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Lo Stato, il marxismo, il comunismo: un dibattito tra Althusser e Poulantzas*

 

Andrea Cavazzini


pubblicato in Critica Marxista, n. 1/2010


 

La divaricazione tra due protagonisti del dibattito

teorico-politico degli anni Settanta.

Analisi della funzione dello Stato e sua trasformazione.

Il nodo dell'"eurocomunismo" e "l'ipotesi comunista".
Le posizioni di Balibar, Luporini, Bobbio.

 

 

 

La ricostruzione dei dibattiti della fine degli anni '70 intorno al comunismo, allo Stato, e a nozioni quali Partito, rivoluzione, dittatura del proletariato, non può essere affrontata qui in modo esaustivo. Vorremmo però fornire al lettore un frammento di questo ciclo di scontri teorici e politici ritornando innanzitutto su di un testo di Althusser, il pamphlet 22ème congrès, che appartiene alla serie di scritti sulla crisi del marxismo in virtù della discussione in esso contenuta del concetto di «dittatura del proletariato», nozione abbandonata con un atto amministrativo dal Partito Comunista Francese in occasione dell'alleanza elettorale con i Socialisti. La posta in gioco della discussione althusseriana di questa nozione carica di una storia oggi inappropriabile era la legittimazione di nuove pratiche politiche di massa esterne al Partito comunista (e al referenziale statale di cui il Partito è un elemento) – si trattava di sottrarre il comunismo in quanto politica al monopolio della forma-Partito. Ecco perché Althusser legge la parola d'ordine dell'«unione del popolo di Francia» in un modo che è in effetti aberrante rispetto al significato storico obiettivo di questa formula, ma che mira appunto a contrastare il primato degli apparati attraverso delle prese di posizione in cui risuona ancora l'eco della Rivoluzione Culturale cinese: «Questa parola d'ordine non è riducibile a quella relativa all'unità della sinistra. È più ampia di questa, ed ha un'altra natura: poiché non designa solo l’unione […] delle organizzazioni politiche di sinistra, partiti e sindacati. Perché rivolgersi in tal modo alle masse popolari? Per dir loro, anche se a mezza bocca, che dovranno esse stesse organizzarsi in modo autonomo, in forme originali, nelle imprese, nei quartieri, nei villaggi, intorno alle questioni dell’ambiente, della scuola, della sanità, dei trasporti, ecc., per definire e difendere le loro rivendicazioni, innanzitutto per preparare l'avvento dello Stato rivoluzionario, poi per sostenerlo, stimolarlo, e costringerlo al tempo stesso ad estinguersi. Siffatte organizzazioni di massa esistono e cercano se stesse già  in Italia, in Spagna, in Portogallo […]. Se le masse si impadroniranno della parola d’ordine dell’unione del popolo di Francia, esse ritroveranno una tradizione vitale delle lotte popolari del nostro paese, e potranno contribuire a dare un nuovo contenuto alle forme politiche tramite le quali il potere del popolo lavoratore si eserciterà sotto il socialismo. Qualcosa può nascere e svilupparsi nell’unione del popolo di Francia, qualcosa che è stato distrutto dalle pratiche staliniane, ma che è al cuore della tradizione marxista e leninista: qualcosa che riguarda il rapporto tra il Partito e le masse: restituire la parola alle masse che fanno la storia, mettersi non solo al servizio delle masse (parola d’ordine che può anche essere reazionaria), ma all’ascolto della loro voce, studiare e comprendere le loro aspirazioni e le loro contraddizioni, le loro aspirazioni nelle loro contraddizioni, saper prestare attenzione all’immaginazione e all’inventiva delle masse» (L. Althusser, 22ème congrès, Paris, Maspéro, 1977, pp. 35-37).

Althusser, in queste pagine in cui sembra mimare il linguaggio maoista, chiama le masse ad appropriarsi dell’iniziativa politica propriamente detta sottraendola in tal modo al controllo delle istanze del Partito[1]. Egli afferma esplicitamente che le sperimentazioni sorte in numerosi paesi all'esterno della politica ufficiale degli apparati (partiti e sindacati) sono dei siti politici a pieno titolo, suscettibili di fornire un contenuto allesercizio del potere sotto il socialismo – contenuto strettamente legato al compito di «far estinguere» lo Stato. È per questa via che Althusser cerca di riqualificare la nozione di «dittatura del proletariato»: «La forma politica della dittatura del proletariato o dominio di classe del proletariato è la “democrazia sociale” (Marx), la democrazia di massa, la “democrazia portata alle estreme conseguenze” (Lenin). Ma, in quanto dominio di classe, questo dominio di classe non si riduce alle sue sole forme politiche. Essa è in pari tempo dominio di classe nella produzione e nell’ideologia. È questo nuovo dominio di classe (detto dittatura del proletariato da Marx e da Lenin) che prenderà in contropiede il dominio della classe borghese […]: essa trasformerà poco a poco le forme di sfruttamento, le forme politiche e ideologiche borghesi, “distruggendo” o rivoluzionando la “macchina statale” della borghesia che non è altro se non lo Stato del dominio (dittatura) della classe borghese» (ibid., pp. 41-42).

Althusser fa della dittatura del proletariato l'insieme delle forme tramite le quali diventa possibile liberarsi del dominio politico, della sottomissione ideologica, e, infine, dello sfruttamento economico, propri al regime capitalista. Il che significa rettificare ogni visione «putschista» e cruenta di questa dittatura (ricondotta al suo significato di conduzione, guida) e fare delle organizzazioni delle masse – in seno alle quali i rapporti politici, ideologici ed economici sono realmente trattati e modificati giorno per giorno - l'istanza politica principale di questa «guida» del proletariato sui rapporti sociali. Questa riformulazione della nozione di «dittatura del proletariato» ha degli effetti sul modo di trattare il problema dello Stato – dello Stato borghese e dello Stato post-rivoluzionario: «Questo Stato borghese, strumento del dominio di classe borghese, Marx e Lenin hanno ripetuto che occorreva “spezzarlo”, e, idea molto più importante, hanno correlato questa “distruzione” dello Stato borghese con l’“estinzione” ulteriore del nuovo Stato rivoluzionario […]. In altri termini, essi hanno pensato la distruzione dello Stato borghese anche sulla base dell’estinzione e della fine di ogni Stato. Ciò dipende da una tesi fondamentale di Marx e di Lenin: non è solo lo Stato borghese ad essere oppressivo, ma ogni Stato […] Lenin dice: noi dobbiamo spezzare l’apparato di Stato parlamentare borghese. Per spezzarlo, cosa propone Lenin? 1 – la soppressione della divisione dei poteri tra il legislativo e l’esecutivo, 2 – la soppressione della divisione del lavoro su cui essa si fonda (teoria/pratica) e, soprattutto, 3 – la soppressione della scissione borghese che separa le masse popolari dall’apparato parlamentare. È una “distruzione” assai particolare, che non ha nulla di un atto di annientamento, ma che rimaneggia e rivoluzione un apparato esistente affinché vi trionfi il dominio di una nuova classe […]. In verità, e vorrei che si prendesse bene la misura di queste parole, “distruggere” lo Stato borghese per rimpiazzarlo con lo Stato della classe operaia e dei suoi alleati, non significa aggiungere l’aggettivo “democratico” ad ogni apparato di Stato esistente, è un’operazione per nulla formale e potenzialmente riformista, significa rivoluzionare nella loro struttura, la loro pratica e la loro ideologia gli apparati di Stato esistenti, sopprimerne alcuni, crearne di nuovi, significa trasformare le forme della divisione del lavoro tra gli apparati repressivi, politici e ideologici, significa rivoluzionare i loro metodi di lavoro e l’ideologia borghese che domina le loro pratiche, significa attribuire loro dei nuovi rapporti con le masse a partire dalle iniziative delle masse, sulla base di una nuova ideologia, proletaria, al fine di preparare l’estinzione dello Stato, cioè il suo superamento da parte delle organizzazioni delle masse. Questa esigenza è intrinseca alla teoria marxista dello Stato. Per Marx, gli apparati di Stato non sono strumenti neutri, ma propriamente gli apparati repressivi e ideologici organici di una classe: la classe dominante. Per assicurare il dominio della classe operaia e dei suoi alleati, e preparare a più lunga scadenza l'“estinzione” dello Stato non si può evitare di intervenire sugli apparati di Stato esistenti. È la “distruzione dello Stato”. Senza la quale, la nuova classe dominante potrebbe essere sconfitta nella sua stessa vittoria […]. Se si vogliono degli esempi in cui lo Stato non è “distrutto” e quindi non è affatto in procinto di “estinguersi”, è sufficiente guardare i paesi socialisti, e di prendere atto delle conseguenze che ne seguono. I dirigenti sovietici dichiarano: “Da noi, l'estinzione dello Stato presuppone il suo rafforzamento” […]. Insisto: non si tratta solo del problema dello Stato borghese, ma anche del problema dello Stato rivoluzionario, che lui pure è oppressivo […]. Avendo abbandonato per ragioni politiche evidenti, ma senza serie ragioni teoriche, il concetto di dittatura del proletariato, cioè l’idea semplice ed evidente che il proletariato ed i suoi alleati devono abbattere, cioè rivoluzionare, la macchina dello Stato borghese per diventare classe dominante (il Manifesto del 1848), devono intervenire sulla sostanza dello Stato borghese che essi ereditano, il XXII congresso si è al tempo stesso privato della possibilità di pensare la distruzione e l’estinzione in modo diverso dalla forma vaga o edulcorata della “democratizzazione dello Stato”, come se la semplice forma giuridica della democrazia in generale potesse bastare non solo a trattare e risolvere, ma semplicemente a porre in modo giusto i temibili problemi dello Stato e dei suoi apparati che sono problemi di classe, e non problemi di diritto» (ibid., pp. 52-55).

La posizione di Nicos Poulantzas – all'epoca impegnato nella formulazione teorica della linea eurocomunista – rispetto alle ultime posizioni di Althusser è fortemente controversa. Se Althusser si sforzava di pensare una ripresa della politica comunista tramite un trasferimento dell'iniziativa politica a delle pratiche esterne al Partito e allo Stato, Poulantzas cercava di pensare fino in fondo la via eurocomunista aldilà di una semplice riaffermazione del primato dell’apparato di Partito nel quadro di un'accettazione irreversibile dell’orizzonte parlamentare e statale. Egli accetta innanzitutto la tesi althusseriana – ma che deriva altrettanto dalle preoccupazioni teoriche a lui proprie – dell'intreccio tra lo Stato e i rapporti di produzione: «Ho cercato di mostrare che, contrariamente alle posizioni iniziali di Althusser, lo Stato non può essere considerato un’istanza o un livello a sé stante, totalmente distinto dai rapporti di produzione e di riproduzione, a loro volta ritenuti preesistenti ed essenzialmente autoriproducibili […]. Lo Stato, invece, è presente fin dal principio nella costituzione stessa dei rapporti di produzione, e non soltanto nella loro riproduzione, come sosterrà in seguito Althusser nel suo articolo “Ideologia e apparati ideologici di Stato”.  Lo Stato, in particolare lo stato capitalistico, produce e fa qualcosa di reale, detiene una positività eminente. Per comprendere questo ruolo dello stato, al quale sembra riferirsi ora Althusser, bisogna superare chiaramente la sua concezione dello Stato nell’articolo citato, e, più in generale, la concezione tradizionale dello Stato nell’ambito del marxismo. Secondo entrambe le posizioni, infatti, lo Stato esaurisce la propria azione nella negatività, ovvero nell’esercizio della repressione (il divieto) e nell’imposizione, anche materiale, della legittimazione ideologica (l’occultamento). Ma lo Stato non è uguale a repressione + ideologia. Bisogna tenere in grande considerazione il ruolo economico dello Stato nella sua materialità specifica, il suo ruolo dichiarato di organizzatore politico della borghesia e di tutte le procedure e le tecniche di potere disciplinari e normalizzatrici» (N. Poulantzas, La crise des partis, in Id., Répères, Paris, Maspero, 1979, pp. 165-166, ora in N. Poulantzas, Il declino della democrazia, Milano, Mimesis, 2009, pp. 161-173, col titolo Stato, movimenti sociali, Partito; la cit. riportata è a p. 162, trad. di Beppe Foglio, leggermente modificata).

Il problema della «positività» dello Stato, della sua natura reale e produttrice, era al centro di un certo numero di ricerche condotte nel quadro della riflessione sulla crisi del marxismo – i contributi di Cesare Luporini e di Etienne Balibar al volume scritto con André Tosel, Marx et sa critique de la politique (Paris, Maspero, 1979), affrontavano, nelle loro conclusioni rispettive, la necessità di riconoscere la tendenza presente in Marx a rappresentare i rapporti di produzione capitalistici come una «sfera» economica perfettamente autopoietica (Luporini), e conseguentemente, a criticare l'idea, essa pure marxiana, per cui la politica sarebbe solo un regno delle ombre, una sfera alienata e inautentica, sprovvista della realtà materiale propria ai rapporti economici (Bali­bar). Ma l'esigenza di produrre il concetto della positività materiale propria allo Stato poteva scivolare insensibilmente verso un avvicinamento alla tesi di Norberto Bobbio che aveva un significato diverso: cioè, richiedeva di delimitare formalmente una sfera statale definita in certo modo a priori limitando l’agire politico alle regole immanenti alla definizione di tale sfera, e rifiutando quindi ogni intreccio tra diritto, politica ed economia, tra razionalità economica, forme politiche e relazioni «informali» di potere, il che significa negare ogni pertinenza alla problematica marxiana sotto qualsivoglia delle sue forme storiche. Lo scivolamento verso una tale posizione è patente, e subito negato, in Poulantzas: «[Seguendo Althusser], si arriva soprattutto a non poter porre la questione della conservazione e dell’approfondimento necessari delle libertà politiche sotto il socialismo: problema che necessariamente esige specifiche istituzioni (quelle, certo radicalmente trasformate, della democrazia rappresentativa) come garanzia. Ciò implica una certa separazione fra Stato e rapporti sociali, dunque obbligatoriamente […] una certa non-estinzione dello Stato. In breve, senza cadere in una forma di neo-liberalismo di sinistra, non si può però trattare questa questione, che è in fondo quella dello Stato di diritto, limitandola ad una semplice “regola del gioco” che organizzi il multipartitismo. Così si sbarra la strada all’analisi positiva dell’esercizio del potere nella transizione e sotto un socialismo democratico, analisi la cui assenza all’interno del marxismo è stata giustamente sottolineata da Bobbio» (ibid., pp. 163-164).

Ma così il referente statale è reintrodotto come quadro obbligatorio di ogni politica, e il problema di una politica «socialista» (e non comunista come avrebbe voluto Althusser) diventa quello di «modificare». Con ciò, il trasferimento dell'azione politica verso delle istanze extrastatuali non può che diventare impensabile ed essere schiacciato sulla separazione tra «sociale» e «politico», quindi tra il postulato di una socialità informe e la reintroduzione di un'attività «separata», non nel senso della separazione rispetto alla società, nozione affatto vuota, ma nel senso di una separazione tra direzione ed esecuzione inerente alla dimensione statale del lavoro politico: «Contrariamente a ciò che [Althusser] sostiene, ogni lotta di classe, ogni movimento sociale (sindacale, ecologista, regionalista, femminista, studentesco, ecc.), proprio in quanto movimento politico o, meglio, relativamente ai propri aspetti politici, è necessariamente collocato sul terreno strategico dello Stato. Non c'è politica proletaria fuori dello Stato, così come una politica collocata sul terreno dello Stato non è, solo per questo, una politica necessariamente borghese […]. Superare la fissazione statalista-istituzionalista della Terza internazionale, privilegiare anche la considerazione dei movimenti sociali (la “società civile”) non significa attribuire a tutto, e ad ogni costo, il supposto titolo supremo (POLITICA) e vedere ovunque la diffusione del politico o della politica» (ibid., pp. 165-166). Il che significa pretendere di stabilire una definizione preliminare della politica alla luce di cui valutare i movimenti «sociali» (di cui Poulantzas fornisce una lista troppo ampia – è realmente plausibile considerare il «movimento sindacale» come un che di esterno alla politica, soprattutto dopo aver insistito sul ruolo attivo dello Stato nei processi di produzione ?): benché sia giusto sottolineare che il valore politico di una pratica collettiva non è mai né certo né univoco, questa considerazione dovrebbe condurre piuttosto a riconoscere che i siti ove la politica si manifesta sono tanto rari quanto imprevedibili. La coscienza che «non tutto è politica» dovrebbe valere soprattutto per la politica parlamentare e statale, in modo da lasciar aperta la questione dei «luoghi» in cui un processo politico potrebbe svilupparsi. La posizione di Poulantzas – con una piega tutto sommato molto terzinternazionalista nel suo tentativo di desostanzializzare il concetto di Stato – finisce per assegnare alla politica un luogo naturale, distinto e invariante: «Lo ripeto, le lotte popolari, nei loro aspetti politici, si pongono sempre sul terreno dello Stato […]. Il partito, dunque, non dovrebbe porsi in un fuori radicale rispetto allo Stato. La presa del potere rinvia ad una strategia di lungo termine, che mira a modificare i rapporti di forza nell’ambito stesso dello Stato, facendo leva sulle sue contraddizioni interne […]. Ora, modificare il rapporto di forze interno allo Stato o, di più, modificare radicalmente la sua materialità è solo uno degli aspetti della transizione democratica al socialismo. L'altro aspetto del processo consiste nell'appoggiarsi, nello stesso tempo, sui movimenti sociali di base, nel dare propulsione ai focolai di democrazia diretta, in breve nel fondarsi sulle lotte popolari che debordano sempre, e di gran lunga, dallo Stato […]. Il fulcro della questione, dunque, è l'articolazione dei due aspetti del processo: non si tratta di “distruggere le istituzioni della democrazia rappresentativa […] a vantaggio esclusivo del binomio lotte fuori dallo Stato-democrazia (ovvero la soluzione leninista originaria adottata per l’essenziale da Althusser)» (ibid., pp. 167-168).

Ciò che propone Poulantzas è quindi l’istituzionalizzazione di uno sfruttamento ambiguo e «machiavellico» dei movimenti sociali. I partiti eurocomunismi, o «socialisti» nel senso poulantziano, dovrebbero tenere queste istanze eternamente all’esterno delle pratiche politiche, pur utilizzando la loro presenza incombente per accrescere i propri margini d’azione all’interno dei luoghi «ufficiali» della decisione politica. La soluzione di Poulantzas sarà, fino ad oggi (e temo ancora domani), quella adottata dalla quasi-totalità delle esperienze politico-parlamentari di sinistra, che si tratti di esperienze governative o di (ri-)fondazioni di nuovi partiti. Queste esperienze dimostrano come una tale oscillazione obiettivamente «ipocrita» tra movimentismo e parlamentarismo conduca al disastro e alla demoralizzazione. Dal punto di vista teorico, occorre notare che questa posizione, a causa del suo rapido rifiuto della soluzione leninista (il che conduce ad adottare la soluzione… dei leninisti, cioè degli apparati di partito) rende impossibile la posizione di domande a proposito di una trasformazione della politica che non si limiterebbe a modificarne le strutture attuali, ma che oserebbe rimettere in discussione il luogo della sua produzione, lo statuto dei suoi agenti, e che ne proporrebbe un cambiamento al livello stesso della sua definizione. Se queste sono le poste in gioco delle posizioni di Althusser, si vedrà facilmente che esse sono le uniche coerenti con l'ipotesi comunista[2] – in effetti, questa ipotesi è la condizione stessa di un domandare radicale, e radicalmente orientato da assiomi di emancipazione, di fronte alla natura di qualunque processo politico.

Bisogna osservare che, se la posizione di Althusser risulterà fragile a causa dell'impossibilità di formulare più chiaramente il rapporto tra le istituzioni esistenti del movimento comunista e le nuove forme politiche di massa, Poulantzas era cosciente di un'analoga fragilità delle proprie proposte – una fragilità dipendente dalle trasformazioni dello Stato che rendevano difficilmente praticabile la soluzione social-democratica: sono i fenomeni evocati nello scritto La crisi dei partiti, ora tradotto in italiano in un’antologia a cura del rimpianto Enrico Melchionda e qui di seguito pubblicato. L'impressionante analisi di Poulantzas mostra mostrano fino a che punto la congiuntura politica, sociale e ideologica attuale prolunghi quella della fine degli anni 1970, ben oltre le euforie effimere dei decenni '80 e '90: a ben vedere siamo ancora i contemporanei di quell'epoca, l'epoca della crisi delle opzioni comuniste e della ristrutturazione delle forme economiche e politiche del capitalismo, ed è per questo che essa continua a subire una rimozione massiccia o una deformazione pseudo-storica sistematica. Ma questa analisi mostra anche i limiti di una strategia politica come quella proposta da Poulantzas – l'accesso al potere governamentale dei partiti comunisti in una congiuntura in cui la funzione propria alla forma-Partito di garantire la mediazione tra lo Stato e il capitale, da un lato, e i lavoratori, dall’altro, si stava esaurendo. È vero che la situazione delineata da Poulantzas rivela un punto cieco anche nel discorso di Althusser: la limitazione del primato politico della forma-Partito (in quanto forma organizzativa principale delle masse sfruttate) si realizza come tendenza dello stesso Stato capitalista, nel momento in cui esso abbandona progressivamente ogni strategia di integrazione subalterna delle masse alle istituzioni statali e alla gestione dei processi economici. Beninteso, senza che ciò possa significare un trasferimento di potere dallo Stato alle masse.  Al contrario, lo Stato avanza verso la propria autolegittimazione, che fa a meno di ogni transazione (di cui i partiti e i sindacati di massa erano la forma istituzionale) con le masse, appunto, e che è l'analogo dell'autolegittimazione di un capitalismo che si vorrà, a partire dagli anni '80, autopoietico, immateriale, illimitato, capace di funzionare senza lavoro e perciò senza limiti.

Il carattere tragico del dibattito a distanza tra Althusser e Poulantzas risiede dunque nell'assenza totale di vere soluzioni ai problemi che i due teorici avevano posto. Le «masse» che Althusser vedeva come portatrici di una trasformazione radicale della politica, e di un rinnovamento storico del movimento comunista, ricadranno presto nel silenzio, e il movimento in questione, incapace di de-suturarsi dalla propria figura statuale, finirà per esaurirsi e consumare le proprie interne risorse di auto-riforma, tanto a Est come a Ovest, spesso incapace di dar vita ad una strategia di riformismo razionale, il che lo condurrà a cadere nelle derive del populismo retrogrado o del neofitismo liberale fanatizzato; dall'altro lato, i partiti eurocomunisti, e in generale unioni della sinistra, non riusciranno quasi mai a dar vita a modificazioni democratiche reali degli apparati dello Stato, ed il loro rapporto con i «movimenti sociali» sarà gestito in un modo talmente disastroso da condurre spesso partiti e movimenti al fallimento e al riflusso.

Ciò che resta di tutti questi dibattiti è la questione, lasciata forzatamente aperta, del rapporto tra una politica di emancipazione e lo Stato – la questione dunque del rapporto tra lo Stato e la definizione stessa della politica. Le posizioni di Althusser a questo proposito restano certo problematiche e la loro validità nel presente è lungi dall'essere evidente. In effetti, l'evidenza suggerirebbe piuttosto il contrario. Noi scommetteremmo sulla loro attualità (ciò che è tutt'altro dall'attribuir loro un significato pratico immediato) unicamente a causa del fatto che esse implicano un interrogarsi fondamentale sull'ipotesi comunista – la nostra convinzione è che la riappropriazione da parte del pensiero di questa ipotesi costituisca il modo di ripensare le condizioni attuali di ogni politica.

 


* Tratto da Andrea Cavazzini, Crise du marxisme et critique de l'Etat. Le dernier combat d'Althusser, Paris, Le Clou dans le fer,  2009, pp. 79-99.

[1] [Sul rapporto di Althusser al comunismo cinese, cfr. i lavori del Seminario 20o9-2010 del Groupe de Recherches Matérialistes, e in particolare A. Cavazzini, Introduction à la Révolution Culturelle http://www.europhilosophie.eu/recherche/spip.php?article399, Guillaume Sibertin-Blanc, Révoltes étudiantes et Révolution culturelle chez Althusser: la théorie à l’épreuve de la conjoncture, http://www.europhilosophie.eu/recherche/IMG/pdf/GRM_3-Section_I-2bis.pdf, e Julien Pallotta, Révoltes étudiantes et Révolution culturelle chez Althusser II, http://www.europhilosophie.eu/recherche/IMG/pdf/GRM_3-Section_I-3b.pdf]

 

[2] [Sulla nozione di «ipotesi comunista», cfr. Alain Badiou, Sovvertire la chiusura del presente (Intervista a cura di Livio Boni e Andrea Cavazzini), in Allegoria, n° 59, Palermo, Palumbo, pp. 105-121].