Nel contributo che segue cercheremo di focalizzare alcuni problemi relativi alla critica dell'ideologia ed allo statuto conoscitivo delle scienze storico-sociali, attraverso il testo di Althusser, testo particolarmente ricco di sintomi rivelatori dei nodi aporetici persistenti all'interno di tali tematiche. Non faremo dunque della filologia, ma cercheremo di dare una lettura teorica. I problemi sono più importanti degli autori, ma è solo studiando questi ultimi che i problemi acquistano visibilità sufficiente a reimpostarli creativamente. Non bisogna però trascurare il fatto che è per pensare in proprio che si studiano i filosofi. Vedremo allora se i modi con cui Althusser ha affrontato alcune questioni può, opportunamente ri-e de-costruito, darci di che pensare. Quest'operazione di ri-e de-costruzione è analoga alla dialettica di obiettivazione e dis-obiettivazione su cui ci soffermiamo nel seguito. Non è improprio dunque ricordare che, fiduciosi nella realtà oggettiva dei problemi cui un testo ci confronta, abbiamo preferito, anziché premetterli, far emergere dall'analisi stessa dei testi in questione i principi teorici della nostra lettura. Preferiamo che ci si rimproveri un'indebita oscurità, piuttosto che il giocare irresponsabilmente con il presunto circolo ermeneutico.
1)Epistemologia e storia
Poiché si suppone corretto muovere interpretativamente e notioribus
cominciamo con l' enunciare due "dati di fatto" (meglio sarebbe
chiamarli aristotelicamente endoxa) che si cercherà poi di
problematizzare:
1) Althusser ritiene possibile produrre un discorso teoretico-razionale
sui fenomeni storico-sociali;
2) Althusser, specie nelle prime opere, compie una serie di riferimenti
teorici al pensiero di Bachelard.
Questi due "punti fermi", che formano parte dell'opinione consolidata
su Althusser, non sono però teoricamente ovvii. Si vedrà,
anzi, che se condotti alle loro naturali conseguenze, sono in effetti incompatibili
tra loro, poiché è molto dubbio che il modo di pensare bachelardiano
possa legittimare l'idea di una razionalità della conoscenza "storico-sociale".
Esaminiamo allora innanzitutto il rapporto tra Althusser e Bachelard. Esso
si impernia sul concetto di "rottura epistemologica": la conoscenza
scientifica sorgerebbe e si svilupperebbe come effetto della reiterazione
di una discontinuità, ciascuna volta specifica ed imprevedibile,
tale da riorganizzare le coordinate del sapere finora consolidatosi. Come
è stato notato da Etienne Balibar, però, proprio questo concetto,
questo "prestito" che Althusser afferma[1]
di prendere da Bachelard nasconde una serie di aporie notevolmente insidiose.
L'insistenza di Bachelard sullo statuto polemico e critico delle condizioni
del progresso scientifico è stata da più parti considerata
come una posizione rivoluzionaria in campo epistemologico. Gli elementi
caratterizzanti di una tale posizione sono ben noti, ma giova ripeterli:
in primo luogo, il concetto di ostacolo epistemologico; in secondo
luogo, quello di storia ratificata. Prendiamo in considerazione il
tema dell'ostacolo. La forza di questa nozione sta nel fatto che
essa postula l'esistenza di un blocco del sapere scientifico, un blocco
inteso come una vera e propria forza materiale, capace di esercitare un'autonoma
efficacia sullo sviluppo della conoscenza inibendone lo "slancio".
Indubbiamente, siamo in presenza di una nozione originale se paragonata
all'idea di un non-sapere come pura privazione di conoscenza: dal concetto
di "ostacolo" siamo obbligati a concepire il progresso (o meno)
della scienza come il risultato di un rapporto di forze, e non quindi
come il mero incremento cumulativo delle nozioni che viene a sostituire
l'ignoranza mediante un mero passaggio lineare dal meno al più di
conoscenza esatta. La storia delle scienze non è più pacifica,
ma è la storia di una lotta, il cui esito non è garantito,
né dato apriori. E questo non solo perché non è
garantita la rimozione dell'ostacolo, essendo quest'ultima correlativa ad
un conflitto di forze; ma anche, e soprattutto, perché, essendo ogni
ostacolo specifico, la sua rimozione richiederà atti originali, non
contenuti in alcuna premessa; atti che dovranno ristrutturare l'intero campo
del sapere attualmente valido, non trattandosi più di addizionare
nuovi "fatti" a quelli precedentemente acquisiti, ma di intervenire
nella complessità di una situazione problematica a molteplici livelli.
Tuttavia, è facile vedere nell' "ostacolo" bachelardiano
più, e altro, di ciò che effettivamente vi si trova. Leggiamo
ad esempio l'esposizione di Balibar dei meriti di questo concetto: <<[Bachelard]ricusa
infatti, sin dall'inizio, i miti empiristici della continuità progressiva
del sapere (in tutte le loro forme, compresa quella dell'empirismo speculativo
di una Ragione eterna) e, in tal modo, apre effettivamente all'epistemologia
il campo di un problema reale, senza soluzione anticipata e già data:
studiare (alla luce dell'informazione che, sola, può fornire una
pratica effettiva della scienza attuale) gli "atti epistemologici"
necessari, eppure profondamente imprevedibili, le "sintesi epistemologiche",
che nondimeno non hanno premesse vere e proprie, "atti" e "sintesi"
attraverso cui la scienza del reale avanza indefinitamente superando i suoi
ostacoli epistemologici>>[2].
Bachelard avrebbe così sottratto l'epistemologia alle sue pretese
normative; sviluppando questo tema oltre la trattazione esplicita di Balibar
(ma mantenendoci fedeli all'interpretazione sua, di Lecourt, Fichant e Canguilhem,
per tacere dello stesso Althusser) potremmo avanzare che l'epistemologia
ottenga nel filosofo di Bar-sur-Aube un fondamento ermeneutico e
problematologico. Il rifiuto di uno schema speculativo sovraordinato
all'effettualità dei problemi suscitati dal movimento immanente alle
scienze stesse cancella anche la possibilità di ricondurre ogni questione
reale a ciò che di diritto dovrebbe essere, sussumendola ad un apriori
formale: il Progresso, la Ragione, o la Coscienza. L'epistemologia deve
piuttosto indurre il significato del sapere dal suo proprio accadere nell'effettualità
delle sue realizzazioni: e questo è appunto il momento ermeneutico.
Il momento problematologico consiste invece in ciò, che l'epistemologia
non si accosta alle scienze per "sistematizzarle" o chiarificarle,
o comunque imporre loro dall'esterno l'esigenza di corrispondere a canoni
ad esse estranei. Piuttosto, l'epistemologia si accosta alle scienze con
l'atteggiamento di chi è stato interpellato dalla posizione di un
problema: l'intervento epistemologico nel campo scientifico è la
risposta ad una domanda che il campo stesso ha sollevato. L'unico apriori
allora è la correlazione domanda-risposta, in cui l'unica garanzia
della correttezza della risposta è l'instaurarsi di un altrettanto
corretto rapporto interpretativo mediante il quale la domanda possa venire
decifrata. Si noti però che, affinché il "compito dell'epistemologia"
possa essere così concepito, è indispensabile supporre che
il procedere stesso delle scienze si muova secondo una logica analoga. Il
nesso interpretazione-problema non fa solo parte del rapporto dell'epistemologia
con il sapere, ma è costitutivo del sapere stesso. Come dice ancora
Balibar, si tratta di sostituire dei "problemi alle evidenze ed alle
illusioni retrospettive dello scienziato"[3].
La scienza dunque progredisce rispondendo in modo creativo alle domande
poste dalle aporie che essa stessa genera al proprio interno; alla progressiva
conformazione dello stato empirico del sapere all'idea normativa della sua
assolutezza, bisogna sostituire la serie di soluzioni pragmatiche offerte
dalla ricerca militante ai problemi specifici di volta in volta incontrati.
Evidentemente, è questo movimento -in cui si ripropone il nesso tra
interpretazione e risposta che abbiamo visto vigere tra epistemologia e
progresso scientifico- a permettere, ed al limite richiedere, l'esistenza
di un'epistemologia che non sia mera esposizione divulgativa o sovraimposizione
di norme astratte. Infatti, se e solo se il movimento della scienza non
contiene la garanzia del proprio buon esito, ma è piuttosto un movimento
strategico dall'ineliminabile contingenza, ha senso il ricorso ad una riflessione
non rigorosamente interna ai confini disciplinari di volta in volta dati:
una scienza che si autoproducesse per autosviluppo immanente e che fosse
in ogni momento capace di decidere autonomamente tra Verità ed Errore
renderebbe impossibile oltreché inutile ogni epistemologia, obiettivo
forse gradito agli antifilosofi di professione, ma non ottenibile che al
prezzo di introdurre una teleologicità interiore nelle scienze molto
più "metafisica" di qualsiasi sobria riflessione filosofica
sullo statuto dei saperi. In effetti, l'eliminazione dal procedere della
scienza di ogni rapporto con una forma in qualche misura esterna di razionalità,
può fare a meno di un ricorso normativo alle generalità filosofiche
sol perché le ha già fatte migrare surrettiziamente nel corpo
stesso della ragion scientifica. Una totale autosufficienza della scienza
non sarebbe che un ennesima versione del mito filosofico dell'autotrasparenza
integrale, in cui un Soggetto assoluto risolve solipsisticamente in sé
i problemi suscitati dalla sua stessa esistenza ponendosi dunque come titolare
unico della propria autointerpretazione. Questa visione in ultima analisi
idealistica può sembrare inevitabile in un'epoca in cui la riflessione
extradisciplinare sul sapere scientifico pare divenuta impraticabile; ma
si tratta comunque di una visione razionalizzatrice di una difficoltà
che andrebbe piuttosto affrontata criticamente, dato che giustamente non
sembra (o non dovrebbe sembrare) al di sopra di ogni sospetto fare la teoria
dei propri imbarazzi. Tutto questo, nel presente contesto, non ci interesserebbe
se non vi fossero buoni motivi per ritenere che questa forma di autismo
del discorso scientifico sia largamente presente nella concezione bachelardiana
della scienza. Prima di arrivare a questo nodo spendiamo però due
parole sul concetto gemello dell' "ostacolo epistemologico": la
storia ratificata. Se lo interpretiamo lungo le stesse linee che abbiamo
seguito per l'ostacolo epistemologico, ne vediamo facilmente la fecondità.
Si tratta infatti di sottrarre la storia delle scienze all'attitudine da
"magazzino" in cui accatastare tutte le enunciazioni che sono
state ritenute da qualcuno rilevanti in proposito, per mostrare invece una
storia della separazione del valido dal non-valido, tale per cui si cercherà
di seguire solo quelle costruzioni che ancora agiscono sulla scienza attuale:
una storia dunque delle riorganizzazioni del sapere condotte sulla base
della linea divisoria -ogni volta tracciata nell'operare concreto- tra sapere
ratificato (sapere valido, produttivo di nuovi sbocchi) e "defunto"
(sterile, vero vicolo cieco non suscettibile di proseguire ed estendere
il circolo di domande e risposte). Questo concetto di storia delle scienze
è l'equivalente dell'idea di "storia critica" proposta
da Nietzsche nella Seconda Inattuale, come è stato giustamente riconosciuto
da Enzo Melandri.[4] Il compito di questa
storia delle scienze è infatti quello di liberare il presente dalla
pietas per tutto quanto è stato detto nel passato, e di sostituirvi
un "senso delle distinzioni" capace di apprezzare solo ciò
che, qui ed ora, è fecondo di ulteriori sviluppi conoscitivi. Ma,
anche qui, si pone il problema dell'interpretazione più adeguata
di questo concetto bachelardiano. Citiamo ancora Balibar: <<Riformare
la concezione che gli scienziati si fanno della storia della loro scienza
facendo valere all'interno di tale concezione le lezioni della pratica loro
propria: è questo il modo di procedere di Bachelard. La cronistoria
degli scienziati è, infatti, molto spesso soltanto il museo, per
non dire il cimitero, delle teorie cadute in prescrizione, che sono
evocate come lontane "origini" delle conoscenze moderne, al fine
di mostrare nella scienza attuale il compimento di un remotissimo progetto
dello Spirito umano, o la soluzione alfine trovata di un Enigma dell'Universo.
La loro pratica attuale, invece, è il laboratorio intellettuale e
tecnico in cui certe teorie, o più precisamente certi concetti,
sono ratificati e costantemente riattivati, nella misura in cui lavorano
sempre a produrre nuove conoscenze oggettive e sono così essi stessi
riprodotti in quanto conoscenze>>[5].
Si potrebbe ipotizzare che qui Balibar interpreti i concetti bachelardiani
per analogia con il tema marxiano della valorizzazione del capitale fisso
mediante il suo riutilizzo congiunto all'erogazione di lavoro vivo. In entrambi
i casi il costituito, ciò che si presenta monoliticamente come in
sé compiuto, come dato inaggirabile, in realtà deve le proprie
identità e realtà -cioè in questo contesto la
propria capacità di produrre effetti determinati- all'essere
inserito in una nuova attività, cioè al passare attraverso
un processo di metamorfosi. L'uso del "capitale fisso"
(macchinico o concettuale) è comunque primario e fondante rispetto
alla sua struttura stabilizzata in un assetto provvisoriamente definitivo.
Ciò non toglie che l'oggettività costituita sia il necessario
punto di partenza di ogni attività che da essa prenda le mosse[6]. Ma attenzione: se è così,
allora bisogna dire che, in effetti, l'errore, ciò che a livello
del procedere del sapere scientifico non sarà riconosciuto
come valido, al livello pre-scientifico, cioè precedente la
stabilizzazione teorica di un plesso problema-soluzione, è condizione
positiva quanto il ratificato dell'attività stessa della ratifica.
Cioè: prima che la linea divisoria venga tracciata tra ratificato
e "defunto", occorre che lo stato del sapere preso nella sua
totalità sollevi dei problemi, essendo quella linea divisoria
parte della soluzione, e non mai data in anticipo quale garanzia della
differenza ontologica ed apriori tra ciò che, alla fine
del processo critico di riattivazione verrà "salvato" e
ciò che invece sarà "caduto in prescrizione". L'atto
ermeneutico non può non riguardare anche il "falso", l'"erroneo",
lo "sterile": anch'essi determinano una situazione problematica
al pari del "vero" e del "produttivo".
Solo alla fine di una rielaborazione si potrà determinare cosa, in
quella situazione, farà ancora parte del procedere della conoscenza
e cosa invece no -ma, affinché tale rielaborazione sia un atto conoscitivo
reale, la linea di discrimine che essa traccerà non potrà
essere garantita dal proprio esser contenuta già nel problema: solo
un atto che non ha premesse di diritto è un reale incremento del
sapere. Ché, se invece la premessa fosse interamente contenuta
nello status quaestionis, allora la conoscenza non sarebbe che un
portare alla luce ciò che già dall'inizio è dato come
ripartito originariamente in "vero" e "falso". Al contrario,
un genuino problema si compone all'inizio ugualmente di ciò in cui,
a posteriori, i tentativi di soluzione stabiliranno il confine tra il valido
e l'erroneo. Ma, ancora una volta, è fortemente dubbio che in Bachelard
si trovi esattamente questo sviluppo dei suoi concetti portanti.
Dovremo quindi vedere cosa esattamente significhino i concetti di "ostacolo"
e "storia critica" per Bachelard. Infatti, questi due concetti
trovano poi la propria unità sistematica nel concetto di rottura
epistemologica. Ed allora è indispensabile farsi carico dello
statuto di questa nozione, del ruolo e del significato che le attribuisce
Bachelard. Anticipiamo ciò che cercheremo poi di dimostrare: la costellazione
teorica in cui Bachelard inserisce il concetto di rottura (concatenato a
quelli di "ostacolo" e "storia ratificata") non è
omologa a quella in cui questo concetto vale per Althusser. Vedremo tutto
ciò in seguito; se ci si consente un'altra anticipazione, terremmo
a evidenziare come sia la specifica configurazione althusseriana di questo
concetto ad aver reso possibile l'impostazione del tema epistemologico che
abbiamo trovata nel testo di Balibar. Ma dobbiamo ancora aspettare prima
di comprendere tutti i nessi teorici impliciti in questa possibilità.
Ed è già certo che essi si organizzano attorno al concetto
di "rottura" ed alla torsione che essa subisce nel passare da
Bachelard ad Althusser (torsione che lo stesso Balibar ritiene fondamentale
per la realizzazione di quella fusione di epistemologia e materialismo storico
tipica della scuola althusseriana); ma allora dobbiamo ripetere la domanda
che giustamente lo stesso Balibar ritiene "ineludibile[7]":
"in quale luogo" avviene la rottura secondo la versione che ne
dà Bachelard; o, in altri termini, se il comparire di qualcosa che
possiamo chiamare conoscenza è legato all'efficacia di una rottura,
con cosa "rompe", che cosa si lascia alle spalle la conoscenza
così apparsa sulla scena? Bachelard in proposito non ha dubbi: <<L'epoca
contemporanea consuma precisamente la rottura fra conoscenza comune e conoscenza
scientifica, tra esperienza comune e tecnica scientifica>>[8]. Quindi, è la "conoscenza comune"
con cui rompe la conoscenza, e l'emergenza del sapere è emergenza
dalla conoscenza comune. In Bachelard, il concetto di "ostacolo"
è interamente determinato da questa contrapposizione. Ma prima di
mostrarlo, dobbiamo caratterizzare meglio i due membri di questa opposizione.
Nell'opera dedicata per intero all'analisi degli "ostacoli", Bachelard
dice: <<Rendere geometrica la rappresentazione, vale a dire descrivere
i fenomeni e ordinare in serie gli eventi decisivi di un'esperienza: ecco
il compito primario in cui si afferma lo spirito scientifico. È in
questo modo, infatti, che si giunge alla quantità figurata,
a mezza strada fra il concreto e l'astratto, in una zona intermedia dove
lo spirito pretende di conciliare la matematica con l'esperiena e le leggi
con i fatti. Ma il compimento di questa geometrizzazione, che si è
creduto spesso di aver realizzato (...) finisce sempre per rivelarsi insufficiente.
Prima o poi, nella maggior parte dei domini scientifici, si è costretti
a constatare che quella prima rappresentazione geometrica, fondata su un
realismo ingenuo delle proprietà spaziali, implica rapporti
più nascosti, leggi topologiche meno immediatamente solidali con
le relazioni metriche immediatamente apparenti, insomma legami più
profondi di quelli offerti dalla famliare rappresentazione geometrica. A
poco a poco, si sente il bisogno di lavorare per così dire sotto
lo spazio, al livello delle relazioni essenziali che sostengono sia
lo spazio che i fenomeni. Il pensiero scientifico è allora spinto
a "costruzioni" più metaforiche che reali, a "spazi
delle configurazioni" di cui lo spazio sensibile non è, dopo
tutto, che un esempio impoverito. Il ruolo della matematica nella fisica
contemporanea supera quindi decisamente la semplice descrizione geometrica.
Il matematismo non è più descrittivo, ma formativo. La scienza
della realtà non si accontenta più del come fenomenologico;
essa cerca il perché matematico.
Dal momento che il concreto già accetta, dopotutto, l'informazione
geometrica ed è correttamente analizzato dall'astratto, perché
non ammettere allora di porre l'astrazione come la pratica normale
e feconda dello spirito scientifico?>>[9].
Il carattere peculiare della conoscenza scientifica è per Bachelard
la sua natura astratta, puramente razionale. L'astrazione di questo sapere
per eccellenza lo libera dal legame con il mondo sensibile dell'esperienza
"ingenua"; e questa liberazione è garantita dall'intervento
della matematica. Attraverso la matematica, l'oggetto della scienza è
spogliato di ogni riferimento all'empiria per risolversi in un reticolo
di pure forme e relazioni astratte; in questo senso, tanto più articolato
e massiccio l'intervento della matematica nella conoscenza, tanto meno questa
potrà ridursi a descrizione di un preliminarmente dato, per elevarsi
invece a produzione -nelle forme stesse della razionalità matematica-
del fenomeno conosciuto. È fondamentale sottolineare come il concetto
di ostacolo intervenga esattamente nell'esplicitazione di questo
contesto teorico: Bachelard si propone di mostrare come, rispetto al procedere
del matematismo, si possa parlare di un <<carattere di ostacolo
dell'esperienza cosiddetta concreta e reale, naturale e immediata>>[10]. L'esperienza "naturale"
si oppone all'astrazione crescente di cui vive il progresso scientifico.
Bachelard parla, in riferimento all' "evoluzione dello spirito scientifico",
di uno <<slancio che va dal geometrico più o meno visivo all'astrazione
completa>>[11]. La conoscenza
comune sarebbe allora una sorta di peso, di zavorra, capace talvolta di
frenare lo slancio verso la creazione matematica. Allo slancio creativo
verso l'astrazione e la liberazione dai contenuti sensibili, infatti, corrisponderebbe
un alleggerimento del pensiero: <<L'astrazione libera lo spirito,
lo alleggerisce e lo dinamizza>>[12].
L'ostacolo a questo alleggerimento dello spirito sarebbe costituito dalla
pesantezza della sensibilità, la quale ultima è poi l' "organo"
di quell'atteggiamento spirituale difettivo chiamato conoscenza comune.
Allora si capisce anche perché sia così importante il termine
stesso di "ostacolo". Genericamente, esso può indicare
un blocco nel senso di una disfunzione nella prassi scientifica [13]; ma "ostacolo" ci rimanda in
modo più specifico ad un'occlusione, ad una sorta di resistenza
opposta al libero dispiegarsi di un'attività, allo scorrere "naturale"
e spontaneo di un flusso. Ed è in questo senso più specifico
di occlusione e zavorra (nei confronti dell'astrazione) che Bachelard usa
il termine "ostacolo" riferito all'esperienza sensibile. Se questa
è la natura dei due opposti che si fronteggiano nella rottura epistemologica,
allora vediamo subito una difficoltà: come pensare su queste basi
la crescita del sapere come rielaborazione del campo problematico a partire
da una situazione aporetica? Se l'ostacolo non è che una zavorra
occludente il corso spontaneo ed autonomo dello slancio dell'astrazione,
allora l'ostacolo stesso non ha nessun ruolo positivo nella costruzione
di un nuovo ordine della conoscenza: esso, di per sé, non pone nessun
problema capace di sfociare in una nuova razionalità; deve solo essere
rimosso per far emergere una verità che non risponde ad alcun problema
ma è già da sempre tale in attesa di venire riconosciuta sotto
le "incrostazioni" della sensibilità e da esse purificata.
Se le cose stanno così, allora propriamente non c'è storia
della costruzione di nuovi ordini di verità e nuove forme di razionalità:
l'unica storicità realmente imprevedibile e creativa ha uno statuto
negativo. Si tratta della "storia profana" del formarsi di occlusioni
nel corso normale della scienza tendente a livelli sempre maggiori di astrazione
matematica, e della critica di tali occlusioni, la cui rimozione non fa
che liberare una verità soggiacente: lo stadio dell'astrazione, predeterminato
ma temporaneamente reso inattingibile da un ostacolo. È pertanto
ovvio che questo sistema di concetti renda molto problematica la stessa
idea di una "storia critica". Vero è che in Bachelard si
trovano passi come il seguente: <<Si conosce, infatti, contro
una conoscenza anteriore, distruggendo conoscenze malfatte, superando quello
che nello spirito stesso fa da ostacolo alla spiritualizzazione>>[14]. Ma è di nuovo un'affermazione
ambigua e per così dire a doppio taglio. La si può intendere
nel senso dell'affermazione di una lotta, o di un'attività critica,
nei confronti di un precedente sistema teoretico che ha incontrato i propri
limiti fisiologicamente insuperabili, cosicché se ne rende urgente
un superamento per rielaborazione: lo spirito che lotta contro lo spirito
è qui la ripresa di un lavoro i cui risultati precedenti si sono,
alla lunga, rivelati carenti. Questa interpretazione pare avallata da passi
bachelardiani come il seguente: <<Bisogna innanzitutto saper porre
i problemi. E per quanto se ne dica, nella vita scientifica i problemi non
si pongono da soli. È precisamente questo senso del problema
a contraddistinguere il vero spirito scientifico. Per uno spirito scientifico,
ogni conoscenza è una risposta a una domanda. Se non c'è stata
domanda, non ci potrà essere conoscenza scientifica. Nulla va da
sé. Nulla è dato. Tutto è costruito.
Ma anche una conoscenza acquisita in seguito a uno sforzo scientifico può
declinare. La domanda franca e astratta si logora; la risposta concreta
resta. E allora l'attività spirituale si inverte e si blocca. Un
ostacolo epistemologico si incrosta sulla conoscenza inindagata. Abitudini
mentali che furono utili e salutari possono alla lunga intralciare la ricerca
(...) Con l'uso, le idee si valorizzano indebitamente. Un valore
in sé si oppone alla circolazione dei valori, il che è un
fattore di inerzia per lo spirito (...) L'istinto formativo è
così tenace in ceri uomini di pensiero che non bisogna preoccuparsi
(...) Alla fine però l'istinto formativo finisce per cedere
all'istinto conservativo>>[15].
Consideriamo queste affermazioni assolutamente sintomatiche dell'ambiguità
inerente alla riflessione di Bachelard. In poche righe vi troviamo delineata
la concezione problematologica del procedere scientifico; troviamo la teoria
per cui sono le stesse conoscenze a raggiungere una condizione di "blocco"
in cui non sono più suscettibili di sviluppo nella produzione di
nuovo sapere (anziché ri-valorizzarsi nell'uso rigeneratore,
acquisiscono un valore intrinseco il cui carattere feticistico non può
non ricordare quello di altre entità, anch'esse capaci di "estraniarsi"
dall'attività di cui sono parte in causa per assumere ipostaticamente
qualità inerenti alla propria "sostanzialità" ),
ragion per cui si richiede una serie di atti complessi per "sbloccare"
la situazione. Ma troviamo anche il ricorso ad una rudimentale psicologia
degli istinti, di cui Bachelard rivendica esplicitamente l'opportunità:
<<Come si vede, non esitiamo ad invocare gli istinti per indicare
con precisione la resistenza di certi ostacoli epistemologici>>[16]. Il superamento di "ciò
che nello spirito stesso fa da ostacolo alla spiritualizzazione" è
in effetti il superamento di una facoltà psicologica da parte di
un'altra, e non di un assetto problematico del sapere da parte di un assetto
risolutivo. E, naturalmente, la "facoltà" contro la cui
"inerzia" la parte attiva dello psichismo deve combattere, è
la sensibilità, di cui sappiamo che si tratta del costituente
base della "conoscenza comune". La "criticità"
dello sviluppo della scienza per Bachelard si riduce alla separazione del
sapere razionale dalla "vita" irriflessa coagulata nel magma dell'esperienza
sensibile. Ma l'eterogeneità dei due poli di questa opposizione fa
sì che in effetti l'errore non faccia mai veramente parte del tessuto
delle verità scientifiche se non per un'illusione a parte subjecti:
la "critica" che il progresso delle conoscenze esercita su quelle
precedenti non fa che rendere palese una linea divisoria tra vero (razionale)
e falso (sensibile) che è sempre esistente, ma solo non riconosciuta.
Ciò che, del sapere costituito, viene ratificato dagli sviluppi attuali
è solo ciò che, di diritto e per intima necessità,
poteva e doveva essere ratificabile, mentre il sapere "caduto in prescrizione"
doveva cadere in prescrizione in quanto già da sempre appartenente
alla sfera della sensibilità e quindi insuscettibile di sviluppo:
la "ratifica" non è un processo imprevedibile di rielaborazione
del sapere, ma il mero riconoscimento di una verità già data[17]. Con il che, ogni autentica storicità
della conoscenza viene cancellata. Estremizzando il ragionamento, si
può dire che, poiché ogni progresso del sapere è un
atto di ratifica, ed ogni ratifica non è che un'agnizione
di una verità già sussistente, la conoscenza vera, scientifica,
è già data per intero in tutti i suoi sviluppi futuri, in
ogni sua singola parte. Gli "sviluppi" infatti non sono altro
che l'esplicitazione dell'appartenenza di ogni singola "verità"
comparsa nel tempo profano della storia empirica delle scoperte ad una struttura
di "verità" matematiche presente virtualmente in ogni relazione
matematica data. La Verità è così un immenso reticolo
di rapporti strutturali e sincronici tra simboli per il quale non
vi è storia né tempo. La storia è una dimensione seconda
e derivata, non costitutiva per il sapere: essa riguarda solo i processi
mediante cui vengono rimossi gli "ostacoli" ed un concetto matematico
viene liberato dalla sensibilità per essere integrato nella struttura
complessiva delle verità possibili. In questa integrazione si ha
un punto di tangenza tra la temporalità delle scoperte, degli errori,
delle rettifiche, delle aporie e dei tentativi aleatorii, ed il fondamento
intemporale del pensiero scientifico, che è appunto un reticolo strutturale
contenente l'infinita serie delle conoscenze possibili. Non c'è dubbio
che qui si è voluta esporre una conseguenza-limite della filosofia
di Bachelard; ma ci sembra abbastanza coerente con una concezione della
"rottura" modellata sull'identificazione tra ragione e matematismo,
dunque tra ragione e pensiero simbolico-formale. Si tratta di una identificazione
strategica in Bachelard, tanto da fornire di fatto il quadro sistematico
in cui funzionano la "rottura", l' "ostacolo" e la "storia
critica"; ciònondimeno, gli interpreti più vicini alla
prospettiva althusseriana, se rilevano il fondo razionalistico della dicotomia
sensibilità/ragione e della sua fondazione in una psicologia naturalistica
molto ingenua, sono meno attenti al complemento necessario di questo psicologismo:
e cioè all'equivalenza posta da Bachelard tra razionalità
e formalismo simbolico, ciò che poi non può non ridurre ogni
conoscenza ad una verità analitica[18]
ed ogni indicatore temporale ad una dimensione seconda rispetto all'autosufficienza
della Verità. Per questa via si capisce come possa Bachelard ritornare
ad una concezione stadiale della storia delle scienze quale è rivendicata
nella Formation de l'Esprit sciéntifique. Nel Discorso
preliminare si parla di: <<legge dei tre stati per lo spirito
scientifico. Nella sua formazione individuale, uno spirito scientifico passerebbe
necessariamente per I tre stati seguenti, assai più precisi e particolari
delle forme comtiane:
1) lo stato concreto, dove lo spirito si diverte con le prime immagini
del fenomeno (...)
2) lo stato concreto-astratto, dove lo spirito aggiunge degli schemi
geometrici all'esperienza fisica e si basa su una filosofia della semplicità.
Lo spirito (...) è tanto più sicuro della sua astrazione quanto
più tale astrazione è chiaramente rappresentata da un'intuizione
sensibile;
3) lo stato astratto, dove lo spirito mette in atto informazioni
volontariamente sottratte all'intuizione dello spazio reale (...) apertamente
in polemica con la realtà primitiva, sempre impura e sempre informe
Infine, per completare la caratterizzazione di questi tre stati del pensiero
scientifico, dovremo preoccuparci degli interessi[19]
differenti che ne costituiscono, per così dire, la base affettiva>>[20]
Questa sorprendente pagina bachelardiana, in cui convivono il positivismo
di Comte e la fondazione degli ostacoli epistemologici in termini di "affettività",
mostra chiaramente come la "storia" del pensiero scientifico sia
nulla più che il pervenire a piena evidenza della Verità preesistente
della sua struttura matematica [21].
Non vi è posto dunque per la storia in quanto non vi è posto
per alcuna genesi reale, per alcuna produzione di qualcosa non contenuto
già nelle premesse.
Questa impostazione, lo si sarà notato, rende impensabile
qualsivoglia razionalità si tenti di attribuire alle scienze storico-sociali.
Il che non può che sollevare alcune domande sul prestito che Althusser
compie mutuando da Bachelard i suoi concetti portanti. È certo che
il contesto teorico althusseriano non può più tollerare l'ipoteca
messa dal primato del simbolico sulla razionalità: il continente
storia non potrebbe tollerarlo[22].
Si tratta allora di vedere, ripercorrendo i luoghi in cui in Althusser diventa
rilevante la nozione di "rottura", se in essi si adombri una diversa
concezione del sapere e della razionalità teoretica.
2) Scienza e ideologia
Riprendiamo daccapo ciò che, all'inizio, abbiamo visto essere una
quasi-ovvietà: Althusser prende a prestito da Bachelard alcuni concetti
imperniati sul topos della "rottura"; Althusser mira a
fondare l'oggettività della conoscenza del continente storia. La
rottura epistemologica, che per Althusser è presente paradigmaticamente
nella transizione dal Marx giovane al Marx maturo, è in questo contesto
una rottura della scienza con l'ideologia: Marx fonda la "scienza
del continente storia" rompendo con la propria precedente ideologia
filosofica. Tutto ciò è noto. Resta da vedere come questi
problemi si intreccino con quelli propri a Bachelard, e come l'evidente
incompatibilità del modello bachelardiano di razionalità rispetto
ad una "scienza della storia" imponga al recupero althusseriano
della concettualità di quest'ultimo una serie di problemi la cui
chiara formulazione, solo molto parzialmente intrapresa da Althusser, vale
ancora per noi quale compito di cui presto scopriremo la posta in gioco.
Come abbiamo visto, per Bachelard la rottura avviene nei confronti del lato
affettivo, naturale, dello psichismo umano. Ora, sostituendo l'ideologia
a questo apparato psicologico, il rischio maggiore è di riprodurne
inavvertitamente il naturalismo ingenuo. Naturalismo della concezione dell'ideologia
che si reduplica nel razionalismo della concezione delle scienze. Che Althusser
abbia fatto più che esporsi a tale rischio è testimoniato
da alcuni aspetti della sua caratterizzazione della rottura epistemologica
supposta alla radice della fondazione marxiana del continente storia. Althusser
dice: <<La posizione di Marx, tutta la sua critica dell'ideologia,
implica che, nel suo stesso significato, la scienza (che insegna
la verità) si ponga come rottura con l'ideologia, si stabilisca
su un altro terreno, si costituisca muovendo da nuove domande
e ponga a proposito della realtà domande diverse da quelle dell'ideologia
o, il che fa lo stesso, definisca il suo oggetto in un altro modo>>[23]. In questo passo si afferma che la
scienza (cui viene associata un'altra nozione: la verità) si istituisce
rompendo con l'ideologia. Rottura che consiste in "nuove domande",
in un "altro modo" di costituire l'oggetto del discorso. Più
avanti, Spinoza viene invocato per specificare meglio la natura del rapporto
di discontinuità tra ideologia e scienza: la scienza non integra
e completa l'ideologia lungo uno sviluppo omogeneo dal meno al più
(di chiarezza, comprensività, e coerenza interna); bensì la
scienza rende intelligibile l'ideologia. Ne rende perspicuo il meccanismo.
Si noti che in tutto questo ragionamento l'ideologia appare come un costrutto
intellettuale al pari della scienza: essa pone domande, definisce il suo
oggetto; insomma, è retta da una problematica al pari della
"verità" scientifica. Il che è da Althusser esplicitamente
affermato: <<L'intelligenza di uno sviluppo ideologico implica (...)
che si abbia la conoscenza congiunta e simultanea del campo ideologico
in cui sorge e si sviluppa un pensiero e che si metta in evidenza l'unità
interna di questo pensiero: la sua problematica>>[24].
Un'attenta analisi di questi enunciati non può non mettere in luce
come essi spostino sensibilmente l'asse del discorso rispetto a Bachelard.
Non solo il terminus a quo della rottura non è riducibile
all'opacità dell'affettivo, essendo un "pensiero" unificato
da una problematica; c'è di più: la scienza non dissolve questo
pensiero ideologico, non si pone come chiarezza e evidenza di contro all'arbitrio
delle passioni ineducate dallo "spirito scientifico": la sua scientificità
consiste nell'obiettivare teoreticamente l'ideologia stessa, renderla
pensabile nella sua causa formale (la problematica come fattore di coerenza)
e nella sua causa finale (il ruolo da essa giocato in un campo di forze
ideologico). La conoscenza è conoscenza dell'ideologia -ciò
che non esclude che si tratti di una conoscenza polemica nei confronti
del suo oggetto; cioè che l'obiettivazione teorica di un fenomeno
ideologico non comporti un necessario momento di demistificazione. A questo
punto però dobbiamo affrontare alcuni problemi che emergono dal testo
di Althusser. La conoscenza di cui si sta parlando, la conoscenza critico-obiettivante
dell'ideologia, non può essere la conoscenza in generale.
In quale senso infatti è possibile dire che le geometrie non-euclidee
sono conoscenza di quelle euclidee anziché di costruzioni derivabili
da assiomi non identici a quelli degli Elementi di geometria? La
nuova problematica, che sorge dall'esclusione dell'assioma delle parallele,
definisce un proprio oggetto, differente da quello per cui tale assioma
è valido; ma la geometria euclidea non è l'oggetto delle geometrie
euclidee, così come il sistema tolemaico non lo è di quello
copernicano. Allo stesso modo, sembra abbastanza insensato qualificare come
ideologiche tutte le problematiche scientifiche di cui si sono mostrati
i limiti nelle riorganizzazioni della conoscenza. Ciònondimeno, Althusser
sembra appunto voler sostenere questa posizione: <<Al momento in cui
una scienza si costituisce, per esempio la fisica con Galileo (...) essa
lavora sempre su concetti esistenti (Vorstellungen), ossia su una
Generalità (...) di natura ideologica>>[25].
Ed è notevole che tale posizione venga ribadita richiamandosi proprio
a Bachelard, allorché secondo Althusser la "trasformazione di
una generalità ideologica in una generalità scientifica"
viene assimilata alla "rottura epistemologica"[26].
Dunque, se per Althusser non si dà uno sviluppo dal sensibile all'intelligibile
come in Bachelard, nondimeno pare che se ne dia uno analogo tra scienza
ed ideologia: l'ideologia è definita come un fenomeno intellettuale,
non affettivo; ma rimane, della caratterizzazione bachelardiana della sfera
sensibile, la sua funzione puramente negativa, di puro errore, di non-sapere
in senso privativo, che la "conoscenza vera" dovrà dissipare.
E questa contrapposizione tra Scienza e Ideologia vale per la totalità
del sapere scientifico: l'Essenza del Sapere è di nuovo identificata
in una gigantomachia tra principii non più ricondotti a facoltà
psichiche, ma ugualmente tali da costituire l'invariante essenziale, il
"nucleo segreto" che si esprime in tutte le "figure"
della storia delle scienze. Come meravigliarsi allora che successivamente
Althusser identifichi -accostandosi ancora di più a Bachelard- l'ideologia
con l'immediato e "il quotidiano"? In Leggere il Capitale
il tempo lineare della dialettica espressiva è definito come prodotto
di una "concezione ideologica del tempo storico"; ma questa sua
natura ideologica pare fare tutt'uno "il fatto che l'idea hegeliana
del tempo è trattta dall'empirismo più comune, dall'empirismo
delle false evidenze della "pratica quotidiana"[27].
L'ingenuità, la passività sensibile della "quotidianità"
sono identificate all'ideologia, e ad esse viene contrapposta l'attitudine
costruttiva della scienza, la quale sola è in grado di determinare
la struttura del tempo storico producendone il concetto. Le obiezioni possibili
a questo ragionamento di Althusser sono svariate. In primo luogo, è
poi così certo che la "quotidianità" sia caratterizzata
da un tempo omogeneo e continuo, pensato a partire dall'autotrasparenza
del presente? Tutte le analisi di orientamento fenomenologico rivolte alla
nostra esperienza preteoretica ed impregiudicata della temporalità
sembrano testimoniare a favore di una notevole densità, incoerenza
e "complessità" del tempo "quotidiano". In realtà,
la rappresentazione del tempo che Althusser vuole espungere dal concetto
di tempo storico non appartiene affatto alla quotidianità
(in cui l'esperienza del tempo è legata strutturalmente al "gioco"
delle sintesi temporali, delle ritenzioni e protenzioni , della memoria,
ecc), ma semmai deriva da una trasposizione all'ambito storico del tempo
assoluto della fisica (e meta-fisica) newtoniana; un tempo la cui assolutezza
non è esperibile nella quotidianità immediatamente "vitale",
ma anzi vi è, per dirla con Husserl, "sustruito" dall'oggettivismo
delle scienze naturali. Naturalmente, questa trasposizione assolve ad una
precisa funzione: tramite essa si può ottenere una rappresentazione
del tempo storico peculiare, una rappresentazione solidale con determinate
procedure storiografiche (incentrate sull'autotrasparenza di una volontà
che si sarebbe impressa nei documenti da essa prodotti), con determinate
concezioni della storia (vista come lo "spazio" dell'azione di
soggetti coscienti) e della società; insomma, con la forma di conoscenza
storica in rottura con la quale sorge l'esperienza delle Annales,
la quale ultima è alla base dello stesso progetto althusseriano di
"costruire i concetti" di una pluralità di tempi e storie
differenti. Su questo punto purtroppo non possiamo fermarci; valga solo
a corroborare la tesi che crediamo di aver dimostrata in merito all'inadeguatezza
di una caratterizzazione del "tempo omogeneo" in termini di tempo
ideologico in quanto "quotidiano" e "sensibile"
-trattandosi piuttosto di un concetto di tempo prodotto da svariate pratiche
teoriche e ideologiche, fondato su una problematica che non può ridursi
ad un difetto -psicologisticamente inteso- di distanziamento dal "quotidiano".
Inoltre, la "scienza" che qui Althusser vorrebbe contrapporre
a questa ideologia ha palesemente un proprio oggetto differente dall'ideologia
stessa. L'oggetto della "vera" teoria della storia è il
tempo plurale stesso, non la costruzione ideologica del tempo omogeneo.
Dunque si ripropone il problema: che senso può avere affermare l'esistenza
di una scienza che ha ad oggetto il funzionamento dell'ideologia? Poiché
abbiamo visto che questo schema non può valere per la scienza
in quanto tale, dobbiamo chiederci quale sia la scienza che ha per effetto
specifico la conoscenza dell'ideologia. Per rispondere a questa domanda,
però, è indispensabile riconoscere che Althusser non può
rispondervi dall'interno della concettualità bachelardiana: essa
sospinge il suo discorso verso la ricerca di un'invariante del procedere
del sapere, reperita quindi nell'opposizione razionalistica di scienza e
ideologia in quanto analoga a quella di verità e illusione.
Identificare l'ideologia con il "velo" che ogni scienza dovrebbe
lacerare per poter nascere alla luce dell'esattezza e della verità
porta a due peculiari conseguenze: in primo luogo, la scienza diventa dissipazione
delle nebbie dell'ideologia come razionalisticamente la verità lo
è dell'illusione. Ma questa tesi, oltre all'inconveniente, difficilmente
tollerabile per l'impostazione di Althusser, di implicare la postulazione
di un'opposizione originaria espressa in tutte le vicende del sapere, diventa
insostenibile qualora si affermi che la scienza nata dall'ideologia ha ad
oggetto l'ideologia stessa. Althusser stesso ha peraltro insistito sul fatto
che le rotture istitutive della conoscenza danno vita a nuovi oggetti imprevedibili
e indeducibili dallo stato del sapere precedente la loro emergenza; d'altronde,
se la novità prodotta nella rottura fosse conoscenza del prima-della-rottura,
cioè di ciò che la precede, facendo di questo schema la
struttura stessa del sapere in generale, avremmo una perfetta teoria
della conoscenza "hegeliana", in cui ogni figura è la verità
della precedente, capace di portare a riflessione ciò che era solo
in forma immediata. È appunto a ciò che conduce la linea di
pensiero fin qui seguita: la scienza è scienza dell'ideologia con
cui rompe proprio in quanto l'ideologia è illusione e la scienza
verità; e tale verità consiste nel dissipare l'immediatezza
e l'opacità dell'illusione. Come si vede, siamo in un circolo; vero
è che qualunque soluzione alternativa sfocerebbe in un'analoga circolarità;
tutto sta a vedere che non sia eccessivamente viziosa.
In secondo luogo, questo schema di pensiero impedisce di determinare quale
sia il sapere che ha per oggetto l'ideologia, quali ne siano le forme ed
i procedimenti, quale la differenza specifica. Se infatti vi è
un sapere teoretico che ha ad oggetto l'ideologia, la sua reale struttura
non può che venire occultata dal fare dell'ideologia l'antitesi adialettica
della scienza in una sorta di metadiscorso razionalistico. Se il sapere
è il dissolvimento dell'illusione ideologica, ed è quindi
sapere di quell'illusione infine dissipata, ciò che si ha non è
solo la sovraimposizione alle scienze di un apriori formale, ma anche l'impossibilità
di individuare la problematica peculiare alla conoscenza dell'ideologia,
che è tale in quanto l'ideologia è il suo oggetto, oggetto
di una scienza specifica in quanto fenomeno determinato, e non in quanto
la scienza si oppone essenzialmente all'ideologia[28].
Il quadro della teoria althusseriana dell'ideologia è però
più complesso; infatti, fin dall'inizio Althusser assegna il significato
dell'ideologia non solo all'ambito cognitivo, ma anche e soprattutto a quello
pratico, al mondo dell'azione e del comportamento. Si allude alla famosa
definizione dell'ideologia nei seguenti termini: "L'ideologia rappresenta
il rapporto immaginario degli individui con le loro reali condizioni di
esistenza"[29]. Questa definizione
viene poi ulteriormente sviluppata, ma dobbiamo già notare che il
riferimento all'immaginario introduce un elemento di ambiguità. Althusser
comunque prosegue nella costruzione di un concetto di ideologia proprio
all'ambito pratico: "Un'ideologia esiste sempre in un apparato, e nella
sua pratica, o nelle sue pratiche. Questa esistenza è materiale"[30]. Quindi, l'ideologia ha lo statuto
di un apparato che organizza (ed esiste come) una ]Gliederung di
pratiche specifiche. Chi "subisce" un'ideologia, non se la ritrova
"in testa", bensì la pratica compiendo determinati gesti:
"L'individuo in questione si comporta in questa o quella maniera, adotta
questo o quel comportamento pratico e, quel che conta di più, partecipa
ad alcune pratiche regolate, che sono quelle dell'apparato ideologico"[31]. Infine, "queste pratiche sono
regolate dai rituali nei quali esse si inscrivono"[32].
L'ideologia dunque non è una conoscenza sbagliata, e neppure la non-conoscenza
in quanto tale: è un sistema di gesti ritualizzati. Ma, perché
vi sia ritualità, deve darsi codifica del gesto, la quale ne garantisce
la ripetibilità. E un gesto codificato è un gesto che dipende
da uno schema gestuale, quindi da un'entità ideale. Parlare dell'ideologia
equivale allora a parlare di istituzioni (dunque di un che di artificiale)
fondate su oggetti astratti, ideali. Il naturalismo bachelardiano, che vedeva
nell'ideologia una carenza cognitiva legata ad un'adesione emozionale ad
immagini sensibili nella sfera dell'aconcettuale, sembra qui essere rifiutato
punto per punto ed espunto così dalla teoria dell'ideologia. Ma sembra
soltanto. Ritorniamo alla definizione dell'ideologia in chiave di "rapporto
immaginario" con la realtà. Essa reintroduce detto naturalismo
attribuendo al sistema di pratiche costituenti l'ideologia uno stigma di
opacità, di relazione passiva col mondo che si carica ancora di valenze
cognitive: l'ideologia non è più "natura", ma struttura
istituzionale -ciononostante, tale struttura è rinaturalizzata dall'assunzione
che gli uomini "presi" in essa siano vittime di un non-sapere
dovuto a questo stesso esser-presi, non-sapere da cui sarebbero immuni i
detentori del puro concetto, della Teoria non opacizzata dall'esistenza
nel mondo pratico[33]. Tra i critici
di Althusser è stato Jacques Ranciére a ravvisare in queste
assunzioni il punctum dolens teorico e politico dell'althusserismo.
Alcuni passi di un testo althusseriano citato da Ranciére mostrano
chiaramente il corto circuito tra il senso pratico dell'ideologia e quello
legato ad un suo statuto di insufficienza cognitiva: "L'idéologie
est, dans les sociétés de classe, une représentation
du réel, mais necéssairement faussée, parce qu'elle
est nécessairement orientée et tendencieuse,-et elle est tendancieuse
parce que son objectif n'est pas de donner aux hommes la connaissance objective
du système social dans lequel ils vivent, mais au contraire de leur
donner une représentation mystifiée de ce système social
pour les maintenir à leur << place >> dans
le système de l'exploitation de classe >>[34].
Questo testo è sintomatico nella misura in cui l'ideologia non
è solo definita come rappresentazione falsa ma tale falsità
è determinata dal suo ruolo pratico.
Certo, si tratta di un ruolo "di classe", ma in effetti il potere
di una classe dominante può articolarsi sull'ideologia sol perché
quest'ultima è errore, illusione, opacità, cui allora bisogna
contrapporre in funzione rivoluzionaria la chiarezza e distinzione della
Scienza. Ranciére riteneva che questa teoria non potesse funzionare
come strumento della lotta di classe proletaria, e per questo la rifiutava;
prendiamo vigorosamente le distanze dal metro di giudizio di Ranciére,
ma non per questo possiamo negare che una tale teoria non funzioni -proprio
come teoria e non come "arma" politica. Infatti, ci si può
stupire di come un filosofo "materialista" svaluti in questo modo
la prassi rispetto alla contemplazione pura. La teoria conosce esattamente,
al contrario dell'ideologia, perché guarda l'agire umano dall'esterno
-ma tale estraneità non è detto che sia un punto di vista
privilegiato: potrebbe benissimo costituire un handicap. Dopotutto,
in una rappresentazione teatrale, è lo spettatore a trovarsi in un
rapporto di passività contemplativa (nel senso che questo aggettivo
ha per il Marx delle tesi su Feuerbach), mentre l'attore che recita un ruolo,
non solo deve possedere cognitivamente un insieme di regole in modo tale
da poterle calare in una pratica effettiva, ma soprattutto tali regole costituiscono
una virtualità che solo l'atto contingente dell'attore può
realizzare -in breve, in quanto la parte prescrittagli dipende dall'attualità
dei suoi gesti, l'attore può modificarla, reinterpretarla, "personalizzarla",
od anche trasgredirla nel corso dell'atto esecutivo che è suo esclusivo
privilegio; laddove lo spettatore non può modificare nulla di ciò
che vede. In altri termini, le pratiche (organizzate in apparati) possono
venire contestate e trasformate solo dall'interno della loro struttura,
ad opera dei portatori di tali strutture. Ma allora, perde di significato
il primato della trasparenza teorica: è la vischiosità stessa
delle pratiche e delle relative forme d'immaginario a produrre la propria
contestazione interna, non un'istanza che si ritira asetticamente dal campo
di forze degli apparati da cui è strutturata la prassi. Il fondamento
della possibilità che gli apparati si trasformino è la necessità
intrinseca agli schemi ideali di gesti, azioni e pratiche di cui gli apparati
stessi si compongono, di esistere solo incarnandosi in atti singolari e
contingenti, esposti ad un'esteriorità che, se consente loro di esistere
istituzionalmente, comporta in pari tempo uno stato di fragilità[35], di disequilibrio permanente, essendo
i singoli atti correlativi ad un gioco di forze materiali di cui gli schemi
gestuali degli apparati sono solo una parte. Il primato della teoria è
quindi più che contestabile. Ma la dicotomia scienza/teoria, sottomessa
a quella teoria/pratica, comporta anche altre aporie. Infatti, abbiamo visto,
la purezza conoscitiva della scienza dipende dal suo essere incontaminata
rispetto alla pratica sociale. Ora, dove si può trovare una scienza,
ed una scienza della storia, che corrisponda a questo requisito di
verginità? Evidentemente, in nessun luogo; e meno che mai nelle topiche
althusseriane che abbiamo fin qui analizzato. Infatti, la scienza della
storia potrebbe sì guadagnare una certa trascendenza rispetto al
mondo pratico solo a patto di potersi definire "scienza" allo
stesso modo delle scienze "esatte", o naturali; cioè di
essere legata a queste ultime da una suddivisione per genere prossimo (scienza)
e differenza specifica (sociale/naturale), anziché, com'è
invece il caso delle considerazioni teoreticamente più avvedute in
tema di Natur- e Geisteswissenschaft, venire definita scienza
per analogia di proporzionalità rispetto alle scienze naturali
o formali. In altri termini, la simmetria tra i termini di quest'analogia
non è perfetta, poiché la determinatezza contenutistica esteriore
al rapporto di un termine influisce sull'analogia complessiva: le scienze
naturali e formali non sono simmetriche a quelle storico-sociali
perché possiedono l'oggettività in senso eminente, cioè
secondo un grado di perfezione che sbilancia il rapporto. L'oggettività
delle scienze storiche è soltanto somigliante all'oggettività
delle altre scienze, che è un'oggettività eminente; e tale
eminenza si deve al matematismo che le scienze storiche non possono mai
incorporare nelle proprie forme di razionalità in un modo che sia
più che unicamente somigliante alla matematizzazione della
fisica o della chimica. In genere, procedure matematiche o grandezze calcolabili
-quali ad esempio quelle introdotte dalla "storia seriale"- nelle
scienze storiche costituiscono sempre momenti subordinati alla delucidazione/interpretazione
di un senso; con il che, ritorna ad affacciarsi il momento pratico
nell'ordito concettuale di tali discipline. Certamente, è in virtù
di questo legame necessario tra scienze storico-sociali e un significato
non dissolubile in un reticolo puramente formale e "insensato"
di simboli che Althusser, in Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati
dichiara irrecuperabilmente ideologiche quelle che noi chiameremmo le humanities:
"Quelle che possiamo chiamare ideologie scientifiche e ideologie filosofiche
rivestono una importanza estrema nel dominio degli studi umanistici (...)
comandano direttamente la pratica scientifica degli studi umanistici"[36]. Ovviamente, si tratta di "distinguere
le vere scienze dalle scienze pretese"[37];
ma ciò che importa è perché gli studi umanistici
non potrebbero che pretendere alla scientificità: <<Tradizionalmente,
le discipline letterarie riposano su un rapporto molto particolare con il
loro "oggetto": un rapporto pratico di utilizzazione, di apprezzamento,
di gusto, o, se si preferisce, di consumo(...). Il rapporto tra le discipline
letterarie ed il loro oggetto (letteratura propriamente detta, belle arti,
storia, logica, filosofia, morale, religione)[38]
ha come funzione dominante non tanto la conoscenza di questo oggetto, ma
la definizione e l'apprendimento delle regole, delle norme e delle pratiche
destinate a stabilire presso i "letterati" dei rapporti "culturali"
tra essi e questi oggetti (...) A causa del loro rapporto particolare, le
lettere e gli studi classici conferivano (...) non il sapere scientifico
del loro oggetto (...) ma (...) un saper-fare>>[39].
La "coltivazione" delle humanities è solo: <<mezzo
pratico per inculcare (...) norme ben definite di condotta pratica nei riguardi
delle istituzioni, dei "valori", degli eventi di questa
società"[40]. Conclusione:
<<Il rapporto pratico di consumo esistente tra le discipline letterarie
e il loro oggetto non può essere considerato come un rapporto di
conoscenza scientifica>>[41].
Questa conclusione abbisogna di una premessa maggiore: e cioè che
si ammetta un'idea normativa di scienza come razionalità da cui siano
stati espunti i riferimenti al senso ed alla dimensione "pratica",
non solo nella versione enfatica della "retorica dell'educatore",
ma anche in quelle accezioni teoreticamente rigorose ed operative che hanno
iniziato a delinearsi dalla fine del secolo XIX. Tali discipline incorporano
una correlazione al senso, dunque implicano un rapporto pratico, e dunque
quell'opacità -su cui poi si fonda il dominio di classe- tipica della
prospettiva del soggetto agente direttamente in una struttura ideologica
(pratiche ed apparati). Ma: il problema è: Althusser è in
grado di dimostrare che la "scienza del continente storia" e la
stessa "teoria dell'ideologia" possano mai essere elaborate senza
questi riferimenti alla sensatezza ed all'azione? Naturalmente, la risposta
e negativa; le scienze storiche possono fare a meno di un'idea metafisica
di soggetto, liberarsi da indebite presupposizioni teleologiche, da dualismi,
spiritualismi, esistenzialismi, di ogni genere: tutte queste emendazioni,
tutti gli elementi di "oggettività" ed impersonalità
così introdotti, non potranno che precipitare in una comprensione
più raffinata e disincantata delle possibilità dell'azione
umana significativa. Così è stato per il materialismo storico,
per la storia seriale, per la storia delle mentalità e della "civiltà
materiale", così per la stessa archeologia foucaultiana. Se
questo è vero, però, ne deriva che Althusser non lascia alcuno
spazio né per la "scienza della storia", né per
quell'altra scienza, da lui evocata e confusa con la prima, il cui oggetto
sarebbe l'ideologia stessa. Viziate dall'impossibilità di raggiungere
l'oggettività di un formalismo, decadrebbero dallo statuto di saperi,
e finirebbero nel magazzino dell'immaginario. A questo punto, la stessa
impresa epistemologica althusseriana sembra autodistruggersi[42].
Poiché, tuttavia, questa conclusione ci sembra indebitamente deprimente,
dovremo esibirci nel genere socratico della palinodia e riprendere daccapo
il discorso, seguendo un altro tracciato speculativo, ahimè meno
chiaramente delineato, ma pur sempre presente nel nostro autore; e sperare
di mettere infine un po' di chiarezza.
3) Ideologia e "obiettivazione"
Ricapitoliamo: le scienze storico-sociali sono incapaci di liberarsi
da quell'interesse pratico che impedisce ad un sapere di elevarsi allo statuto
della pura scientificità. Questo però vanifica sia la pretesa
di elaborare i lineamenti di una "scienza della storia", sia quella
di possedere una teoria dell'ideologia quale servirebbe per parlare appunto
dell'ambito "pratico". Ma, identificando ideologia e mondo pratico,
noi abbiamo sorvolato su un'aporia significativa nel discorso di Althusser.
Egli, teorizzando la materialità dell'ideologia, di fatto la riduce
ad un sistema di gesti tipici, mentre l'aspetto discorsivo, teoretico e
razionale, di fatto viene ascritto alle sole scienze: l'ideologia è
pura materia, mentre la scienza è pura ragione. Senonché,
il momento discorsivo dell'agire non può ridursi ad un sommario di
regole empiriche che indichino agli individui come compiere una serie di
atti fisici in un dispositivo (come Althusser sembra credere nella sua teoria
degli "Apparati", il cui paradigma è fornito dal rituale
cattolico con la sua tipica fioritura di manuali di devozione): in realtà,
si discute sui gesti e sulle pratiche che sono da compiere, si cerca di
giustificarli, o almeno di comprenderli, facendo ricorso ad una gamma di
risorse intellettuali che vanno dal semplice opinare alle forme più
complesse di uso teoretico-obiettivo del linguaggio. Questo fenomeno è
alla radice peraltro di ciò che comunemente si intende per ideologia,
accezione (o accezioni) da cui Althusser si discosta senza però fare
i conti con gli éndoxa precedenti. Poiché così
facendo Althusser perviene ad un concetto di ideologia in pratica inutilizzabile,
cerchiamo altrove un'altra definizione dell'ideologia stessa: dopodiché
verificheremo se tale definizione serva a rendere pensabili e/o operativi
alcuni filosofemi althusseriani da noi in parte già analizzati.
Nella prefazione al libro di Hans Barth, Verità e Ideologia,
Enzo Melandri opera la seguente messa a punto delle tre accezioni principali
del concetto di ideologia:
<< "Ideologia 1"= teoria delle idee, indagine critica
circa la loro origine, natura e funzione;
"ideologia 2"=ipostasi o reificazione delle idee, prodotta
dalla falsa coscienza a scopo autogiustificativo, razionalizzatore;
"ideologia 3=insieme coerente di idee, che fungono da principi
regolatori o normativi per l'azione, la prassi politica>>[43].
Se, come ricorda Melandri, la successione cronologica dei significati è
quella data nell'enumerazione, le cose cambiano un po' quando se ne consideri
l'ordine sistematico; "ideologia 1", inizialmente dotata di un
significato "neutrale" (mero studio dell'origine delle nostre
rappresentazioni), tende a risolversi nell'articolazione peculiare che gli
altri due sensi intrattengono tra loro: <<L'accezione epidittica di
"ideologia1" non è più neutrale, bensì più
o meno eulogica per chi ne segua le vicende assumendo il punto di vista
illuministico (...) In questo caso il termine diventa antonimo (semanticamente
antitetico) rispetto a "metafisica", "dogmatismo", "tradizione"
e polemico (pragmaticamente antitetico) rispetto a "religione",
"dispotismo", "autorità". Sotto quest'ultimo
aspetto è molto importante la lotta contro il pregiudizio e le sue
fonti, la quale prosegue la teoria degli idoli di Bacone e ne mette in rilievo,
radicalizzandoli, i presupposti pratici. Da una politica culturale emerge
così una politica senz'altro. Da teoria delle idee o indagine critica
sui limiti della ragione teoretica, l'ideologia si fa altresì ragione
pratica, misura della prassi e regola dell'azione politica, trapassando
così più o meno insensibilmente in ideologia 3 e, di qui,
nel momento dell'autocritica, in ideologia 2>>[44].
Poiché, come sostiene Melandri, solo ideologia 3 (principi razionali
dell'azione politica) permette di passare da una genealogia delle idee ad
una polemica (politica) contro il ruolo mistificante di queste nella vita
sociale e storica, vediamo subito che queste osservazioni toccano da vicino
un problema che abbiamo sfiorato nell'analisi delle posizioni althusseriane.
Abbiamo visto che per Althusser, il "fuori" dall'ideologia è
la scienza, in quanto però rappresenta l'alterità assoluta
rispetto agli interessi pratici; il che rende difficile capire come si possa,
da un tale "fuori" assoluto, contribuire alla trasformazione di
pratiche ritenuti immeritevoli di sussistere. Il fatto che poi tali pratiche
debbano sempre esistere in gesti contingenti fornisce la condizione necessaria,
non quella sufficiente ad una simile trasformazione: perché si dia
transizione fuori da un complesso di pratiche bisogna almeno che esse vengano
portate in qualche modo ad una forma di consapevolezza da parte dei loro
attori, portate cioè all'interno di un discorso al tempo stesso conoscitivo
e valutativo: e questo ruolo sarebbe ricoperto da ideologia 3: <<Il
suo significato è eminentemente pratico; però non è
sinonimo di "ragione pratica", poiché include anche postulati
teoretici e, quindi, certe preferenze o predilezioni cosmologiche. L'ideologia
3 non è solo "praxis" (...) ma anche visione o concezione
generale del mondo>>[45]. È
questo momento riflessivo il luogo in cui non solo si agisce, ma si pensa
l'azione e la si valuta; in cui non solo si opera in un apparato ma si cerca
di dare (ed avere) ragione di siffatto operare, comprendendolo in concetti
inestricabilmente conoscitivi e assiologici. Solo che Althusser non può
sostenere questa posizione, poiché secondo il suo canone tale discorso
sarebbe per eccellenza non-vero, portatore di un'opacità anch'essa
ideologica in quanto compromesso con il senso ed il valore che rimandano
a ciò che Bachelard avrebbe definito la non-ragione dell'immaginario.
Infatti, Althusser non teorizza ideologia 3 -le pratiche materiali
che lui chiama ideologia non sono ciò che qui Melandri (ma potremmo
citare Engels o Lenin) descrive. Perché ideologia 3 non sono gli
apparati ideologici di Stato, ma piuttosto la pratica razionale-discorsiva
in cui tali apparati sono contemporaneamente conosciuti e commisurati ad
un sistema di valori e preferenze strutturati in una Weltanschauung
da parte di chi, con essi apparati, deve convivere. Questa distinzione tra
gli apparati e le pratiche, da un lato, e la riflessività di un discorso
pratico-teorico, non può non sfuggire ad Althusser; infatti, l'impianto
bachelardiano conosce solo una dicotomia rigida tra l'Ideologia (il vissuto,
correlato a valori e finalità), e la Scienza (scevra di riferimenti
a valori e finalità) -mentre ideologia 3, che incorpora un momento
teoretico in un discorso finalistico e valutativo non trova posto in questa
ripartizione. La stessa fondazione delle scienze storiche e del loro peculiare
tipo di oggettività dipende dall'ammissione del momento ideologia
3. Infatti, ciò da cui queste scienze non possono emanciparsi per
definizione, non è l'ideologia intesa come apparati di pratiche (ciò
che le renderebbe puri strumenti di dominio), né l'ideologia intesa
come opacità del gesto irriflesso (ciò che le consegnerebbe
alla pura immaginazione, novelli Träume eines Geistersehers);
bensì appunto dall'ideologia come ideologia3, cioè punto di
vista etico-politico, pratico-valutativo sulla vita sociale. Questo legame
con la pratica è ben diverso dall'immediata incorporazione delle
scienze storico-sociali nelle pratiche di dominio -è un legame che
permette anche la distanza critica, e che non esclude che tali scienze costituiscano
una genuina conoscenza. Althusser ha toccato questa problematica in due
luoghi della sua opera, senza mai riuscire a produrne una teoria coerente.
È dunque il momento di indagare un filone alternativo a quello
di origine bachelardiana finora esaminato nell'opera di Althusser: questo
nuovo filone teorico è emerso in due casi. Il primo caso è
quello dell' "umanesimo pratico"; il secondo quello dei "concetti
pratici".
In Per Marx, Althusser parla in questi termini dell'allora nota parola
d'ordine "umanesimo socialista": <<Dicendo che il concetto
di umanismo è un concetto ideologico (e non scientifico) affermo
che esso designa sì un insieme di realtà esistenti ma che
in pari tempo, a differenza di un concetto scientifico, non ci dà
il mezzo per conoscerle>>[46].
Tutto molto chiaro, se non fosse che a rigore, quanto abbiamo fin qui visto
ci impedirebbe di affermare che l'ideologia possa far uso di concetti nella
prospettiva althusseriana. E infatti, la definizione che Althusser dà
in questa occasione di ideologia si avvicina molto a ideologia 3: <<Un'ideologia
è un sistema (che possiede la propria logica e il proprio rigore)
di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti, secondo i casi) dotate
di un'esistenza e di una funzione storiche nell'ambito di una data società
(...) l'ideologia si distingue dalla scienza per il fatto che in essa la
funzione pratico-sociale prevale sulla funzione teorica (o funzione di conoscenza)>>[47]. Ricordiamo anche che attribuire all'ideologia
una coerenza ci riconduce alla nozione di problematica ideologica, di fatto
impensabile qualora l'ideologia stessa venga ridotta ad opacità e
tutt'al più metaforica se la si intende invece come sistema comportamentale,
mentre è assolutamente indispensabile alla nozione di ideologia come
ideologia 3. Nel testo che stiamo analizzando, Althusser oscilla continuamente
tra l'impostazione diciamo bachelardiana del problema e quella che ammette
l'esistenza di ideologia 3; quest'ultima si fa comunque sentire. Althusser
afferma addirittura che: <<l'esistenza e il riconoscimento della sua
necessità possono permettere d'agire sull'ideologia e di trasformarla
in strumento d'azione riflesso sulla storia>>[48].
Così, l'ideologia è di nuovo ricondotta al vissuto, ma questa
volta è il vissuto a cambiare di significato: <<Nell'ideologia,
infatti, gli uomini esprimono (...) il modo in cui vivono i loro
rapporti con le loro condizioni d'esistenza (...) L'ideologia è allora
l'espressione del rapporto degli uomini col loro "mondo", ossia
l'unità (surdeterminata) del loro rapporto reale e del loro rapporto
immaginario con le loro reali condizioni di esistenza. Nell'ideologia il
rapporto reale è inevitabilmente investito nel rapporto immaginario:
rapporto che esprime più una volontà (conservatrice,
conformista, riformista o rivoluzionaria), e persino una speranza o una
nostalgia, di quanto non descriva una realtà>>[49].
Come si vede, qui non si parla più di apparati ideologici; e l'immaginario
(o vissuto) non è più identico alla pura passività
dell'essere immersi in una struttura in trascendibile di gesti e comportamenti.
La relazione immaginaria diventa strumento attivo di valutazione del "mondo"
ed azione su di esso a partire dal riferimento finalistico di tale "mondo"
al vissuto di un soggetto. Qui Bachelard è stato detourné
mirabilmente nell'approccio di autori come Aristotele e Spinoza, fautori
di un'integrazione tra passioni e razionalità che implica e presuppone
un trattamento razionale delle passioni stesse. L'immaginario così
inteso di fatto non contiene nulla che non possa essere considerato come
momento di una forma di conoscenza degna del nome, ed è appunto questa
considerazione che appare nel secondo "luogo" althusseriano da
esaminare: i "concetti pratici". Althusser associa queste curiose
entità alla definizione di ideologia che abbiamo appena visto; si
può notare comunque un certo imbarazzo nel trattare questi concetti
che non avrebbero valore conoscitivo. Il paradigma di tali concetti, l'
"umanesimo reale" secondo l'autore: << serve solo a sancire
il rifiuto di un certo contenuto, non dà il nuovo contenuto>>[50]. La praticità del concetto
sembra qui coincidere anche con la sua natura polemica e critica: esso stabilisce
distanze e rompe vecchi ordinamenti discorsivi: <<Il termine reale
ha una doppia funzione: mette in luce nell'antico umanismo il suo idealismo
e la sua astrazione (funzione negativa del concetto di realtà); e
nello stesso tempo designa la realtà esterna (esterna
all'antico umanismo) in cui il nuovo umanismo troverà il suo contenuto
(funzione positiva del concetto di realtà). Tuttavia questa funzione
positiva della parola "reale" non è una funzione positiva
di conoscenza, è una funzione positiva di indicazione
pratica>>[51]. Althusser
vuol dire che il concetto pratico, caratterizzato da quei momenti valutativi
che abbiamo visto dipendere da ideologia 3, non ci permette di pensare il
dispositivo del "reale" che esso designa. Chiaramente, l'indicazione
pratica non è già di per sé una conoscenza; ma il punto
è: quando del "reale" otteniamo finalmente una conoscenza
vera, il concetto pratico -cioè il carattere valutativo di ideologia
3, scompare o resta incorporato nella conoscenza? Althusser ritiene naturalmente
che scompaia, ma è dubbio che ciò sia dimostrabile. Anzi,
si può sostenere[52] che Althusser
sia andato attenuando questa dicotomia tra concetti conoscitivi e concetti
pratici, fino a fare dei concetti pratici -della loro praticità-
la condizione trascendentale di possibilità della formazione di adeguati
concetti conoscitivi. Ci riferiamo naturalmente alla tesi della natura "scissionale"
della teoria di Marx, il suo non-poter-essere stabilizzata in una configurazione
di "scienza normale" dovendo al contrario rigenerarsi continuamente
in una serie di posizioni pratiche da cui dipende la tenuta stessa della
sua concettualità: <<Marx non riuscì ad acquisire delle
posizioni filosofiche dalle quali scoprire il suo oggetto, se non a condizione
di rompere con l'ideologia borghese dominante che questo oggetto celava>>[53]. Althusser dice giustamente che questo
concetto di una conoscenza ottenibile solo entro e mediante un conflitto,
rompe con l'idea di una Verità garantita dalla propria autosufficienza:
la verità è il prodotto di un sistema di scelte all'interno
di un gioco di forze, e pertanto essa è l'effetto -sempre solo possibile
e mai necessario- di qualcosa che è diverso da essa stessa, da cui
essa non si può dedurre. L'integrazione tra ideologia3 (Weltanschauung
pratica) e sapere teoretico sembra far esplodere l'idea stessa di verità
oggettiva nel momento stesso in cui trova finalmente un assetto teorico.
Forse allora che stavolta sarebbe la rivendicazione della praticità
a distruggere la teoria, in un percorso aporetico da ultimo paralizzante
speculare a quello in cui la purezza della teoria cancellerebbe la possibilità
delle scienze stesse in questione? Il sapere in causa si ridurrebbe alla
mera espressione di volontà, aspirazioni, rifiuti e nostalgie? O
piuttosto si dà un'oggettività -e correlative condizioni di
essa- specifica a questo sapere, in grado, non si dice di fondarlo, ma almeno
di sottrarne la pretesa conoscitiva alla risoluzione nel semplice arbitrio
dell'opinare e della resa più o meno strumentale in termini di punto
di vista parziale (o magari "partitico"): c'è un'universalità
di una scienza che si nutre di posizioni pratiche?
In questo contesto è fondamentale il riferimento alla correlazione
polemica della nuova conoscenza con l'ideologia che l'avrebbe occultata:
quest'ultima, naturalmente, sarebbe l'ideologia 2 dianzi definita. Torniamo
a Melandri ed a quanto egli ci dice dell'ideologia 2: <<La nostra
cattiva coscienza ci impedisce di identificare ideologia e verità,
di ritornare alla condizione felice di pre-moderni. La consapevolezza che
l'ideologia non è la verità si manifesta nell'uso critico
del linguaggio, così come il suo contrario appare nell'ipostasi,
nello scambio di parola e cosa, nel determinismo assoluto della sintassi.
L'uso critico del linguaggio comporta la presenza di contraddizioni verbali;
o meglio, l'espulsione delle contraddizioni diventa possibile solo in un
linguaggio che prescinda dal riferimento e si assolutizzi in pura maniera
di dire. Ma allora non è più linguaggio. Usandolo come se
lo fosse, si finisce col degradare la dialettica in ontologia: l'ideologia
3 si riduce a ideologia 2. -Quel che è vero entro un certo linguaggio,
con un dato punto di vista e con un determinato criterio di valutazione,
diventa vero in generale, senza ulteriori qualificazioni. La considerazione
dell'interessse si fa egemonica e incontrastata, assorbe e dissolve in sé
tutto il resto, compreso il criterio trascendentale di verità. Ogni
possibile filosofia, con inclusione di quella critica, illuministica e rivoluzionaria,
non vale più che quale espressione di un certo interesse>>[54]. Cerchiamo di interpretare queste
parole: l'ideologia 2 nasce da ideologia 3, cioè da un sistema pratico-teorico
che incorpora conoscenza e posizioni finalistico-valutative. Ma si tratta
di un'ideologia 3 che ha perso la consapevolezza della propria natura di
"presa di posizione" originariamente situata e fatalmente idiosincratica:
essa "scambia parola e cosa" nel senso che dà per scontata
una naturale ed intrascendibile corrispondenza del mondo alle proprie "predilezioni
cosmologiche", occultando, anche a sé stessa, che queste sono
tutt'uno con un discorso valutativo e quindi anche necessariamente soggettivo
e polemico. Si noti però quanto dice Melandri: è proprio quando
essa dimentica tale momento di parzialità che l'ideologia si riduce
a pura espressione di interessi parziali: proprio in quanto, non riconoscendo
in sé la particolarità di una posizione, essa la universalizza
indebitamente, proprio in quanto non riconosce in se stessa la differenza
tra sé e la totalità, l'ideologia diventa ideologia 2. Il
fatto che ideologia 2 sia mera espressione di interessi ci riconduce al
nostro problema: dall'ideologia può emergere genuina conoscenza se
essa non occulta la propria parzialità, ma la riflette. E come
può avvenire ciò, dato che difficilmente si è capaci
di sostenere una posizione sostenendone al contempo la relatività
"situata"?[55] Evidentemente,
criticando l'ideologia 2 vigente e maggiormente egemone, o quella che fa
da ostacolo al nostro "progetto" etico-politico in termini di
ideologia 3. In altri termini: conoscenza oggettiva di fenomeni storici
e sociali si dà all'interno di ideologia 3 solo quando quest'ultima
sia in grado di mostrare la correlazione polemica di tale conoscenza ad
una precedente ideologia 2; cioè quando si mostri come tale ideologia
2 porti in sé, negandoli, dei limiti consustanziali al proprio "sguardo
sul mondo", e contemporaneamente come tali limiti siano sistematicamente
trasgrediti dalle nuove conoscenze prodotte (o, il che non è lo stesso
se non nel senso della complementarità, come quei limiti fossero
tali proprio in quanto occultavano quelle nuove conoscenze ora "rischiarate").
Allora possiamo dire che in effetti, la conoscenza storico-sociale, che
ha come positiva condizione la presenza "naturante" di ideologia
3 nei propri concetti, è sempre una conoscenza orientata contemporaneamente
su due oggetti: 1)delle nuove conoscenze storico-sociali; 2) i limiti
di un'ideologia 2 che impedivano a 1) di emergere e pervenire a chiarezza.
La conoscenza di 2) è la condizione di quella di 1); e poiché
i limiti di un'ideologia 2 non possono essere conosciuti finché non
se ne sia conosciuta l'interna coerenza (data appunto da ciò che
essa deve escludere dalla propria visione), ecco diventare perfettamente
plausibile l'affermazione seguente: ogni conoscenza storico-sociale è
conoscenza di una problematica ideologica, cioè della struttura interna,
del fattore-di-coerenza, dell'ideologia 2 che impedisce di vedere ciò
che invece la nostra ideologia 3 vuole portare alla luce di sotto le ipostasi
(ideologiche in senso derogatorio). Questo rapporto si può descrivere
anche nei termini di una duplice intenzionalità di questo sapere:
da un lato, orientata all'oggetto di una nuova conoscenza positiva; dall'altro
all'obiettivazione della forma interna (la problematica) di quell'ideologia
2 costituente l'"ostacolo" -questa volta in senso non-bachelardiano-
alla crescita di un sapere fecondo e produttivo. Se ci soffermiamo sulla
conoscenza di ideologia 2 che interviene in questo dispositivo, vediamo
che si tratta di una conoscenza in cui l'obiettivazione della problematica
è in effetti esplicitazione dei limiti di visibilità che essa
problematica impone alle conoscenze possibili. E l'esplicitazione di tali
limiti equivale di fatto a quella genealogia delle idee che abbiamo visto
in ideologia 1. Questa equivalenza però richiede la mediazione di
ideologia 3, ed è qui che si rivela l'importanza teoretica, non solo
banalmente classificatoria, della topica proposta da Melandri. Una ideologia
3 unifica conoscenza della struttura di una teoria o di una Weltanschauung
e demistificazione delle indebite pretese assolutistiche di queste ultime:
ma può farlo solo disobiettivandole,[56]
cioè, negando che esse esauriscano il pensabile, limitando la tautologizzazione
illimitata e incontestabile delle loro questioni di principio implicite
e inespresse; il che a sua volta comporta l'apparizione di una nuova teoria
e problematica fungenti da alternativa visibile, contestazione affermativa,
di tali tautologie. Dunque è chiaro che da questo punto di vista
diventerebbe perfettamente corretto dire che: "ogni scienza è
scienza della propria ideologia". Se non fosse che allora il termine
stesso di scienza si caricherebbe di significati paradossali al limite dell'intollerabile.
Naturalmente, lo scopo di Althusser è proprio questo: riuscire a
rendere plausibile l'idea di un sapere tanto più "vero"
quanto più svuotato dell'idea (ideologica) di garanzia del possesso
della verità[57]. Tuttavia questo
scopo non è raggiungibile dallo Standpunkt bachelardiano da
cui Althusser imposta inizialmente il problema del rapporto scienza/ideologia.
E questo perché lo stesso Bachelard pensa ancora la verità
scientifica nella forma della garanzia offertagli dall'assolutezza del matematismo.
La tesi della produzione di una verità che sorga dal conflitto col
falso, e che in pari tempo sia letteralmente veri-ficata dal potere di dissipare
il falso stesso è una tesi che trasforma la ricerca, appunto, della
verità, in un'impresa rischiosa. La rischiosità di questa
intrapresa è riconducibile alle condizioni dell'oggettività
storico-sociale quali emergono non tanto dalla riflessione esplicita di
Althusser quanto dai problemi che suscita. Come si vede, sono condizioni
sufficienti ad evitare un ingenuo relativismo nichilista, ma non a fornire
la garanzia del possesso del sapere. Tale garanzia Althusser la cercava
piuttosto nella rigida dicotomia Ideologia/Scienza elaborata con strumenti
bachelardiani. Ma abbiamo visto a quali aporie essa conduca. Quest'altra
impostazione invece non garantisce nulla se non nel senso puramente fattuale
del detto spinoziano: verum est index sui et falsi. Ma vi si deve
aggiungere un tocco dialettico: se il vero mostra se stesso e la falsità
del falso, bisognerà concluderne che esso può mostrarsi solo
mostrando il falso e come esso lo contraddica. La conoscenza nell' ideologia
3 è oggettiva solo a costo di essere polemica. E ciò significa
che non possiamo esimerci, se vogliamo sapere qualcosa della nostra vita
storica ed intersoggettiva, dal prendere posizione riguardo alle sue tendenze
fondamentali. Non solo: significa che questo sapere non può divenire
un possesso stabile ma va messo in gioco immer wieder.
Infine...
Due teorie, due percorsi, entrambi vertenti sul rapporto tra ideologia e
conoscenza del mondo storico-sociale. Ne abbiamo analizzato i diversi livelli
di fecondità e plausibilità, ed alcune delle implicazioni.
Bisogna però ricordare che Althusser ha pensato ciò che ha
pensato in vista di un progetto di cui oggi faticosamente riusciamo ad intuire
l'epocalità: cioè la ricostruzione del marxismo su basi "razionali".
Il marxismo non è però una teoria scientifica né un'epistemologia
delle Geisteswissenschaften -è (o è stata) una potente
visione del senso ultimo del processo storico; come tale, non è mai
stata disgiungibile dalla pretesa di garantire la correttezza della
prassi umana basandola sull'oggettività di una conoscenza che al
tempo stesso prescriveva un'azione. In Althusser assistiamo invece ad una
radicale -anche se non esplicitata-disgiunzione dei due momenti della garanzia
conoscitiva e del rilievo pratico. Infatti, la certezza del sapere potrebbe
essere raggiunta solo all'interno di un discorso teorico puramente formale,
privo letteralmente di legami "mondani" -ma in questo modo la
teoria non parlerebbe più di nulla che possa avere un senso per l'azione
umana, cioè, per riformulare il problema in termini meno "morali"
e più teoretici, perderebbe il proprio specifico oggetto. Allora,
diventa indispensabile incorporare nella teoria tutti i momenti pratici,
valutativi e "ideologici" di cui non potrebbe fare a meno un sapere
storico. Ma così facendo si scopre che tale conoscenza è ineliminabilmente
polemica e critica; con il che, si perde la garanzia di un sapere capace
di fondare la prassi; anzi, si scopre che ogni tentativo di sistematizzare
in una configurazione definitiva e non polemica la critica finisce per ucciderla.
Se, però, si mantiene aperta la critica, bisogna anche accettare
di preventivare la limitatezza del proprio orizzonte, e di sottoporsi
anticipatamente ad una critica sempre possibile, immanente alla conoscenza
stessa. Per citare ancora Melandri: <<Nelle scienze sociali la critica
filosofica dell'oggettivazione mal-posta investe direttamente non solo i
c.d. fatti ma anche il metodo o i procedimenti di ricerca.
Per dirla senza ambagi, in queste scienze noi ci troviamo nella stessa situazione
d'incertezza in cui nella tarda antichità gli scettici, accademici
o pirroniani che fossero, si rapportavano al sapere scientifico loro tramandato[58]>>. Cioè in una condizione
di permanente epoché. Queste righe sono state scritte nel
1975: sarebbe autoillusoine pensare che oggi ci troviamo in una situazione
più comoda. Ma, se questa impostazione del problema salva la praticità
della teoria, che può continuare ad essere vettore di azioni e habitus
comportamentali senza ridursi a "immaginazione", rimane il problema
se una simile consapevolezza critica sia in grado di veicolare quei particolari
comportamenti che sarebbero richiesti ad una militanza politica più
o meno rivoluzionaria: se la mia critica all'ideologia 2, e quindi la mia
conoscenza storico-sociale, sono sempre provvisorie, suscettibili di cadere
sotto i colpi di una critica analoga, limitate da una situazione che non
posso dominare ed esaurire, che ne è dei progetti totalizzanti associati
(e sarebbe ingenuo dire che si tratta di una maldicenza) al movimento comunista?
Althusser sembra dunque condurci all'impensabilità della politica
cui si era identificato, e non c'è dubbio che le sue oscillazioni
teoretiche in parte razionalizzano e denegano questa scissione incomponibile.
Ma era solo una sua scissione? Nelle Tesi su Feuerbach Marx ricorda
che "anche l'educatore deve essere educato" -il che significa:
non c'è un punto neutro, sospeso fuori dalla storia, da cui sarebbe
possibile dominarla vedendola "in trasparenza"; le azioni umane
sono conoscibili e criticabili, ma conoscenza e critica sono azioni esse
stesse, i cui titoli di privilegio devono essere guadagnati nella critica
stessa, cioè reinventati di volta in volta. Se è così,
non possono essere fondati su una Scienza assoluta, ma solo indefinitamente
commisurati al processo-senza-soggetto della realtà, alle situazioni
di volta in volta date. Poiché si deve rifiutare ogni irrazionalismo,
il mondo non sarà trasformabile che a patto di interpretarlo. Ma
interpretare comporta che ci si assuma il rischio dell'opacità e,
in una parola, della finitudine. Così, se non c'è sapere assoluto
delle cose umane, non c'è politica assoluta che su di esso si fondi.
Se, come ha scritto Georges Labica, non si può filosofare come si
è sempre fatto dopo il materialismo storico, bisogna aggiungere che,
volendo trarne tutte le lezioni, nemmeno l'azione politica e storica possono
essere pensate allo stesso modo. Althusser ha avuto il grande merito di
accorgersene; ma oltrepassare i suoi limiti per ottenere una miglior comprensione
della fase storica in cui ci troviamo è un compito che riguarda ormai
solo noi. E che certo eccede i limiti di questo contributo. Concludiamo
perciò, a riprova della fondatezza delle nostre tesi, ricordando
che la determinazione dello statuto teorico della conoscenza storica non
è solo un problema accademico, ma va ben oltre ciò, in direzione
dell'interpretazione del presente e del nostro immediato passato.