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Alberto Gualandi
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Prefazione
di Rossella Bonito Oliva
Oggetto di questo libro è il problema della natura umana. Un nuovo studio sul problema dell’uomo potrebbe tuttavia generare un dubbio riguardo alla sua attualità rispetto ai problemi del nostro tempo, profondamente segnato da una crisi di valori e di credenze a livello globale. Se si pensa che, a fronte dell’omologazione degli stili e dei modelli di vita, sembra prevalere una sorta di frammentazione degli ideali e di crisi delle identità, può risultare infatti naturale chiedersi in che misura sia possibile ancora avviare una riflessione sull’uomo. Già all’inizio del Novecento l’antropologia filosofica ha provato a tracciare, attraverso questo interrogativo, una linea unitaria del divenire umano, divenire messo fortemente in discussione dall’accelerazione della tecnica e dai conflitti mondiali, con il conseguente declino della filosofia della storia e delle sue narrazioni escatologiche. Al di là dei contenuti e delle risposte specifiche fornite dai diversi esponenti di tale corrente, l’antropologia filosofica ha messo difatti in luce la stretta interdipendenza tra la “posizione dell’uomo nel mondo” e le strategie pre-umane e biologiche che vi stanno a monte, fuori da un’ottica in qualche modo metafisica o antropocentrica: l’ominazione è un processo che si decide nelle strategie di adattamento all’ambiente e, nel caso specifico dell’uomo, nella costruzione di una forma di vita complessa che si muove tra adattamento ed exattamento, tra evoluzione e fissazione per una sorta di discronia biologica potenziata dal contesto comunitario della vita umana. In tale contesto, il dinamismo stesso della vita umana e il raggio allargato delle sue risorse naturali e culturali rimettono continuamente in gioco le coordinate di questo divenire, che potrebbe segnare un’implosione o una regressione là dove cedesse questa tessitura complessa e questa funzionalità scandita da ritmi eterocronici. Da questo punto di vista, interrogarsi quindi sulla tenuta di questo equilibrio complesso in considerazione del percorso non coerente dell’ominazione, e del cambiamento radicale delle condizioni ambientali e sociali, spesso sintomatiche di una crisi più che di una continuità, pone con forza l’esigenza di una riflessione critica. Ernesto De Martino in anni passati si è soffermato sulle apocalissi culturali come sintomo ricorrente di crisi dell’interrelazione tra individuo e comunità, a cui far fronte, più che attraverso teorie, attraverso il riattivarsi fattuale del tessuto sotterraneo di interdipendenza e di coralità come soglia di resistenza alla catastrofe antropologica. Anche il volume di Alberto Gualandi procede in questa direzione, declinando la ricostruzione di alcuni passaggi cruciali dell’antropologia filosofica nella lettura fenomenologica delle strutture plastiche dell’umano e del loro divenire storico. L’autore è consapevole di collocarsi nell’“ordine del discorso” che ha costruito nel tempo sintesi diversificate, congiungenti origini, punti di passaggio, elementi latenti o inattivi, che mantengono un peso performativo nelle idealizzazioni e nelle strutturazioni dell’umano con i quali è ancora oggi necessario fare i conti. Uno dei punti di forza del libro sta proprio qui: nella sua capacità di riattualizzare la metodologia interdisciplinare dell’antropologia filosofica novecentesca, per mezzo di un continuo rinvio polifonico tra teoria antropobiologica e contesti scientifici di approfondimento, contestualizzazioni empiriche e dati biologici e neuroscientifici contemporanei, mettendo in evidenza l’insolubilità del rimando tra processi adattivi, processi di fissazione e scarti innovativi, giocando tra diacronia e sincronia, tra struttura e movimento, focalizzandone le dinamiche complesse per mezzo di teorie assunte come multiple narrazioni della vicenda dell’umano. Non si tratta di ricostruire, piuttosto di rintracciare genealogicamente possibilità ancora aperte per una vicenda dell’umano. In questa prospettiva, la “teoria comunicativa” che propone Gualandi fissa il punto di osservazione critica sui modi e sui medi che stanno a monte della specificazione umana, e che segnalano sempre un intervallo, per dirla con Jaspers, uno scarto tra visibile e invisibile che ha scandito e strutturato la relazione tra vicino e lontano, tra omogeneo e disomogeneo, tra familiare ed estraneo, tra natura e cultura. È all’interno di questo scarto che le analisi interdisciplinari messe in atto dall’autore vanno a dissotterrare le condizioni apriori – al contempo corporee e culturali, trascendentali e materiali – dei processi d’identificazione dell’umano: processi che trovano il loro registro concreto nelle funzioni dell’occhio, della mano e della voce. L’uomo è un animale neotenico che nasce prematuro e con un cervello fetale, che conosce un periodo di svezzamento più lungo e una maturazione fisiologica più lenta di quella di ogni altro primate: un insieme di condizioni filogenetiche e ontogenetiche che rendono l’animale umano dipendente da fattori e da condizioni di vita in cui la cornice di accudimento e lo scambio di prestazioni si rivelano decisivi. L’invenzione e l’uso del linguaggio è stata da questo punto di vista la strategia per eccellenza dell’ominazione, strategia che si è innescata negli interstizi che congiungono e separano il biologico e il culturale attivando un processo complesso di esoneri ed exattamenti anatomici e cerebrali in cui sono coinvolti allo stesso tempo l’attività esplorativa e proiettiva dell’occhio, la funzione di manipolazione e di fissazione dell’uso delle mani liberate dalla postura eretta, la funzione sperimentale e oggettivante della voce in cui esterno e interno, invenzione e fissazione, soggettivo e intersoggettivo esercitano un peso altrettanto determinante. Non si tratta di un processo univoco di acquisizione e di crescita quantitativa di capacità, quanto piuttosto di un gioco a più voci in un equilibrio complesso e insieme fragile, garantito dalla perfetta rispondenza di ognuno di questi fattori. Diacronia e sincronia segnano i ritmi della sintesi tra momenti innovativi e fasi di assestamento, in cui le configurazioni del corpo si fanno tanto terreno di spostamenti e acquisizioni, quanto luogo di trasformazioni e d’innovazioni nelle risposte proiettive, più che causali e meccaniche, alle sollecitazioni dell’ambiente, nell’orizzonte di un mondo comune configurato nella condivisione di significati e valori, e nella comunicazione condivisa di sperimentazioni multiple.
Occhio, mano e voce, perciò, dischiudono l’orizzonte di un’esperienza che si sottrae al gioco passivo e meccanico di azione/reazione per tradursi in relazioni proiettive e attive di appello/risposta, in cui la visione ampia dell’occhio e la sua capacità di spaziare, mettendo a fuoco una scena più ampia al di là dell’attenzione momentanea, così come la capacità manipolativa ed estensiva delle mani, liberate dalla postura eretta, e la forza estensiva della voce che si esplica nel richiamo e nell’eco fissativa delle identità reciproche in nuce, dipendono strettamente dall’esercizio di queste funzioni e dalla tenuta dell’universo simbolico comune. Se una patologia dell’occhio, della mano e della voce richiede una complessa riorganizzazione dei rapporti di vicariato tra organi diversi, la mancanza di un terreno simbolico, culturale e istituzionale comune mette a rischio i processi d’identificazione e di maturazione atrofizzando le capacità esplorative e proiettive del corpo umano. Da qui l’interpretazione che l’autore fornisce – supportato da fonti teoriche molteplici, rilette ancora una volta in chiave polifonica e corale – di quelle deformazioni e patologie che non sembrano trovare una risposta chiara né sul terreno della psicologia, né sul terreno della fisiologia e delle neuroscienze: schizofrenia e autismo vengono così ad assumere una dimensione politica ed epocale, che fa appello da un lato a una psicoanalisi delle relazionali oggettuali fondata su basi antropobiologiche rinnovate, e dall’altro a una critica filosofica intesa come terapia storica e sociale.
In questo contesto, secondo Gualandi, può essere centrale la rilettura dell’antropobiologia di Gehlen che nel linguaggio trova l’espressione capace di includere e sintetizzare tutte le tappe della strategia dell’ominazione secondo un movimento non rettilineo o lineare, ma sinusoidale per il continuo aggiustamento tra l’elemento singolare e l’elemento interpersonale, tra l’espressione e la comunicazione, tra il terreno transindividuale e le strutture sociali. Dare nomi, in altre parole, significa sempre comunicare con sé e con l’esterno anticipando, attraverso l’immaginazione, l’azione futura latente nella fonazione e confermata dal successo comunicativo, dalla risposta consensuale in cui, al rafforzamento del senso di sé, si accompagna la familiarizzazione con le pratiche comunicative. Ne deriva una concezione comunicativa della verità e delle sue radici incorporate che l’autore oppone alle teorie corrispondentiste e consensualiste tradizionali, che scindono la dimensione intersoggettiva da quella intrasoggettiva, spezzando il nesso circolare che connette i nomi e le proposizioni alla vita, al pensiero e all’azione. La critica filosofica intesa come terapia storica e sociale si arma così di un’epistemologia critica, fondata antropobiologicamente, che mira a dissolvere i crampi mentali e le cristallizzazioni prodotti dalla stessa riflessione filosofica sul linguaggio scientifico e naturale, riconducendo gli atti linguistici alle basi concrete del corpo e della voce, al di là di ogni astrazione logica e di ogni idealizzazione normativa, sia anch’essa pragmatista o “pragmatica”.
Seguendo queste analisi, dall’istinto comunicativo, alla comunicazione che fa uso di ordini, promesse e asserzioni, si originano processi sempre più complessi e articolati, fino a giungere alla costruzione di teorie che, al di là della pretesa di oggettività, conservano il dato prospettico e proiettivo nel rinvio tra ideazione, espressione e comunicazione. Non si produce perciò un salto dal meno al più, dall’infantile all’evoluto, dalla sperimentazione alla verità, secondo una linea di progresso e di pervasività, ma sempre una costruzione narrativa che salda insieme aspettative, dipendenze e relazioni, sia pure nella forma di una trama invisibile che sostiene e tiene in vita un mondo comune nel quale esse si legittimano socialmente e storicamente. Se è vero che questa trama sostanzia il processo di ominazione come opera aperta, è altrettanto possibile – come emerge negli studi di Straus già commentati e tradotti in passato da Gualandi, o come ricorda De Martino per le apocalissi culturali – una crisi o una patologia di questo equilibrio complesso e precario. Una possibilità intrinseca alla stessa struttura dell’umano che portandone alla luce le fragilità rivela l’intreccio tra tensione alla stabilizzazione ed esposizione esistenziale di ogni costruzione dell’umano. In questi punti di crisi è come se si determinasse una sorta di impasse che mette a nudo il fondo concreto da cui si dischiudono la “normalità” e la normatività formalizzate dalle teorizzazioni dell’umano, siano esse teorie politiche o antropologie, teorie del linguaggio o epistemologie.
In questa prospettiva, questo volume riflette criticamente sui modelli interpretativi e sugli assetti organizzativi della vita umana in cui, restringendosi lo spazio tra appello e risposta, si cristallizza il confine autoreferenziale dell’umano. Confine la cui crisi pone la questione di una riapertura comunicativa che metta in gioco più che l’implosione dell’umanità, il raggio e i vettori dell’esperienza di un vivente proiettivamente e plasticamente esposto alla condizione esistenziale radicata nel mondo e condivisa con altri soggetti. La patologia del nostro tempo si è prodotta per una sorta di ripiegamento dell’uomo su se stesso, per il trauma dinanzi a un troppo pieno, troppo presente, troppo evidente che ha surrogato i complessi processi psichici – bilanciati tra investimenti, gesti, sperimentazioni e fallimenti, invisibile e visibile – sottraendo gli spazi di metabolizzazione e di familiarizzazione con quanto inevitabilmente sfugge al potere dell’umano.
L’interrogativo di Alberto Gualandi va perciò al di là di uno studio antropologico in direzione di una questione etica, se con questo termine si mantiene il riferimento antico alla dimora dell’umano, là dove condizione e compito rimane la possibilità per questo vivente di mantenere aperto l’intervallo tra passato e futuro, tra realtà e idealizzazione, tra proprio ed estraneo, senza il quale probabilmente sarà necessario cambiare le stesse categorie con le quali e nelle quali riflettiamo e progettiamo.
Per tutte queste ragioni, questo volume si presta a più letture e apre diversi fronti di riflessione. Là dove l’intreccio delle argomentazioni si snoda nel confronto con le teorie antropologiche e scientifiche più recenti, l’interrogazione di Gualandi tocca punti nodali del dibattito teorico attuale, sia per quanto riguarda il coagularsi di teorie scientifiche intorno a visioni del mondo che al rigore della dimostrazione aggiungono una sorta di riduzione della complessità umana alla sola dimensione fisio-biologica, sia per quanto riguarda la disattenzione di certa filosofia alle ricadute concrete di determinate abitudini, aspettative, idealizzazioni, all’organizzazione e ai cambiamenti degli assetti neurobiologici della natura umana. Decifrare e soppesare le proposte teoriche in campo e trovare i loro possibili punti di contatto significa aprire una nuova linea interpretativa che, senza svalutarne i contenuti, ne metta in luce i limiti. Limiti al di là dei quali la prospettiva della domanda sulla natura umana potrebbe di nuovo scivolare in un’astrazione metafisica. Più che segnalare i pericoli di una contrapposizione tra scienze e filosofia – che può tranquillizzare chi traduce il bisogno di verità nell’assunzione di una sola spiegazione, neurobiologica o fenomenologica, psicologica o psicanalitica – Gualandi, scompaginando gli assetti, cerca nella ricchezza d’informazioni, fuori da ogni sterile scelta di campo, la base per una nuova interpretazione del fenomeno umano. Si potrebbe dire che proprio in questa varietà di conoscenze si faccia impellente per Gualandi la necessità di rivedere in chiave comunicativa i termini stessi della questione. In questo orizzonte, la “teoria comunicativa” oltre che essere una proposta teorica è la vera chiave interpretativa di questo lavoro. Un lavoro che potrebbe allargare l’orizzonte della psicologia, delle neuroscienze, dell’antropologia, della filosofia e anche della politica, smascherando una tendenza alla semplificazione e alla frammentazione sempre più dilagante nel nostro tempo.
Se può sembrare pragmaticamente utile, la riduzione danneggia quell’elemento proiettivo e sperimentativo da cui si è plasmato il corpo come la mente dell’uomo. In fondo, ancora una volta, in ogni occasione che si pronuncia la parola “utile”, bisognerebbe subito dopo chiedersi “utile a chi”. Questa seconda questione – spesso taciuta in tutti gli approcci al problema della natura umana, più interessati alla risposta che alla domanda – viene riportata in primo piano da questo libro. Gualandi, anche per l’efficace stile di scrittura, offre strumenti teorici e operativi a tutti coloro che in un’epoca di crisi si occupano del disagio, delle patologie a livello individuale e sociale, nei rapporti interpersonali, istituzionali, scolastici e scientifici. La sua proposta è quella di guadagnare in questi ambiti una prospettiva a lungo termine, oggi quasi smarrita, sul significato sempre aperto della vita umana.