Alexandre Koyré
Filosofia e Storia delle Scienze

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Scienza e Realtà
Lettura di Koyré

di Andrea Cavazzini


I pianetini di Giove sembrano irradiare un ultimo bagliore di Rinascimento neoplatonico,
come ignari che l'ordine impassibile delle sfere celesti si è dissolto,
proprio per opera del suo scopritore
Italo Calvino
Anche la splendida prosa galileiana è luce di tramonto e noi sappiamo oggi
che la verità del tempo che sopravveniva era piuttosto nella disperata congestione della prosa di un Bruno

Franco Fortini

1)Perché è importante Giordano Bruno?
È noto che l'opera storiografica di Alexandre Koyré è incentrata sulla rivoluzione scientifica in astronomia e fisica, ed altresì è noto che le sue ricerche in genere mirano a rilevare le influenze esercitate sulle concezioni ed il lavoro dei grandi protagonisti di quella rivoluzione dalle idee filosofiche (il neopitagorismo per l'astronomia eliocentrica di Copernico e Keplero, il teismo per la cosmologia newtoniana, il platonismo in generale per la considerazione matematizzante della natura). Tuttavia, non è a questa relazione che si limitano i legami tra le scienze moderne (in specie nella loro fase aurorale) ed il mondo delle restanti rappresentazione umane. Nell'opera di Koyré possiamo individuare implicazioni della rivoluzione scientifica che non coincidono con il ruolo matriciale esercitato sulle scoperte, sulla posizione dei problemi e sulle proposte di soluzione, dagli spazi di visibilità offerti dalle filosofie circolanti in modo più o meno elaborato nelle epoche e nelle "culture".Queste ulteriori implicazioni emergono in primo luogo dall'ambigua valutazione della figura di Giordano Bruno contenuta in Dal mondo chiuso all'universo infinito[1].
Questo libro approfondisce il tentativo, già condotto nelle Ètudes galiléennes, <<di definire i modelli strutturali della nuova e dell'antica concezione del mondo e di determinare i mutamenti introdotti dalla rivoluzione del XVII secolo. Questi mi sembravano riducibili a due azioni fondamentali e strettamente connesse, che caratterizzavo come distruzione del cosmo e geometrizzazione dello spazio, cioè la sostituzione della concezione del mondo come un tutto finito e ben ordinato, la cui struttura spaziale incorporava una gerarchia di perfezione e valore, con quella di un universo indefinito, od anche infinito, non più unito da una subordinazione naturale, ma unificato soltanto dall'identità delle sue leggi e delle sue componenti ultime e fondamentali; nonché la sostituzione della concezione aristotelica dello spazio -insieme differenziato di luoghi naturali- con quella della geometria euclidea -mera estensione infinita ed omogenea -da quel momento considerata identica allo spazio reale del mondo>>[2]. Siamo già, in queste poche righe, prossimi a quello che cerchiamo di mettere in luce. Ma per riuscirvi dobbiamo ritornare a queste affermazioni di Koyrè dopo aver tentato di rispondere alla domanda: perché è importante Giordano Bruno?
Koyré parla in questi termini del Nolano: <<Giordano Bruno, mi spiace dirlo, non è un filosofo molto buono (...) come scienziato egli è mediocre, non capisce la matematica (...) la concezione bruniana del mondo è vitalistica e magica (...) Bruno non è affatto uno spirito moderno. Tuttavia, la sua concezione è tanto possente e profetica, tanto sensata e poetica, che non possiamo che ammirarla, insieme con il suo Autore. Ed essa ha influenzato così profondamente -almeno nei suoi tratti formali-la scienza e la filosofia moderne, che non possiamo non assegnare a Bruno un posto importantissimo nella storia dello spirito umano>>[3]. La "concezione" bruniana di cui parla Koyré è ovviamente quella di un universo infinitamente infinito, privo di confini ed infinitamente ricco e vario in ogni singolo punto, vertiginoso profluvio di possibilità che, per assenza di una gerarchia tale da imporre distribuzioni diseguali alle cose, sono tutte presenti ovunque allo stesso titolo. Come si vede, in Bruno troviamo appunto la concezione di un mondo infinito ed agerarchico che in esordio Koyrè associava alla rivoluzione scientifica. Ma questa concezione di Bruno è irrimediabilmente non-scientifica. E d'altronde non la si può salvare nemmeno facendone lo sfondo non-scientifico di qualche scoperta scientifica, ché i contemporanei autenticamente sciéntifiques non saranno influenzati da Bruno. Peraltro, come spiega Koyré, proprio Copernico e Keplero si riveleranno fautori di un universo finito. Dunque Bruno non "influì" né sulle scoperte né sulle filosofie degli scienziati "veri" della sua epoca. Non fu né scienziato né "mago" o filosofo arcaico tuttavia condotto dall'astuzia della ragione a suggerire vie e percorsi agli "spiriti moderni". Eppure, non possiamo che ritenerlo -con lo stesso Koyré- protagonista d'eccezione della rivoluzione scientifica. Perché? In cosa lo fu?
A quanto pare, lo fu proprio come elaboratore di quella "concezione del mondo"[4] che per Koyré è sorta dalla rivoluzione scientifica: l'universo infinito, senza centro né principii gerarchici. Ma tale concezione è legata alla scienza in modo diverso da come lo fu la concezione pitagorica di Copernico. Quest'ultima è valutata da Koyré in funzione della scienza, del sorgere di un'impresa scientifica. Questo non vale per ciò che trova espressione nella filosofia di Bruno: qui è la pratica scientifica ad essere compresa in funzione dell'idea dell'universo infinito, in quanto cioè stimolo alla costruzione di un'idea extra-o meta-scientifica dei rapporti tra l'uomo e il mondo, tra il pensiero e la realtà. Questa "idea", il suo statuto, è incommensurabile con quello di qualsivoglia filosofia religione o Weltanschauung destinata a giocare un ruolo di ostacolo o agevolazione del lavoro scientifico. Essa piuttosto estrapola dalle scienze elementi che userà in un gioco ben differente da quello intrascientifico. Dobbiamo ora definire meglio questo "gioco". Lo faremo non prima di un lungo détour.

2) Scienze e Concezioni del Mondo
Definire "la scienza" è un'impresa disperata, e forse nemmeno desiderabile. L'approccio più consigliabile ai suoi "misteri" sembra essere quello di lavorare su esempi paradigmatici e cercare di illustrarne il funzionamento (o, se si preferisce un termine meno "ingegneristico", la razionalità immanente). Qualcosa come "la scienza" appare interrogabile solo attraverso lo smontaggio di esperimenti, teorie, leggi, difficilmente riconducibili ad unità, cioè difficilmente considerabili in termini di specie di un unico genere sommo, ma piuttosto come paradigmi di realizzazioni particolari di un telos ideale: la ragione scientifica, appunto.
Secondo Louis Althusser questi procedimenti eterogenei che compongono le scienze (irriducibili al genere sommo della Scienza) non mancano, seppure al livello "regionale" che comunque è la loro dimensione propria, di un momento riflessivo: la filosofia spontanea degli scienziati: <<Le F.S.S. verte solamente sulle idee ("coscienti" o no) che gli scienziati si fanno della pratica scientifica delle scienze>>[5]. Questa filosofia spontanea è "composta" di due elementi, in reciproco conflitto. Innanzitutto: <<un elemento di origine interna "intrascientifico", che chiameremo ELEMENTO I. Nella sua forma più "diffusa", questo Elemento rappresenta "convinzioni" o "credenze" sorte dall'esperienza della stessa pratica scientifica, immediata e quotidiana: "spontanea" (...) Queste convinzioni sono di carattere materialista ed oggettivista. Possono essere scomposte come segue: 1) credenza nell'esistenza reale, esterna e materiale dell'oggetto della conoscenza scientifica; 2) credenza nell'esistenza e nell'oggettività delle conoscenze scientifiche che offrono la conoscenza di questo oggetto; 3) credenza nella giustezza e nell'efficacia delle procedure della sperimentazione scientifica, o metodo scientifico, capace di produrre conoscenze scientifiche. Ciò che caratterizza il corpo di queste convinzioni-tesi consiste nel fatto che esse non danno spazio a quel "dubbio" filosofico che mette in questione la validità della pratica scientifica, scartando (...) la questione dei titoli di diritto dell'esistenza dell'oggetto conosciuto, della sua conoscenza, e del metodo scientifico>>[6].
L'elemento II antitetico a tutto questo consiste, si sa, in domande extrascientifiche, che pongono alle scienze problemi di diritto per rispondervi conformemente ad ideologie religiose o morali, sottomettendo le scienze a istanze extrascientifiche. Questo elemento risponde alle direttive impartite dalle "concezioni del mondo extrascientifiche" degli scienziati: <<Una concezione del mondo è centrata su una cosa diversa dalle scienze, su ciò che abbiamo chiamato i valori delle ]ideologie pratiche. Una concezione del mondo esprime le tendenze che attraversano le ideologie pratiche (religiosa, giuridica, politica, ecc.) (...) Ogni C.D.M. esprime infine una certa tendenza di carattere o di orientamento politico>>[7].
Si noti che la difesa dell'autonomia delle scienze da parte di Althusser è un capolavoro di astuzia teoretica. Egli nega semplicemente che alle scienze si possa sensatamente applicare un dubbio iperbolico che ne cancelli l'effettualità allo scopo di ricostruirla conformemente a criteri di garanzia tali da soddisfare il dubbio stesso. In realtà, questo dubbio è sempre suscitato da esigenze extrascientifiche, cioè dalle "concezioni del mondo", che invocano le scienze -con il pretesto di garantirne la validità- a garanzia di alcune posizioni pratiche. Perché è così sicuro che il dubbio sulla validità delle scienze non sia mai un dubbio intrascientifico? Semplicemente, perché nell'ottica del lavoro scientifico, non ha alcun senso porre un simile dubbio. Negli aforismi di Della Certezza Wittgenstein afferma che ha senso dubitare solo di ciò per cui dispongo di una regola che mi consenta di togliermi il dubbio. Non so se il teorema di Pitagora è vero: allora lo dimostro e sono soddisfatto. Ma non posso mai dubitare di ciò che fonda le soluzioni dei miei dubbi: <<Le questioni, che poniamo, e il nostro dubbio, riposano su questo: che certe proposizioni sono esenti da dubbio (fa parte della logica delle nostre ricerche scientifiche, che di fatto certe cose non vengano messe in dubbio>>[8]. In altri termini, il dubbio iperbolico, quale preludio ad una fondazione assoluta, cioè a sua volta infondata, del sapere, è una costruzione meramente verbale, ma di fatto ineseguibile: <<Lo stesso giuoco del dubitare presuppone già la certezza>>[9], e cioè presuppone quelle credenze esenti da dubbio che formano l'impalcatura che regge, o i perni su cui ruotano, le nostre ricerche quando mettiamo in dubbio qualcosa e cerchiamo di accertare come stanno le cose.
Tornando ad Althusser, si vede subito qual è il nocciolo (non importa se "cosciente") della sua tesi: la validità dei metodi, l'esistenza degli oggetti, la solidità delle conoscenze, sono i perni su cui ruota la pratica scientifica. Uno scienziato può certo mettere in dubbio che esista una tale entità, che un dato metodo sia adeguato, che certe conoscenze non siano erronee: ma non può mettere in dubbio per "fondarla" l'intera pratica scientifica; chi dicesse: "dubito di tutta l'articolazione del lavoro scientifico" direbbe qualcosa del tipo: "non so se la Terra esisteva prima che io nascessi". Chi dichiarasse di non sapere questo, evidentemente starebbe scherzando, oppure i suoi giochi linguistici non sarebbero tali da essere compresi dall'interno dei nostri. Così per chi mettesse in dubbio tutto il sapere scientifico: crederemmo di capire il senso delle sue parole, ma in realtà non potremmo fare alcun uso di un simile dubbio. Infatti, se io dubito di un risultato scientifico, cosa faccio? Rivedo i calcoli, ripercorro i ragionamenti, invento degli esperimenti, ecc. E queste azioni[10] presuppongono qualcosa, che può essere compendiata nelle tre "convinzioni" relative all'oggetto, ai metodi, ed alle conoscenze citate da Althusser, convinzioni che fondano ogni domanda posta a risultati specifici. La F.S.S. è quindi la cornice dei discorsi scientifici in quanto è imbricata in quella Lebensform che è la pratica scientifica. Ogni domanda o dubbio che pretenda di attingere ad un livello più profondo di fondazione in realtà si regge sul vuoto, e nasconde (in quel vuoto, che in verità è appunto "pieno") interessi extrascientifici.
Ma a questo punto ci si può chiedere: il rapporto delle scienze con le pratiche extrascientifiche è solo questo? Dopotutto, se volessimo dare una lectio facilior di queste posizioni dovremmo concluderne, in modo un po' deprimente, che l'unico discorso non direttamente scientifico ma al tempo stesso legittimo dal punto di vista della scienza stessa, è il commento alla F.S.S. ed alle sue presupposizioni. Oltre alla scienza, e in rapporti non illeciti con essa, vi sarebbe solo l'antropologia degli scienziati. Tutto il resto, sarebbe un tentativo abusivo di normativizzare le pratiche date "deducendole" alle norme di una razionalità universale e sovraordinata. Con il che, nuovamente non capiamo cosa ci sia di tanto interessante in Giordano Bruno, anzi, in realtà non sappiamo nemmeno, secondo queste coordinate, dove collocarlo, dato che solo con molta fatica si può ritenere la sua filosofia una "fondazione" erkenntnistheoretisch dell'astronomia, mentre di "filosofia spontanea" nel senso althusseriano non è nemmeno il caso di parlare. Ovviamente, si può anche pensare che appunto non vi sia niente di importante nel Nolano; riteniamo invece che qualcosa vi sia: e precisamente un discorso non-scientifico il cui legame con le pratiche scientifiche non è uno "sfruttamento" veicolato da una fondazione ineseguibile e pretestuosa, ma neppure si riduce al sistema dei presupposti impliciti della sola pratica scientifica. Una lectio difficilior delle tesi di Althusser (e Wittgenstein) dovrebbe leggere queste ultime come altrettante occasioni per cercare un rapporto filosofia-scienze non tradizionale; cioè dovrebbe indagare la possibilità di un interesse filosofico-extrascientifico per le scienze differente da quello che si realizza nel nesso fondazione/sfruttamento.

3) Il Senso della Realtà
La visione bruniana di un universo infinitamente infinito è il risultato di un'operazione inversa rispetto a quella con cui una "concezione del mondo" precostituita sottomette le scienze e le usa come puntello delle proprie preferenze. Qui si tratta invece di estrapolare dalle scienze qualcosa di nuovo, un orizzonte di pensiero inedito e perciò polemico nei confronti delle concezioni del mondo date. L'operazione bruniana consiste nell'introdurre un'anomalia nel sistema delle presupposizioni teoriche e pratiche in merito al nesso uomo-mondo che orientano l'agire umano, configurando così una nuova possibile forma di questo stesso agire. Lo sfruttamento denunciato da Althusser consiste nell'asservire i risultati delle scienze al rafforzamento di pratiche esistenti: l'introduzione di questa anomalia mira invece a distruggere e riorganizzare le pratiche in vigore. Evidentemente, quali contenuti particolari si prestino ad un'operazione anziché ad un'altra, lo può decidere solo il contesto in cui l'anomalia interviene polemicamente, cioè è una questione pratica. Per distinguere ciononostante le due operazioni, diremo che se la prima implica una "concezione del mondo" dai cui principi pretende di dedurre le scienze, la seconda implica l'introduzione di un inedito senso della realtà (Wirklichkeitssinn), che viene piuttosto indotto dai quadri concettuali delle scienze. La concezione del mondo ed il senso della realtà sono ambedue strutture extrascientifiche, che coinvolgono piuttosto il rapporto tra "uomo" e "mondo", tra "mente" e "realtà"[11]; solo, la concezione del mondo mira a riassorbire le pratiche scientifiche (e non solo) in una gerarchia preesistente, aprioristica e "chiusa" di valori e significati; mentre il senso della realtà indotto dalle scienze e dalle altre pratiche tende alla disgregazione degli ordini costituiti, e pertanto è riconoscibile dalla sua tendenza a non stabilizzarsi in gerarchie ideali. La concezione del mondo cerca di ricompattare il rapporto esistente tra uomo e mondo, mentre di un nuovo senso della realtà si può parlare quando a disposizione di un'epoca storica si dà un surplus inatteso di possibili configurazioni di questo medesimo rapporto [12]. Da questo punto di vista, si può apprezzare la differenza tra Keplero, che associava all'idea di un universo infinito un senso di orrore, e Bruno, per il quale invece l'affermazione dell'infinità permette di moltiplicare la varietà e la ricchezza dei possibili e deve appunto perciò essere fatta valere in contrapposizione al Cosmo antico-medievale. Come rileva Koyré, le obiezioni di Keplero si appunteranno sul fatto che la cosmologia bruniana oltrepassa i dati dell'osservazione astronomica: un'obiezione apparentemente mossa dalla scienza positiva contro la speculazione selvaggia; in realtà, a Keplero preme, più che il rifiuto delle costruzioni inverificabili, l'affermazione della natura strutturata dell'universo per reperirvi l'impronta della struttura interna di Dio, cioè la Trinità. Koyré ravvisa dunque in Keplero l'opposizione protestante a Bruno, analoga a quella cattolica, anche se non identica. Ambedue in ogni caso, mirano a scongiurare il pericolo che l'affermazione della relativa insignificanza della Terra rispetto ad un Universo infinito e ad un Dio immanente ad esso invalidi la plausibilità dell'elezione divina del genere umano mediante l'Incarnazione, ciò che invaliderebbe anche i fondamenti "storici" delle confessioni in questione. In entrambi i casi, dunque, le teorie scientifiche vengono combinate con un discorso extrascientifico, la funzione del quale però è nei due casi opposta all'incirca come opposte potrebbero essere un'insurrezione ed una carica della polizia, pur comportando entrambe atti violenti. Ma una violenza che mira a conservare un Ordine, uno status quo, differisce toto coelo da quella che interrompe una continuità, spezza la ripetizione dell'identico e libera dalle macerie gli elementi di nuove costruzioni.
Allora, "l'importanza di Giordano Bruno" relativamente alle scienze consiste proprio nel fatto che la sua filosofia è un effetto non-scientifico della rivoluzione scientifica; ma la non-scientificità di alcuni effetti del sorgere delle problematiche scientifiche non significa che tali effetti siano di "seconda classe", abusivi, o inevitabili ma nondimeno indesiderabili: la non-scientificità di parte degli effetti che le scienze portano con sé è indizio del fatto che le pratiche scientifiche esistono in una totalità di pratiche organizzata in modo complesso ed ineguale; totalità i cui legami interni, complessi e differenziati, consentono che si diano fenomeni extrascientifici sia a monte che a valle delle pratiche scientifiche, e perfino all'interno di queste ultime, sempre secondo una logica specifica. Ed è appunto questa forma di esistenza della scienza legata in molteplici modi al non-scientifico-forma necessaria e non casuale o difettiva- a costituire l'oggetto della "storia delle scienze" fondata da pensatori come lo stesso Koyré o Georges Canguilhem. La ragione è sempre impura, e questa impurità è costitutiva, non accidentale. Se l'unica conoscenza è quella scientifica, è anche vero che essa può esistere e produrre effetti di conoscenza solo in un reticolo di effetti risalenti a pratiche non-conoscitive. La pratica filosofica di Bruno, volta a trasformare il rapporto dell'uomo con il mondo, non è a stretto rigore nulla che appartenga alle scienze; tuttavia, poiché la sua struttura e la sua strategia decostruttiva nei confronti delle rappresentazioni consolidate incorporano elementi della rivoluzione astronomica, e poiché essa stessa si è a sua volta imposta nella discussione relativa alle scoperte astronomiche e cosmologiche dell'epoca, possiamo dire che questa filosofia appartiene alla rete di relazioni che costituisce la storia delle scienze moderne. Storia quanto mai complessa, se è vero, e possiamo trarre da Koyré appunto questa verità, che la rivoluzione scientifica è stata costituita da: 1) pratiche scientifiche, rette come da un'impalcatura (secondo una metafora che troveremo in Koyré stesso) da: 2) "concezioni del mondo" teologico-filosofiche fondamentalmente conservatrici, e capace di sviluppare: 3) un "senso della realtà" audacemente rivoluzionario. La "storia", la storicità intrinseca al sorgere delle scienze moderne, è strutturalmente costituita dagli intrecci, dalle combinazioni specifiche, di queste tre serie reciprocamente eterogenee se non addirittura antagoniste. Tanto basta per far vergognare qualunque genericità sulla "storia dell'essere", a quanto pare molto meno articolata di quella, magari un po' meno paludata, degli "enti". Alle tortuose concatenazioni di questa storia, del tutto essoterica ed intelligibile, ma non per questo ovvia e agevolmente decifrabile, ai suoi snodi lungo i quali l'uomo ha guadagnato una nuova immagine di sé e del proprio mondo, si è rivolta l'indagine di Koyré, che possiamo definire una critica storica della ragione pura.

4) Dalla Scomparsa di Dio alla Ragione Strumentale
È certo che Koyré sia stato uno studioso estremamente sensibile proprio al nodo costituito dall'imporsi di un inedito senso della realtà: l'Età Moderna, dal XVI al XVIII secolo, che Koyré ha eletto ad oggetto di ricerca privilegiato (senza trascurare, grazie all'enciclopedica erudizione che lo contraddistingueva, i necessari complementi dell'Antichità e del Medioevo), è l'epoca in cui il pensiero occidentale destruttura e ristruttura completamente l'immagine dell'uomo e del mondo, delle possibilità dell'agire umano e del pensiero razionale. I testi raccolti in questo volume, in specie quelli trascritti da corsi e conferenze, delineano un articolato processo di destrutturazione e ristrutturazione del senso della realtà, un processo l'esito del quale consiste nel proiettare su piani inediti di problematicità il "mondo", questo spazio che si scopre indeterminato, e l' "uomo", questo essere che nel torno di tempo analizzato da Koyré perde la garanzia della propria collocazione nell'universo.
Possiamo ravvisare in questi ed altri studi di Koyré una problematica fondamentale, che ritorna in modo discreto ma costante in diverse configurazioni, e che possiamo considerare un cardine del senso della realtà sviluppato a partire dalla Rivoluzione scientifica nell'Età Moderna: si tratta del tema della scomparsa di Dio dal mondo, un processo di immanentizzazione della realtà che, movendo dalla profetica visione bruniana, si assesta nell'esito meccanicistico del modello newtoniano della realtà fisica. Particolarmente sintomatica è la conclusione di Dal mondo chiuso all'universo infinito: <<Alla fine del secolo la vittoria di Newton era completa. Il Dio newtoniano regnava supremo nel vuoto infinito dello spazio assoluto in cui la forza di attrazione universale legava insieme i corpi atomisticamente strutturati dell'universo infinito e li faceva ruotare in accordo con strette leggi matematiche. Si può tuttavia arguire che questa fu una vittoria di Pirro e che il suo prezzo fu disastrosamente alto>>[13]. Perché questo giudizio così lapidario? Koyré mostra che il modello newtoniano del mondo fu sviluppato in modo tale da rendere superflua la presenza di Dio al suo interno; della gravità si fece una proprietà della natura anziché una manifestazione dell'intervento divino, e, soprattutto, la materia fu fatta coincidere con l'infinità dello spazio assoluto: <<Quanto alle dimensioni dell'universo materiale che i newtoniani avevano opposto per prima cosa all'infinità attuale dello spazio assoluto, la pressione incessante dei principi di pienezza e di ragion sufficiente, coi quali Leibniz riuscì ad infettare i vittoriosi rivali, rese questo universo coestensivo allo spazio stesso. Dio, anche quello newtoniano, non poteva ovviamente limitare la propria azione creativa e trattare una certa parte dello spazio omogeneo infinito (...) in modo tanto profondamente diverso dalle altre. Così l'universo materiale, a dispetto di colmare soltanto una parte supremamente piccola del vuoto infinito, divenne infinito proprio come quest'ultimo. Lo stesso ragionamento che preveniva Dio dal limitare rispetto allo spazio la propria azione creativa poteva parimenti essere applicato al tempo. Un Dio infinito, immutabile e sempiterno non poteva essere concepito come comportantesi in modi differenti in tempi diversi e come limitante la propria azione creativa ad un lasso di tempo tanto piccolo. Inoltre un universo infinito che esiste solo per una durata limitata pare illogico. Sicché il mondo creato divenne infinito sia nello spazio che nel tempo. Ma, come aveva (...) obiettato Clarke a Leibniz, un mondo infinito ed eterno può difficilmente ammettere la creazione. Non ne ha bisogno: esiste in virtù della sua stessa infinità>>[14]. Se a ciò aggiungiamo la considerazione che le leggi meccaniche dell'universo funzionano automaticamente, sì da non aver bisogno dei periodici interventi dell' "orologiaio", arriviamo all'affermazione di Koyré che chiude la sua opera principale: <<L'universo infinito della nuova cosmologia, infinito in durata come in estensione, in cui la materia eterna, in accordo con leggi eterne e necessarie, si muove senza fine e senza scopi nello spazio eterno, eredita tutti gli attributi ontologici della divinità. Ma solo questi - tutti gli altri Dio li portò via con sé>>[15].
Ciò che è iniziato con la distruzione del Cosmos, con la negazione di un privilegio della Terra dovuto ad una speciale destinazione affidata da Dio all'uomo, si conclude con l'esclusione di Dio dal mondo, ormai completamente immanente a se stesso. L'esito finale del percorso tracciato nelle ricerche di Koyré realizza ciò che le religioni rivelate temevano nel sistema di Bruno, vale a dire nientemeno che l'impensabilità di una presenza divina nel mondo, posto che si pensi quest'ultimo nei termini fin qui descritti, e quindi l'assurdità dei fondamenti delle religioni tradizionali. Il mondo infinito, autosussistente ed omogeneo, si oppone tanto al Dio dei Filosofi, l'impassibile entità che regola l'armonia e l'ordine del Cosmos, e ne scandisce in base alla maggiore o minore prossimità a sé i livelli gerarchici, quanto al Dio della Rivelazione, l'essere personale che si manifesta all'uomo per mezzo del miracolo, e che ha eletto il genere umano a terminus ad quem delle proprie preoccupazioni, della propria ira o benevolenza, del merito o del castigo[16]. Infatti, come spiega Koyré nella conferenza su Teologia e Scienza, tutti i tentativi di fondare lo statuto della conoscenza teologica (da quella che l'autore definisce "gnosi cristiana" all'aristotelismo tomista) ricorrono al miracolo: il miracolo come manifestazione volontaria di Dio all'uomo. Ma, come sappiamo, una realtà strutturata attorno all'idea dell'infinito universo omogeneo rende difficile poter pensare che Dio si preoccupi di manifestarsi agli abitanti di una palla di fango persa nell'infinità dello spazio; e, d'altra parte, ed è ciò che conta di più, la scienza ci vieta e si vieta di accettare i miracoli, i miracoli cioè non tanto in qualità di singolarità inesplicabili (anche se per un meccanicismo stretto alla Laplace si tratta appunto di postulare un mondo regolato da leggi ferree e quindi totalmente prevedibile), ma soprattutto in qualità di interventi di natura personale, in qualità di eventi prodotti dall'agire di una volontà titolare di fini e progetti, nella trama oggettiva delle cose della natura.
Il Miracolo, l'Elezione, l'Ordine, i luoghi naturali: tutto questo non fa parte del senso della realtà indotto dalla scienza moderna, il che significa qualcosa di più della semplice obsolescenza di alcune ipotesi fisico-cosmologiche: significa che, dopo il pieno dispiegamento del processo analizzato da Koyré, non possiamo più veramente credere -e al limite nemmeno concepire- che gli esseri siano ordinati in una scala di luoghi naturali, o che Dio abbia dato a noi uomini una destinazione particolare che è nostro dovere realizzare; e significa che questa impossibilità di credere non è dell'ordine delle teorie o delle ipotesi che siamo disposti a vagliare, accettare o rifiutare, ma si radica in quella zona di intersezione tra il nostro comportamento in atto e l'idea che abbiamo di noi stessi e della nostra Umwelt, tra l'intreccio delle nostre pratiche e le rappresentazioni significative che le attraversano; una zona faute de mieux nominabile come spirito oggettivo, e che per gli uomini dell'Età Moderna semplicemente possiede una struttura incompatibile con una concezione religiosa o "cosmica" del mondo. L'uomo moderno non pensa più come l'uomo antico o quello medievale: ma dire che "non pensa più..." non è sufficiente; l'uomo moderno non funziona più come l'uomo antico e medievale, non solo e non tanto a livello delle idee e dei postulati teorici o morali, ma a quello delle pratiche, delle forme di vita: è su questo piano "antropologico" fondamentale che Dio è scomparso. La sua presenza, la sua vigile sollecitudine verso l'uomo, la sua stessa Legge, anche qualora vengano affermate o rimpiante da teologi, pubblicisti, filosofi e letterati, non sono più in grado di orientare l'agire. Le pratiche entro le quali gli uomini menano la propria esistenza vengono innervate, nel mondo moderno, dalla struttura delle scienze naturali (e poi, in un ulteriore passaggio storico, dalla tecnologia), e non più dai postulati della fede. L'outillage mental a disposizione dell'uomo, cioè la matrice che decide di cosa sia o non sia credibile e pensabile in una certa epoca e in una data formazione sociale, è cambiato nell'Età Moderna, ma lo è perché cambiate in primo luogo sono quelle che Hans Blumenberg chiamerebbe le Wirklichkeiten, in denen wir leben, cioè le strutture pratico-vitali che sostengono le possibilità del nostro pensiero, che sono il nostro pensiero in quanto tutt'uno con il nostro mondo, così come per Pascal il rito, la liturgia, i suoi simboli, fino al gesto ad un tempo fisico e simbolico dell'inginocchiarsi a mani giunte da parte del singolo credente, sono immediatamente la fede, il "credere"[17].
Si comprende allora l'originalità della storia delle scienze praticata da Koyré. È una storia il cui statuto non può venire definito solo in termini di mobilitazione dell'erudizione contro le ristrettezze delle vedute dell'epistemologia. La ricerca di Koyré prende (almeno tendenzialmente) ad oggetto piuttosto una combinazione di ambiti, stili di pensiero, credenze, filosofie, tecniche matematiche e sperimentali, tali da delineare una totalità articolata ma non delimitabile apriori e che non rientra in nessuna partizione disciplinare, ma piuttosto sorge al crocevia, nelle intersezioni, nelle contaminazioni ai margini, degli oggetti dati dei saperi esistenti[18]. E lo studio di questo oggetto possiede un rilevante risvolto antropologico: si tratta di cogliere la totalità in trasformazione delle forme della vita umana, cioè di estendere, fino a comprendere una critica filosofica della razionalità, l'obiettivo di conoscenza di quell'uomo, ad un tempo "tutto intero" e "esistente nel tempo", posto da Lucien Febvre e Marc Bloch a riferimento dell'impresa del sapere storico. Ecco dunque perché le ricerche di Koyré non possono ridursi allo studio delle "influenze" esterne sulle scienze: sì, le scienze sono intrecciate alle mentalità, ma le mentalità, nella logica delle Annales, che è anche di Koyré, non sono semplici "idee", non le possiamo trovare nella testa di qualche individuo particolarmente geniale e facondo; esse esistono e sono comprensibili solo nell'intreccio, nella articolazione, delle pratiche e delle forme di vita le più disparate; è appunto questo intreccio ad essere destrutturato e ristrutturato dall'introduzione di un nuovo senso della realtà; ed in quanto tale intreccio incorpora in più modi le scienze, ma non è riducibile ad esse, è proprio al suo interno, mediante i suoi processi e le sue relazioni strutturali, che la non-scienza si trasforma in scienza e viceversa, che la filosofia e la religione diventano le impalcature su cui si regge il rigore del discorso scientifico, e che una scoperta scientifica può dar vita alla contestazione di venerabili postulati metafisici e teologici. È attraverso queste relazioni ramificate tra pratiche, questi rapporti "cespugliosi", tali da escludere ogni causalità lineare ed ogni sviluppo prevedibile, in una parola, è attraverso questi rapporti surdeterminati che pensatori mistici o addirittura praticanti la magia possono occupare ruoli fondamentali nella trasformazione complessiva della vita umana da parte delle rivoluzioni scientifiche, e che Giordano Bruno ed Henry More possono essere trattati degnamente accanto a Galilei e Keplero, che la mistica di Boehme può essere concepita come un frutto -in altro ambito-di una rivoluzione nella scienza, e la rinascita umanistica del platonismo può apparire come un fattore di quella stessa rivoluzione.
Queste considerazioni, che crediamo documentate dai materiali qui tradotti, vorrebbero suggerire che l'erudizione storica in Koyré fa parte di un ampio disegno teoretico e storico, all'interno del quale il privilegio accordato all'indagine del pensiero astronomico e cosmologico non implica alcun culto angustamente scientistico dell'esattezza matematica: al contrario, l'importanza della rivoluzione astronomica sta appunto nell'ampiezza del suo orizzonte di implicazioni. Il rilievo cosmologico dei "sistemi del mondo" investe e permette di indagare tutte le questioni relative al rapporto tra uomo, natura e razionalità. La storia delle scienze di Koyré incorpora quindi questa gamma di problematiche la cui relazione non è immediata, ma va "costruita" mediante la proiezione che lo storico opera sull'intreccio dei temi a partire da un problema particolare assunto come paradigma.
In proposito, cioè tenendo fermo a questa molteplicità di aspetti dell'oggetto delle indagini koyreane, ed alla conseguenza che se ne trae dell'inesistenza di un "positivismo" del filosofo russo, si dovrà notare che la tesi della scarsa importanza attribuita a Francis Bacon da un Koyré interessato unilateralmente alla matematizzazione del discorso scientifico (e perciò in comprensivo verso i problemi tecnici, antropologici e "ideologici" che la rivoluzione scientifica suscita nel pensiero moderno) è largamente una leggenda. Poiché nell'ottica dell' "uomo tutto intero", della ristrutturazione delle forme di vita complessive, come può essere trascurabile il ruolo dell'apologeta del dominio sulla natura? Rispetto al dibattito scientifico o metafisico-cosmologico, Bacon rappresenta ed inaugura un tema parallelo a quello della struttura dell'universo, e non certo meno importante: nel pensiero del Lord Cancelliere, il crollo del Cosmos e la scomparsa di Dio vengono elaborate direttamente nell'ottica del progetto -che ora si rende disponibile per l'uomo- di dominio tecnico su una natura sconsacrata. Con Bacon inizia un processo che sfocerà nell'idea di un uomo capace di dominare la natura, di padroneggiare le proprie condizioni di esistenza, in ultima analisi di autocostruirsi ed autoaffermarsi aldilà e aldifuori di ogni ordinamento naturale o divino. L' "età della ragione" è dunque l'epoca in cui la ragione si immanentizza compiutamente, ed elegge a sua unica preoccupazione l'edificazione scientifico-tecnica del mondo umano, cioè dell'uomo e per l'uomo. La Storia e la Società vengono ora concepite come "natura", ma non più nel senso aristotelico di ciò che si muove per una dinamica spontanea ed interiore, bensì appunto nel senso di ciò che è a disposizione dei progetti e delle costruzioni dell'uomo.
Questo lato del processo di immanentizzazione comporta anche un mutamento nella stessa idea della razionalità. Koyré illustra il passaggio mediante il quale lo scetticismo deriva, dall'analisi dei limiti imposti alla conoscenza umana, la conclusione che solo quanto si trova entro questi limiti è degno di attenzione. La ragione si qualifica dunque come strumento pratico, strutturalmente esclusivo di tutto ciò che non è possibile padroneggiare, produrre e riprodurre. Questo esito segna la nascita della cosiddetta "ragione strumentale": il pensiero non è più interessato all'indagine sulla struttura del mondo, né ai fondamenti teoretici della propria validità e verità, ma solo all'intervento tecnico sui fenomeni manipolabili. La scienza diventa tecnica, la razionalità sinonimo di applicabilità ad operazioni trasformative, ciò che era solo un aspetto dell'originaria intenzione teoretica della rivoluzione scientifica.

5) La Teoria e La Tecnica
Lo scarto tra teoria e tecnica strumentale è in se stesso molto problematico. Infatti, sebbene i due fenomeni non possano essere pacificamente identificati, nemmeno si può trascurare il loro rapporto: la tecnica, nonostante ciò che può suggerire il malvezzo di chiamarla téchne sottintendendone l'origine antica, comincia infatti a diventare un problema ineludibile solo allorché incorpora la scienza moderna, che pure appare originariamente diretta ad una pura razionalità teoretica. In altri termini, solo da quando è in stretto rapporto con la scienza, la tecnica è diventata capace di creare mondi vitali a propria immagine, di ricostruire a partire da sé lo spirito oggettivo. L'aporia sta in ciò, che la scienza in quanto teoreticità pura appare mossa da una teleologia rivolta alla progressiva razionalizzazione dell'esperienza, e non direttamente alla trasformazione dei fenomeni ridotti a substrato indifferente di una strumentalità altrettanto pura: sebbene solo l'unione di scienza e tecnica possa produrre un mondo, gli effetti di ristrutturazione dello spirito oggettivo seguono tendenze che, dall'uno all'altro fenomeno, sono essenzialmente differenti, e talora antitetiche-la teleologia interna alla teoresi implica direzioni antropologiche, cosmologiche e epistemologiche differenti dalla teleologia del comportamento tecnologico. Questo nesso contraddittorio è ciò che Koyré ha intravisto contrapponendo Bacone a Galilei ed al tempo stesso rintracciando nella rivoluzione scientifica di cui è protagonista il pensiero matematizzante dello scienziato italiano il punto di insorgenza di un processo che condurrà alla realizzazione del progetto epocale del Verulamio.
Cerchiamo allora di determinare quali siano le direzioni antitetiche rispettivamente della tecnica e della teoria, almeno per quanto riguarda il torno di tempo indagato da Koyré. Emerge in primo luogo che la razionalità strumentale - le cui radici sono, non scordiamolo, localizzate nella critica scettica alla conoscenza - è una razionalità essenzialmente finita. Con ciò intendiamo che essa è caratterizzata da due limiti strutturali, il primo relativo all'oggetto della razionalità teoretica, il secondo relativo alle sue finalità ed al suo sviluppo immanente: in primo luogo, abbiamo il limite posto dalla limitazione del campo delle conoscenze legittime agli oggetti accessibili alle operazioni di una coscienza empirico-sensibile; in secondo luogo, abbiamo il limite posto dalla funzione strumentale della conoscenza, che, facendo di essa il mezzo di un fine posto dall'esterno, ne nega la sussistenza e lo sviluppo illimitato per assegnarle un terminus ad quem nella realizzazione di un apparato tecnico capace di rendere obsoleto il sapere stesso. Dal punto di vista strumentale, la teoria né può occuparsi dell'infinito, né può essa stessa caratterizzarsi come compito infinito, cioè come illimitato sviluppo delle proprie operazioni, illimitata trasformazione delle proprie strutture, e illimitato lavorìo di fondazione del proprio discorso a pretesa di validità razionale. Eppure questi due riferimenti ad un oltrepassamento dell'orizzonte della singola coscienza empirica e della sua esperienza sono immanenti alla struttura della scienza moderna, che non può accontentarsi di essere uno strumento, né di limitare i suoi interessi agli obiettivi plausibili di una manipolazione "poietica". Blumenberg vede nello stesso Descartes la perorazione di questa "cattiva finità": <<IL difetto della creazione cartesiana, è la sua mancanza di idealità, il suo puntare alla finitezza e a una funzione intermediaria della teoria. Per Cartesio lo studio della natura doveva servire a preparare la morale definitiva e una medicina utile alla vita. La purezza della conoscenza esatta non costituiva per lui l'Idea per un cammino storico infinito della teoria. Col lavoro di alcune vite si sarebbe pervenuti a prolungare la vita e ad assicurarne la felicità: la ricerca scientifica era destinata ad essere non meno provvisoria della moral par provision>>[19]. L'antropocentrismo della razionalità strumentale ha un esito inquietante: qualora le scienze assicurino il benessere dell'uomo, il loro compito svanisce ed esse possono scomparire -un perfetto stato di felicità garantito tecnicamente rende superfluo il sapere e la stessa razionalità teoretica. La realizzazione della felicità umana, se posta come fine della conoscenza, coinciderebbe allora con l'avvento di un'umanità post-razionale, e l'utopia cartesiana somiglierebbe, più che ad una repubblica dei dotti, all'incubo filosofico con cui Alexandre Kojéve ammalierà i protagonisti della cultura francese del Novecento. Da questo antropocentrismo si tiene appunto lontano Koyré, al centro del cui pensiero c'è invece l'infinito, l'infinità del cosmo, e l'infinità del compito della ragione. In questo, Koyré segue ancora una volta Giordano Bruno, la cui posizione è stata magistralmente descritta come segue da Blumenberg [20]: <<Bruno non è il mediatore di uno stato di acquietata contemplazione di fronte alla scena celeste, che ora è solo in apparenza chiusa. Quasi nello stesso istante in cui, grazie a Copernico, la terra è diventata eccentrica e quindi problematica come sede di un'immobile contemplazione, la fantasia teoretica si fa venire l'idea di abbandonarla. Nel suo grado massimo l'autodeterminazione della teoria è il massimo di mobilità (...); se ogni stato del mondo è diventato equivalente ad ogni altro e, quindi, ogni contemplazione equivalente ad ogni altra, allora il guadagno può consistere solo nell'incessabilità delle realizzazioni di queste. Il discorso della ragione liberata dai suoi ceppi, il metaforismo dell'attraversamento dello spazio annunciano la fine della teoria come pacificazione, come eudaimonia, come vita appagata, sostituite dal processo infinito come forma dell'esistenza dell'umanità. La ragione (...)si trasforma in organo del concetto di infinità>>[21].
L'infinitismo teoretico e cosmologico di Bruno ridimensiona la posizione dell'uomo, dei suoi bisogni e delle sue possbilità, come terminus ad quem della teoresi: l'oggetto del sapere è la struttura della realtà, la forma razionale delle cose, la fondazione infinita dei processi di risoluzione dei fenomeni in quella forma, non la massimizzazione degli utili umani, ma questa conclusione implica e ad un tempo presuppone che l'eccellenza umana venga sostituita nell'ordine degli scopi ultimi dalla teleologia immanente della teoria stessa. L'infinità dell'universo e l'infinità della conoscenza di esso possono venire affermate in se stesse, come finalità autonomamente valide, solo come correlato di un certo misantropismo cosmico, che Blumenberg attribuisce senz'altro al Nolano. Dopo Althusser potremmo parlare di antiumanesimo teorico, che resta la formula migliore. Infatti, la foucaultiana "morte dell'uomo" può far pensare -certo contro le intenzioni di Foucault- ad un decesso sopraggiunto per compimento di un fine intrinseco alla specie umana; e l'imputazione di misantropismo sembra incongrua rispetto ad una tendenza che esordisce annunciando la dignificazione derivante all'uomo dall'abbattimento della chiusura del cosmo. In realtà, l'uomo non "muore", né subisce una denigrazione come effetto del proprio decentramento. Al contrario, la possibilità che la storia umana non si concluda in una sorta di serraglio tecnicamente garantito e gestito sta proprio nel fatto che l'uomo è il Trager del processo della conoscenza, il quale è infinito, e quindi aperto di diritto a configurazioni tali da eccedere qualsiasi chiusura. L'infinità dell'universo scaglia l'uomo in una realtà estranea cui deve far fronte razionalmente, anche qualora ciò non potesse tradursi in una riduzione tecnologica delle fonti di rischiosità. L'estraneità nei confronti del reale connessa al gioco infinito di aumento delle conoscenze e parallela crescita delle sfide e dei problemi per cui le soluzioni non sono prefabbricate, ma richiedono una creatività infinita della ragione, è ciò che può trattenere l'uomo dal ridursi ad un animale d'allevamento foraggiato dai propri sistemi di protezione, proprio in quanto quel gioco obbedisce a tendenze non antropocentriche. Così Koyré può affermare che l'itinerarium mentis in veritatem costituisce quanto vi è di più alto nello spirito umano. Appunto, ciò che vi è di più eccellente nello spirito umano è la sua capacità di fare dell'altro da sé il proprio tema, cioè di rivolgersi a regioni in cui le esigenze immediate dell'uomo tacciono. Per Blumenberg questo approccio sta alla base delle speculazioni naturalistiche di Anassagora: l'uomo non è stato fatto per contemplare i cieli, né i cieli per essere spettacolo ad occhi umani, ma la possibilità di indagare una realtà indifferente e impossibile da dominare, il fatto che sia possibile cercare di comprenderne il meccanismo, nobilita l'intelligenza umana rivolta a questo compito infinito. Questa estrema fedeltà alla teoria è forse la stessa che vediamo intessuta nell'insistenza di Koyré sul significato di operazione teoretico-razionale della scienza. In effetti, questo tema rivela solo una volta di più il carattere intimamente paradossale e problematico del pensiero di questo erudito commentatore di antichi testi, che può essere variamente definito un'antropologia non-antropocentrica, un razionalismo puro che si affida alla storia delle idee e della cultura, una filosofia della storia senza teleologia, un'esaltazione della specificità della scienza che ne indaga gli effetti extrascientifici più disparati, una teologia dell'impossibilità di una forma di vita realmente religiosa.
A suo modo, il dotto studioso russo è stato altrettanto rivoluzionario e iconoclasta dell'eretico di Nola cui attribuiva tanta importanza. Anche Koyré è stato un distruttore di sfere, delle sfere disciplinari che imprigionano i saperi e ne limitano le feconde contaminazioni reciproche, e questa distruzione è avvenuta nel segno di una fedeltà alla tensione verso la razionalizzazione dei fenomeni.
Come abbiamo visto, le implicazioni dell'opera di Koyré si spingono fino alla problematizzazione delle forme contemporanee di vita, definite dal nesso tra scienza e tecnologia. Ci si può chiedere se oggi la caratterizzazione della tecnica come progetto incentrato su una coscienza empirica finita regga ancora: nelle realizzazioni odierne dell'apparato tecnologico che regge la nostra esistenza, non vediamo continuamente infranto il limite di ciò che è disponibile e comprensibile ad una coscienza fenomenica quale quella che Hume voleva porre a fondamento non riducibile del sapere? Probabilmente, oggi non è più solo la teoria, ma la stessa tecnologia, ad eccedere le prestazioni misurate sulle esigenze umane: i fini dell'ente uomo non circoscrivono più le possibilità di creazione e di esperienza accessibili tecnologicamente. Il problema allora consiste in questo: questa infinitizzazione della tecnologia, in quale misura dipende dalla continua incorporazione della scienza, dunque dall'infinità della teoria stessa? A quanto pare, la tecnologia si apre all'infinità delle proprie prestazioni solo allorché si unisce alla teoria in quanto fenomeno extratecnologico, privo di intenzionalità funzionali. Si può allora ipotizzare che un approccio capace di unire l'analisi delle implicazioni e degli effetti antropologici, sociologici e culturali delle scienze al riconoscimento dell'autonomia della teoresi, quale troviamo esemplificato dalle ricerche di Koyré, possa costituire un importante strumento critico per orientarsi nel mondo attuale, importante quanto lo fu un tempo per istituire un senso della realtà adeguato alle scienze nascenti il pensiero di un Giordano Bruno.