi per i loro propri fini. Tali saperi sono appannaggio di frazioni manageriali, che si situano in posizione socialmente sovraordinata e dei loro saperi fanno uso per i propri specifici fini, distinti e spesso contrapposti a quelli della gran massa dei lavoratori. E tale frattura tra dirigenti e lavoratori non è sanata dalla semplice presa del potere da parte di "avanguardie" del proletariato che dichiarano formalmente la dittatura di quest'ultimo. La seconda separazione sembra superata con la pianificazione generale e centralizzata; così non è, si tratta anche in tal caso di un superamento di pura forma, poiché i gruppi dirigenti delle grandi imprese statali, in unione a gruppi diversi di dirigenti di partito, costituiscono delle vere lobbies che disputano tra loro intorno ai fini della produzione pianificata - e ogni differente finalità favorisce lo sviluppo preferenziale di questo o quel settore produttivo e perciò di questa o quella impresa o unione di imprese - e di conseguenza intorno alla assegnazione delle risorse, sia in termini reali che per quanto concerne i budget finanziari, ecc., alle varie imprese e raggruppamenti delle stesse.
In simili condizioni, il calcolo economico, che deve comunque essere fatto per non lasciare spazio soltanto al più esasperato soggettivismo rivoluzionario (si ricordi la già ricordata polemica tra Bettelheim e Guevara), non riesce a diventare un vero calcolo economico-sociale, effettuato in termini di lavoro socialmente necessario alla produzione dei vari beni, la cui composizione venga fissata non semplicemente dall'alto ma con una autentica scelta democratica dopo discussioni e valutazioni da parte dei lavoratori (produttori) tutti. In realtà, il calcolo è ancora un calcolo monetario; e la moneta è solo fittiziamente una semplice unità di conto, poiché essa esprime invece la presenza effettiva, pur mascherata dalla forma della pianificazione, della forma valore (forma capitalistica) che è legata appunto alla separazione reale delle unità produttive fra loro.
Se ricordiamo la differenza tra rapporti di produzione in quanto innervanti le forze produttive in sviluppo - rapporti che costituiscono la struttura fondamentale della società, cioè la posizione assegnata oggettivamente agli agenti della, e nella, produzione - e rapporti sociali di produzione che definiscono gli effetti di tale struttura fondamentale sulla divisione in classi degli agenti, sulla divisione sociale e tecnica del lavoro, ecc. - effetti che implicano l'aspetto politico e ideologico del modo di produzione - si sostiene che elemento centrale, nella transizione, è il conflitto che si sviluppa intorno agli effetti in questione. Di conseguenza, affinché la transizione continui e non si verifichi invece una regressione che consenta il ritorno al potere dei vecchi dominanti, è decisiva la lotta di classe avente come immediata posta in gioco il potere politico e ideologico; conquistata questa posta - ma non si tratta mai, per un lungo periodo storico, di una conquista definitiva e irreversibile - è possibile mettere mano drasticamente alla trasformazione della suddetta struttura fondamentale, mutando profondamente la posizione che gli agenti della produzione occupavano nel modo di produzione capitalistico.

4. Naturalmente, abbiamo sintetizzato al massimo l'elaborato, e raffinato, apparato teorico che regge l'opera bettelheimiana qui presentata. Le conclusioni decisive di quest'opera, in linea comunque con quelle della scuola althusseriana (e non solo), sono che il socialismo non è più, come in Marx e nel marxismo, una tappa o gradino (inferiore) del comunismo, bensì una lunga fase di transizione tra capitalismo e comunismo. Inoltre, in questa fase, è fondamentale e decisiva, per le sorti della trasformazione sociale in direzione del comunismo, la lotta di classe, una lotta che si combatte, nel suo aspetto più immediato e rilevante, sul fronte politico e ideologico; pur se alla fine il risultato di questa lotta, se vuol essere il definitivo successo della trasformazione in oggetto, deve essere l'esaurimento della duplice separazione già considerata. Quella tra lavoratori e mezzi di produzione finirà quando i primi, in quanto insieme collettivo addetto ad un determinato processo di lavoro, avranno il controllo dei saperi necessari all'utilizzazione dei mezzi produttivi in oggetto per conseguire i propri fini. Quella tra le varie unità produttive verrà meno, quando i loro collettivi di lavoro saranno in grado di coordinare l'attività delle stesse indirizzandola al soddisfacimento dei bisogni comuni, e comunemente predeterminati dai lavoratori-produttori nel loro insieme.
E' ovvio che tali conclusioni relative alla formazione sociale di transizione al socialismo sono oggi nettamente superate, per il crollo totale della prospettiva di trasformazione (rivoluzionaria) del capitalismo in comunismo. Se il libro di Bettelheim fosse stato semplicemente un momento, pur alto, del dibattito sulla transizione, sarebbe stato effettivamente inutile riproporlo al (piccolo) pubblico ancora interessato ad una critica anticapitalistica. In realtà, come già rilevato, la decisione di porre il dibattito in questione su binari di approfondimento critico del fallimento del "socialismo reale", ormai evidente quando il libro uscì, non avrebbe portato a nessun risultato senza una attenta considerazione delle caratteristiche della forma di società da cui si pretendeva di "transitare" ad altra forma di tipo comunistico; senza cioè un netto avanzamento teorico mediante perfezionamento dell'apparato critico del marxismo (di Marx in particolare) relativamente al decisivo concetto di modo di produzione capitalistico.
Ed è su questo punto che il testo di Bettelheim si presenta come un tentativo di notevole portata per rompere con la "morta" tradizione, senza però buttare a mare una teoria che resta ancor oggi l'unica in grado di demistificare la coltre ideologica sempre più spessa con cui viene difesa da intellettuali asserviti una società in rapido degrado. Il lettore che saprà collocare questo libro non soltanto, e non tanto, nel novero delle critiche ad un "socialismo reale" ormai morto e sepolto, bensì nel solco di un deciso rinnovamento della teoria critica del capitalismo, troverà - se non è ormai passato con i più tra gli apologeti dell'attuale società - un gran numero di spunti, una serie di sollecitazioni del più alto interesse. Con questo spirito il testo qui presentato è stato nuovamente tradotto in italiano (la prima traduzione, negli anni '70 del novecento, fu della Jaca Book); e viene così riproposto a tutti coloro, per quanto attualmente non certo numerosi, che hanno ancora la volontà di opporsi ad un capitalismo materialmente opulento, ma idealmente povero, anzi miserabile, come non mai prima d'ora.