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Tavola rotonda su L.
Althusser, Psicoanalisi e scienze umane. Due conferenze, Venezia 19 dicembre 2014
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Tra corpo e linguaggio. Il problema dello statuto e dell’oggetto della psicanalisi in Althusser
Alberto Gualandi
Le due conferenze di Althusser
contenute in Psicoanalisi e scienze dell’uomo (1963-64), Mimesis, 2014,
presentano un evidente interesse storico. Come Livio Boni mette in luce nella
Prefazione, un interesse legato al ruolo che le psicoanalisi, e in
particolare la psicoanalisi di Lacan, ha giocato nel pensiero francese degli
anni ’60. A ragion veduta, Boni parla a questo proposito di una sorta
d’infatuazione di Althusser per Lacan, terminata poi in seguito, verso la fine
degli anni ’60. Un’infatuazione in cui Lacan appare come una sorta di sujet
supposé savoir e anche come un analogon di Althusser stesso, come
colui cioè che ha compiuto in psicoanalisi una rivoluzione analoga a quella
compiuta da Althusser nella scienza materialista della storia. Per dirla nei
termini dell’epistemologia francese, una vera e propria rottura epistemologica
che ha trasformato la dialettica materialista di Marx e la psicoanalisi di Freud
in scienze vere e proprie. Che questo tentativo non sia poi andato a buon fine è
Althusser stesso a dircelo nei suoi scritti degli anni ’70, e Boni ricostruisce
gli enjeux teorici e storici connessi con questi cambi di rotta.
Benché sarebbe interessante approfondire il rapporto tra filosofia francese e
psicoanalisi, lacaniana in particolare – e soprattutto la surdétermination
teorica di cui essa è stata oggetto, sovradeterminazione che a mio avviso
consiste nel far giocare alla psicoanalisi il ruolo di antropologia, laddove è
evidente che Lacan stesso parta in realtà proprio da un’antropobiologia, ben
determinata, quella di Bolk, ovvero della neotenia – non mi soffermerò qui tanto
su questi risvolti storici e metateorici, ma mi chiederò, più direttamente, che
cosa c’è per noi oggi d’interessante, per qualcuno che come me non è né
althusseriano, né lacaniano. Semplicemente, oggi, qui, nelle vesti di un
filosofo che ha a cuore la questione del senso e dello statuto teorico, pratico
e politico della psicoanalisi. Immaginiamoci che queste due conferenze si
tengano ai nostri giorni, e di esservi capitati quasi per caso, senza sapere più
di tanto né di Lacan, né di Althusser. Da che cosa resteremmo innanzi tutto
colpiti? Direi dal rigore del discorso althusseriano, dal suo stile incalzante e
diretto, dal suo piglio arietino, come ebbe ad affermare una volta il mio
direttore di tesi Roberto Dionigi, anch’egli frequentatore a Parigi del Cours
de philosophie pour scientifiques e, a mio avviso, pensatore fino alla fine
dei suoi giorni, profondamente influenzato da Althusser, anche sotto la
maschera, un po’ à la page, di lettore di Nietzsche o Wittgenstein.
Rimarremmo colpiti da uno stile argomentativo che la filosofia contemporanea,
nella sua autoreferenzialità e involuzione storicistico-ermeneutico-analitica
sembra avere completamente abbandonato: procedere per problemi e tesi enunciati
e dimostrate con rigore e chiarezza, quasi cristallina. Quali sono dunque le
tesi sostenute da Althusser in queste due conferenze, così come oggi giungono
ancora al nostro orecchio?
Innanzi tutto un problema di fondo: qual è il posto di fatto e di diritto che
la psicoanalisi occupa all’interno delle scienze umane? Secondo Althusser questo
posto è di fatto e di diritto problematico e, potremmo aggiungere, oggi più di
quanto lo fosse nel 1963, epoca in cui sono state tenute queste due conferenze,
in quanto uno dei due discorsi che mettono a rischio per Althusser la sua tenuta
– il discorso tecnocratico delle neuroscienze (p. 61) – è ormai omnipervasivo.
Tale problematicità dipende secondo Althusser da due fatti principali.
In primo luogo, nel momento della sua nascita e costituzione come discorso
scientifico, nel momento del “miracolo freudiano”, la psicoanalisi ha dovuto
prendere a prestito i suoi concetti ad altri tipi di discorso: in particolare
dalla biologia e dalla fisica dell’energia, la termodinamica ottocentesca, e
dall’economia classica. Quest’importazione è al tempo stesso segno della sua
creatività analogica, ma anche della sua fragilità teorica. Fragilità da cui la
psicoanalisi non riuscirà mai a emanciparsi completamente e che ci impone ancora
oggi di riflettere sul suo statuto di scientificità, e sul ruolo che metafore e
analogie transdisciplinari, inevitabilmente, giocano ancora in essa.
In secondo luogo, la psicoanalisi postfreudiana non è riuscita secondo Althusser
a porre riparo a questa fragilità, anzi. Nella maggior parte dei casi – e
Althusser se la prende qui in particolare con la psicologia dell'Io americana e,
soprattutto con la sua iniziatrice, Anna Freud – essa ha aggravato ulteriormente
la situazione costruendo un ibrido teorico in cui la psicoanalisi appare come
una sottospecie della psicologia, sospesa a metà strada tra la biologia e la
sociologia. Althusser tiene tuttavia a specificare che anche coloro che hanno
tentato di uscire da questa impasse sostenendo che la psicoanalisi è innanzi
tutto una pratica, incorrono in un evidente paradosso poiché nessuna «teoria
della pratica analitica» può trasformarsi magicamente in «una teoria della
psicoanalisi stessa» (p. 41). Mi pare che tale impasse sia stata aggravata da
coloro che hanno creduto di poter trovare una giustificazione per tale primato
della pratica nella teoria dei giochi di linguaggio di Wittgenstein o
nell’ermeneutica. Althusser avrebbe probabilmente detto che una tale teoria
della pratica analitica non fa altro che sostituire una moda con un’altra:
l’esistenzialismo sartriano o merleau-pontyano, fondato sugli atti intenzionali
della coscienza, viene semplicemente rimpiazzato da una dottrina
dell’intersoggettività centrata su una concezione quasi-pragmatista della prassi
in cui l’accadere impersonale e anonimo del linguaggio diviene, magicamente,
fondamento di se stesso. Le oscurità dell’esperienza della coscienza vengono
barattate con le contingenze di un accadere fattuale, tanto cieco e anonimo,
quanto istitutore di senso. Ma non inaspriamo più del dovuto l’arte
althusseriana della polemica e ritorniamo alla prima conferenza che si conclude
sostanzialmente con una denuncia critica.
Questo stato critico, sembra dirci Althusser, esprimerebbe ancora oggi la
condizione in cui versa la psicoanalisi, se non fosse intervenuto, con la sua
aggressività teorica dirompente un personaggio che nessuno comprende, e che
tutti adorano proprio perché aggredisce e insulta, che si chiama Jacques Lacan.
Non vorrei ritornare qui sul ritratto quasi demoniaco – misto di reverenza e
ironia, «terrorismo intellettuale» e «impostura teorica» – che ne fornisce
Althusser (pp. 60-61). Mi pare che Livio Boni ne abbia colto in poche frasi
l’essenza. Ciò che mi interessa è richiamare l’attenzione sulla “vera scoperta”
operata da Lacan, scoperta che, secondo Althusser ha defintivamente trasformato
la psicoanalisi in una scienza, rivoluzionando completamente il senso della
dottrina freudiana stessa. Qual è tale scoperta? La grande scoperta di Lacan, ci
dice Althusser nella seconda conferenza, è quella riguardante le modalità
attraverso cui il «piccolo d’uomo» (p. 72), l’animale umano prematuro e
rallentato, accede alla sua umanità, le modalità attraverso cui l’animale umano
s’inscrive nell’ordine simbolico che lo rende umano in senso stretto. Questo
ordine non è affatto quello “continuista” e “stratigrafico” teorizzato dalla
tradizione filosofica classica – da Hobbes fino a Condillac, o dello stesso
Freud, letto soprattutto attraverso la lente deformante di Anna Freud e di Heinz
Hartmann – che vorrebbe che il bambino acceda alla propria umanità superando la
propria natura biologica, ovvero la propria animalità, pervenendo alla cultura
tramite il linguaggio e sottomettendo la propria pulsionalità alle leggi della
cultura e in particolare al nome del padre che gli impone di rinunciare al
proprio desiderio per la madre. La grande scoperta lacaniana che fa della
psicoanalisi definitivamente una scienza è quella per cui «la cultura precede
sempre se stessa» (p. 74) e che la natura non precede nell’animale umano la
cultura, bensì l’inverso. Il vettore, dice Althusser, va dalla cultura verso la
natura, e non l’inverso; ovvero attraverso il complesso di Edipo è il linguaggio
che ingloba e ristruttura come per una sorta di Nachträgligkeit simbolica
una natura che è già fin dall’inizio impregnata di esso. In altre parole, la
“seconda natura” che si instaura con l’accesso al simbolico, al linguaggio e
alla cultura non sovrappone le proprie leggi a quelle della “prima natura”,
complessificando l’insieme ma lasciandone fondamentalmente immutato il senso
evolutivo e la direzione adattativa. Ciò che si verifica è un vero e proprio
rovesciamento che ristruttura radicalmente l’insieme, sottomette l’inconscio e
le pulsioni alle leggi metaforiche e metonimiche del significante linguistico,
scinde le dimensioni reali, immaginarie e simboliche della soggettività
mostrando che ogni tentativo di ricondurle a un’identità e farne unità
(filosofica o scientifica) è pura illusione ontologico-ontica. L’uomo è un
essere fin dall’inizio in balia di un linguaggio, che pur pervenendo a struttura
conchiusa in se sé nella fase edipica, è sempre e inevitabilmente il linguaggio
dell’Altro.
Secondo Althusser, questa scoperta è di importanza capitale poiché permette di
spezzare a livello epistemologico la presunta continuità, su cui ha creduto di
poter ricostituire le proprie basi la psicoanalisi postfreudiana, che connette
il biologico col psicologico e in seguito col sociale, e pone la psicoanalisi in
una posizione di netta discontinuità rispetto al campo epistemologico
all’interno del quale essa ha fatto la sua apparizione. Altra conseguenza di
grande rilievo di tale scoperta è che essa permette di separare (p. 83) il
soggetto (linguistico, simbolico, politico), dall’individuo (biologico=reale) e
dall’Io (filosofico =immaginario) trasformando la psicoanalisi in una vera e
propria teoria critica delle formazioni ideologiche, ovvero in uno strumento
critico fondamentale per la stessa scienza materialista della storia, capace con
ciò – come ha messo in luce Stefano Pippa nella Postfazione – di
affondare il bisturi nelle illusioni e false razionalizzazioni della
soggettività filosofica moderna, e trasformando finalmente il soggetto in tal
modo de-ideologizzato in soggetto rivoluzionario.
Ora mia impressione è che non sia necessario attendere la svolta di Althusser
nei confronti di Lacan, rievocata nella prefazione di Livio Boni, (svolta
principalmente di natura politica), per comprendere che, in realtà, la funzione
di rottura epistemologica assegnata da Althusser alla teoria lacaniana è in
parte un abbaglio. A mio avviso ciò costituisce un abbaglio perché la presunta
rottura di Lacan con la biologia, o meglio con il ricapitazionalismo périmé
che sta alla base della teoria freudiana delle pulsioni e dell’intero impianto
riduzionista tardo ottocentesco della psicoanalisi (impianto che Stephen Jay
Gould chiama darwinismo di cartapesta) è in realtà fondato su un’altra
teoria, quella bolkiana del rallentamento ontogenetico, o in altri termini
teoria della neotenia, che per quanto radicalmente alternativa a quella
ricapitazionalista è pur sempre una “biologia”. Come ben noto, Lacan, da tale
teoria della neotenia, ha derivato numerosi elementi teorici: il tema
dell’incompiutezza dell’“animale umano”, della carenza identitaria e istintiva,
della prematurazione, della condizione simbiotica e fetale che fa dell’Entzweiung
l’evento traumatico originario che condiziona tragicamente (e pre-edipicamente)
il destino umano segnato dal desiderio fusionale per l’unità materna. Tali
elementi sono stati sapientemente miscelati – come Althusser nota ironicamente
nella seconda conferenza (p. 49) – con teorie psicologiche preesistenti. Oltre
che con la dottrina freudiana della castrazione simbolica, essi sono stati
miscelati con la dottrina dello specchio di Wallon, o con concezione
filosofiche, come quella della funzione identificante dell'intelletto di Emile
Meyerson (come altri autori hanno recentemente mostrato: cfr. Fruteau de Laclos).
Benché la problematizzazione-diagnosi althusseriana relativa allo stato critico
della psicanalisi sia ancora attuale, mi pare che la soluzione del problema non
consista nell’assegnare alla psicoanalisi uno spazio di discorso completamente
separato dalla biologia, come vorrebbe Althusser sulla scorta di Lacan. Quanto
piuttosto rifondare la psicoanalisi su una teoria biologica, quella della
neotenia che, come ebbe a dire Enzo Melandri, anche se non fosse
scientificamente vera – ma a mio avviso numerosi indici teorici e risultati
sperimentali attuali ci dicono che lo è – lo sarebbe comunque dal punto di vista
della sua capacità di descrivere fenomenologicamente il comportamento umano, e
prima di ogni altra cosa, la nostra follia.
Cerco brevemente di chiarirmi, ritornando sul problema del linguaggio. A mio
avviso, il discorso psicoanalitico soffre ancora di ciò che Jean-Francois
Lyotard ha chiamato un différend, un torto fondamentale prodotto
dall’incommensurabilità tra regimi di frasi e generi di discorso. Da un lato, la
psicoanalisi ha avuto fin dall’inizio la pretesa di proporsi come quel discorso
scientifico che ha per oggetto l’inconscio. D’altro lato, i detrattori della
psicoanalisi, a iniziare da Popper, hanno sostenuto che tale discorso non
soddisfa minimamente i criteri dell’oggettività scientifica, e che l’inconscio,
pseudo-entità senza tempo e senza spazio, non può in alcun modo essere
identificato come un oggetto scientifico. Ogni tentativo di identificare tale
“non-oggetto” con la realtà bioenergetica ibrida della pulsione, o di
ricondurlo, come vorrebbero alcuni neuroscienziati contemporanei, al cervello
subcorticale e limbico, è ed è sempre stato destinato al fallimento. Se tali
tentativi avessero del resto successo la psicoanalisi si trasformerebbe
inevitabilmente in altro: in psicologia evoluzionistica, in etologia umana, o
neuroscienza dell’ipotalamo o dell’amigdala, per l’appunto. Ora io credo invece
che, benché non sia un oggetto, e sia quindi irriducibile a qualsiasi forza
fisica o entità metafisica nascosta, manifestantesi in modo indiretto tramite
sogni, sintomi, lapsus, atti mancati o altro, l’esistenza dell’inconscio sia
perfettamente dimostrabile in modo semplice e diretto. La prova che l’inconscio
esiste è il fatto che c’è del linguaggio o, meglio, che da una parte che
c’è il linguaggio e dall’altra c’è un corpo, prematuro, infantile e
neotenico, che intrattiene un rapporto prelinguistico e tuttavia comunicativo,
sinestesico, immaginativo e metaforico con l’ambiente naturale e umano.
L’inconscio non è un oggetto perché esso non è altro che la differenza
infinitesimale e tuttavia incolmabile, lo scarto irriducibile che esiste tra il
corpo, vissuto e “centrico”, dell’essere prematuro e neotenico, e il linguaggio,
in terza persona ed “eccentrico” che gli è imposto dall’Altro.
Per spiegarmi meglio, cito a questo proposito alcuni passi illuminanti di Daniel
Stern: «Il linguaggio apre la strada (sia in senso topografico che in senso
potenzialmente dinamico) all’inconscio. Prima del linguaggio tutti i
comportamenti hanno la stessa importanza, per quanto concerne il senso di
“proprietà”. Con l’avvento del linguaggio alcuni acquisiscono una condizione
privilegiata sotto questo punto di vista. I molti messaggi trasmessi dai molti
canali vengono frammentati dal linguaggio e disposti in un ordine gerarchico
lungo la dimensione responsabilità/ritrattabilità» (187) Il bambino comprende
molto presto che «la sua vocalizzazione, più che il suo gesto, è considerata
l’atto di cui è responsabile» (186). E in tal modo, sembra concludere Stern, in
questo scarto tra ciò che è ritrattabile e ciò di cui ritenuti responsabili,
s’insedia, nello spazio metaforico, pre-verbale del gesto espressivo,
transensoriale e multimodale dei sensi e del corpo, l’inconscio.
Ma c’è, continua Stern, «anche un altro tipo di scarto fra esperienza e parole,
che merita di essere nominato. Alcune esperienze del Sé, quali la continuità
della coesione, il “continuare a esistere” di un Sé non frammentato, fisicamente
integrato, rientrano in una categoria analoga a quella del battito cardiaco e
del respiro. È raro che queste categorie vengano fatte oggetto di attenzione e
richiedano la verbalizzazione. E tuttavia periodicamente giunge alla coscienza
una sensazione transitoria di tali esperienze, per qualche motivo inspiegabile o
tramite la psicopatologia; l’effetto sconvolgente è quello di un’improvvisa
rivelazione del fatto che il Sé verbale e il Sé esistenziale possono essere
distanti anni luce, e che il Sé è inevitabilmente scisso dal linguaggio» (p.187).
E infine un’ultima citazione che apre la strada alla mia conclusione. «Molte
esperienze del “Sé con l’Altro”, afferma Stern, rientrano in questa categoria
non verbalizzata; guardandosi negli occhi senza parole ci si rivela. E
rivelatrice è anche la sensazione che abbiamo degli effetti vitali
caratteristici di un’altra persona, le cui peculiarità del suo fisico, che
vengono sperimentate nello stesso modo in cui il bambino sperimenta una macchia
di luce sulla parete [cioè in maniera transmodale]. Tutte queste esperienze sono
ineluttabili, e ciò che ne risulta è un ulteriore distanziamento fra la
conoscenza personale sperimentata in parole e pensieri. (Non stupisce che
abbiamo tanto bisogno dell’arte per gettare un ponte tra queste due parti di
noi)» (187).
In conclusione, «il linguaggio, dunque, produce una scissione nell’esperienza
del Sé e sposta l’esperienza del Sé e sposta l’esperienza della relazione dal
livello immediato, personale, tipico degli altri campi, al livello impersonale,
astratto, intrinseco al linguaggio stesso» (169). La miglior prova
dell’esistenza dell’inconscio è fornita dunque dal fatto che esista un
différend irreducibile tra il corpo e il linguaggio che fa sì che ci sia
sempre dell’impensato e che l’essere umano non possa mai pretendere di essere
Uno, completamente corpo vissuto fenomenologico, analogico e “privato”, o
completamente linguaggio, intersoggettivamente codificato e discreto. Io credo
che psicoanalisti come Daniel Stern o Hans Loewald abbiano mostrato secondo
modalità e con esiti diversi esattamente questo fatto. Anche Lacan, si potrebbe
obiettare, concorderebbe su questa discontinuità tra biologia e cultura, tra
corpo e linguaggio. La differenza sta tuttavia nel modo in cui si concepisce il
linguaggio: da un lato struttura opposizionale di differenze fonetiche e
semantiche organizzate in una rete di significanti, dall'altro voce sensibile,
autopercepita e autoprodotta (Anzieu) che si radica nei rimandi intersensoriali
e comunicativi tra i sensi i gesti e le azioni, sovraccaricata di contenuti
sinestesici sperimentati nel commercio prelinguistico con l’Heteros e con
l’Allon. Da un lato, struttura simbolica che dinamizza metaforicamente e
metonimicamente l’inconscio e si erge come legge che impone in modo
irreversibile la sua azione di castrazione al desiderio, dall’altra il
linguaggio come «arma a doppio taglio». Il linguaggio è infatti al contempo
tecnica o strategia che ci consente di «partecipare più facilmente agli altri le
nostre esperienze, permette a due persone di dar vita scambievolmente a nuovi
significati prima sconosciuti e che non potevano esistere fintanto che le
esperienze relative non erano esprimibili a parole [...] e che consente al
bambino di cominciare a costruire una narrazione della propria vita. Ma è anche
istanza che separa il processo primario dal secondario (Loewald) e che fa sì che
parti scisse della nostra esperienza «divengano più difficilmente comunicabili a
noi stessi e agli altri» (Stern). In questa prospettiva l’inconscio non è
strutturato come un linguaggio, bensì è l’arma a doppio taglio del linguaggio
che s’inserisce come un «cuneo fra due forme simultanee di esperienza
interpersonale: quella vissuta e quella verbalmente rappresentata. L’esperienza
che ha luogo nei campi di relazione emergente, nucleare e intersoggettiva, e che
prosegue indipendentemente, non può essere fatta rientrare se non in modo molto
parziale nel campo di relazione verbale. E, nella misura in cui gli eventi che
hanno luogo nel campo di relazione verbale viene attribuito un valore di
“realtà”, ne risulta un’alienazione delle esperienze che hanno luogo negli altri
campi, [le quali possono quindi divenire] i campi sommersi dell’esperienza» (Stern),
in altre parole l’inconscio.
È su questo tema della natura del linguaggio che la differenza tra Lacan e
queste correnti del pensiero analitico post-freudiano in gran parte trascurate
in Francia, emerge nel modo più netto, anche nel modo di intendere la cura
psicoanalitica. Il paradigma psicoanalitico relazionale, così come è stato messo
a punto da psicoanalisti come Hans Loewald o Stephen Mitchell, permette infatti
di dialettizzare il paradigma ancora in parte “stratigrafico” di Stern e portare
a compimento quell’inversione del vettore in cui risiede secondo Althusser la
grande scoperta di Lacan. Tale paradigma relazionale ci insegna, che l’incontro
con l’Altro contribuisce a strutturare il nostro inconscio ben prima che il
linguaggio si conchiuda in struttura simbolica autosufficiente e completa che
detta la sua legge edipica al soggetto: nel vivente neotenico umano «la cultura
precede fin da sempre la natura». La psicoanalisi relazionale ci mostra tuttavia
che ben prima della fase dello specchio c’è la relazione di rispecchiamento e
sintonizzazione multisensoriale (Stern, Anzieu), più o meno riuscita e felice,
con l’Altro. Piuttosto che indurre il soggetto a rinunciare a tutte le sue
identificazioni immaginarie per riconoscere e accettare l’imperio del
significante linguistico sul proprio inconscio, compito della psicoanalisi è
piuttosto quello di riattivare possibilità neoteniche congelate al di sotto
della scorza imposta all’esperienza dal processo secondario dal linguaggio
intersoggettivamente codificato, rivitalizzando quelle relazioni comunicative
iscritte nei sensi e nel corpo tramite cui si è strutturato fin dai primi giorni
di vita il nostro rapporto con noi stessi e con l’Altro. È in questa matrice
relazionale che si struttura il rapporto del soggetto con se stesso e non nella
fase immaginariamente surdéterminée dello specchio. Ma se, da un lato, le
figure della coscienza infelice: stoica, scettica, nevrotica, narcisistica,
ossessiva, psicotica etc. che ne derivano, dischiudono alla psicoanalisi un
orizzonte politico e di critica delle funzioni ideologiche veicolate dal
linguaggio, d’altro lato esse riconducono la psicoanalisi nei pressi della
cariddi filosofica, dialettico-hegeliana, più di quanto la rottura
epistemologica althusseriana avrebbe concesso e desiderato.