PROFEZIE "SINISTRE"

di Leonardo Tomasetta

1. L' "umano" e la storia

In ordine: l'"Impero" di Hardt e Negri, "La guerra" di Asor Rosa, "Power Inferno" di Baudrillard. Vengono considerati il meglio, il distillato dell'intellighenzia disposta a confrontarsi con i temi scottanti della globalizzazione, del terrore, della guerra infinita.
Non è così, diranno in molti. Altri discetteranno che siamo semplicemente all'interno del maxi pensiero dell'intellighenzia di sinistra.
Ahimè, questi ultimi potrebbero aver ragione. Fra destra e sinistra si è creata una tale compenetrazione che per distinguere ciò che è dell'una e ciò che è dell'altra bisogna ricorrere alle biografie degli autori. Si va incontro però all'imperdonabile errore di dimenticare che anche la storia della vita degli umani non ha radici nell'uomo. Perché di questo errore si tratta: il comune vizio idealistico - avrebbe detto Althusser - dei pensatori citati di credere che "è l'uomo che fa la storia".
Asor Rosa lo esplicita chiaramente quando lamenta che non funziona più l'idea di "un dominio umano" sulla storia (vedi p. 44 del suo La guerra, Einaudi, 2002). Gli altri due lo presuppongono: Negri nel raccontare il lieto Fine della storia post-postmoderna, Baudrillard con l'affabulazione del suo coinvolgente nichilismo, entro il quale le Twin Towers diventano così umane da decidere di suicidarsi quando l'una vede crollare l'altra (Power Inferno, R. Cortina, 2003, pp. 12-13).
Al lettore però non sfuggirà che i Nostri parlano per categorie generico-astratte, quali: "Impero", "Occidente", "Ordine mondiale", "Crollo simbolico", "Ebraismo", ecc.
Sull' "ebraismo" ritornerò più avanti. Per ora mi preme sottolineare che l'uso di tali categorie indeterminate non è solo questione di indigestione da hegelismo, ma anche alibi per una resa incondizionata al primato dell'"evento" sul fatto. Concorso nella sottomissione delle coscienze alla "Idea" che il tempo scandisca le anticipazioni della "Profezia", i "Segni" dell'Apocalisse, l'avvento dell'Anticristo. Un nuovo bagno nell'oscurantismo medioevale all'inizio del terzo millennio, in nome di un umanesimo astratto, intriso di piacere masochistico per l'autoflagellazione.
Ma stiamo ai fatti. O meglio, alle coordinate del loro pensiero analitico.
Comincerò da Asor Rosa, non fosse altro perché su Toni Negri non ho niente da aggiungere a quanto già esemplarmente scritto da Maria Turchetto nel suo "L'Impero colpisce ancora" (http://www.intermarx.com). Dunque, in un Occidente che avrebbe fallito nella sua missione storica di "piegare la natura umana alla voce della ragione e del diritto", si consoliderebbe un modello capitalistico "umano-naturale" in contrapposizione a un modello "umano-progettuale", risultato sconfitto dalla storia. Come si vede lo "umano" è la costante, il "naturale" e il "progettuale" rappresentano invece il vincitore e lo sconfitto di un'epoca storica che va "da un '89 all'altro", dalla Rivoluzione francese al giorno in cui il mondo si accorge che vanno affermandosi la globalizzazione e il "pensiero unico" dell'Impero. Non chiedete a me se quest'ultimo evento coincide proprio col 1989. Gli idealisti amano procedere col passo dei secoli.
Preferisco chiedermi invece perché il "naturale" debba essere così in antitesi col "progettuale" e la domanda la vorrei porre soprattutto agli ambientalisti, oggi così impegnati nella salvaguardia della natura dai progetti di degrado portati avanti dall'uomo. Ma il senso con cui Asor Rosa crea questa opposizione è molto preciso: "il diritto naturale, come è ovvio, coincide col diritto del più forte" (ivi, p.43). Come vedete la colpa è di Rousseau, a dispetto del suo "Discorso sull'ineguglianza" e di quanto si è sforzato di dire Galvano Della Volpe sul "vezzo engelsiano" di voler trovare a tutti i costi i precedenti della dialettica storico-materialista nei "residui" della dialettica hegeliana (vedi Rousseau e Marx, Editori Riuniti, 1964, pp. 77-79).
Ma, per i non addetti ai lavori, sarà meglio ritornare sul terreno più congeniale ad Asor Rosa. Perché, vedete, l'Uomo, il letterato illustre, rimane pur sempre un marxista legato alla sua storia. Ce lo conferma quando nostalgicamente mette in risalto "l'importanza dell'esperimento umano tentato con la Rivoluzione d'Ottobre"; o parla del marxismo come di "un sogno che ha fatto da argine allo strapotere dei più forti". Peccato che poi concluda che oggi non è più possibile sognare. E al posto dei sogni subentrano gli incubi, le allucinazioni, le visioni e tornano l'Apocalisse,"Babilonia la grande", Paolo, Agostino.
Ma i sogni non si alimentano solo di sonno. Si può sognare anche ad occhi aperti. Questa seconda ipotesi ha, a mio avviso, il vantaggio di incidere meglio sulla storia. Il sogno di Spartaco muove ancora oggi milioni di oppressi. Viceversa, nei sogni dominati dall'inconscio c'è spesso un effetto negativo. C'è addirittura un detto molto in voga fino a poco tempo fa: "il sonno della Ragione genera i mostri".
Chissà perché, senza volerlo, sto pensando al sonno che da decenni avvolge la lotta di classe in Occidente. La letargia di classe ha generato in Italia il mostro dell'abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
Ma non voglio rischiare di scivolare in un superato operaismo, e poi l'Occidente - l'ho già detto - è una generalizzazione fuorviante. Fanno parte dell'Occidente anche i Paesi dell'America latina e dell'Africa atlantica.
Proviamo a liberarci dagli eufemismi. Ad abbandonare il rifugio del linguaggio allusivo. Costituirebbe un atto liberatorio per tutti riappropriarsi dei vecchi vocabolari e dividere i Paesi in base allo stadio del loro sviluppo capitalistico. Parleremmo finalmente di imperialismo al posto dell'Impero, di neo-colonialismo al posto della sovranità limitata dei soggetti periferici della globalizzazione. Non si è insistito abbastanza sul fatto che, oltre alle "filiere" della cosiddetta "esternalizzazione" dell'attività produttiva, esiste anche una filiera delle sovranità nazionali. L'Occidente non è un blocco monolitico di potere. E' una catena di dipendenze unilaterali dei Paesi sviluppati dallo Stato leader, vale a dire degli U.S.A. E' in questo preciso contesto politico-territoriale che il Capitale vive la sua fase di massima espansione. Finanza e Software da qui governano il mondo in una stretta simbiosi virtuale. La guerra infinita è solo il braccio meccanico del Cyber-Leviatano del terzo millennio.

2. Il terrorismo

Già, rischiavo di dimenticare che la giustificazione di una guerra infinita nasce dalla presenza di un terrorismo universale.
Il ricorso al terrore risale nientedimeno alla distruzione di Sodoma e Gomorra, ma, anche in tempi meno remoti, Machiavelli ricordava, nei "Discorsi sulla prima deca di Tito Livio" (III, I), che "per ripigliare lo stato" fosse necessario periodicamente "mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo". Non passano tre secoli da allora che il "Terrore" diventa lo strumento istituzionale della Convenzione nazionale della Rivoluzione francese (5-IX-1793) che, nonostante ciò, terrà a battesimo la democrazia parlamentare in quasi tutti i paesi dell'occidente industrializzato.
Questo bisticcio della storia non è sicuramente sfuggito ad Asor Rosa, perché quando parla dell'"imbroglio" con cui l'Occidente cerca di spiegare il fenomeno del terrorismo si lascia andare a una pesante ammissione: "Chi volesse tagliare in due con un colpo di spada la storia della civiltà occidentale non saprebbe più come fare. Negare, con la violenza o con le idee, l'Impero americano significherebbe negare tout court la Rivoluzione francese e quella americana". E, una volta avviatosi su questa china, addita il pericolo di negare tutto ciò che viene prima e dopo: l'età di Pericle, l'Impero romano, le crociate, lo sterminio dei neri, dei gialli e degli indi, le grandi invenzioni, la rivoluzione industriale, il colonialismo, lo sfruttamento del lavoro, le innumerevoli guerre di conquista e perfino Auschwitz e Hiroshima.
Come si può vedere, la deriva idealistica è lunga almeno quanto la Corrente del Golfo e mette tutto sullo stesso piatto, dopo aver geneticamente modificato gli alimenti, come in un fast food della Mac Donald.
E però dice il vero quando scrive che la bomba atomica è per certi versi "l'antecedente più immediato, anche figurativamente della distruzione delle Twin Towers" (ivi, p. 177). Solo che su questo argomento viene abbondantemente superato da Baudrillard, che sintetizza la sua ipotesi sulla natura dell'attuale terrorismo, definendolo "la sfida al sistema attraverso il dono simbolico della morte, che diviene un'arma assoluta ... le Torri sembrano averlo capito, e hanno dato la loro risposta crollando su se stesse" (op.cit., p. 30).
E' stupefacente come in questa ricostruzione degli archetipi del terrorismo (o se preferite , più weberianamente, dei suoi "tipi ideali") siano completamente assenti i soggetti empirici passivi e attivi di esso, ovvero gli uomini in carne ed ossa, le centinaia, migliaia di vittime, da una parte, i singoli, o i gruppi di kamikaze, dall'altra...
A dire il vero, c'è un punto in cui Baudrillard, richiamando la tesi di Arundhati Roy, presta un po' di attenzione ai kamikaze, ed è quando ipotizza che possono essere "dei folli suicidi, degli psicopatici, dei fanatici di una causa perversa, a loro volta manipolati da qualche potenza malefica che si limita a sfruttare il risentimento e l'odio dei popoli oppressi per assecondare la sua rabbia di distruzione". Ma poi nega tutto questo, rinnegando la stessa tesi di Arundhati Roy, per fare spazio alla sua ipotesi di uno scambio simbolico di morte contro morte.
In quanto alle vittime ci pensa Asor Rosa a prestare loro un po' di attenzione. Lo fa però a un livello assai rarefatto e ambiguo, e cioè per dire che: "Il concetto stesso di vittima innocente va rivisto. Si ha l'impressione che sia completamente obsoleto e che, nella logica del Terrore, vittime innocenti non ce ne siano più ... Siamo tutti corresponsabili sistemici e dunque soldati in battaglia". Tanto Bush, quanto Osama Bin Laden hanno detto "Chi non è con noi è contro di noi" (op. cit., p. 178). Una prova in più della omologazione perfino linguistica fra l'impero del Bene e quello del Male.
C'è da sperare che quella di Asor Rosa sia solo una provocazione rivolta a far riflettere sulla tesi, assai più condivisibile, di un terrorismo che nasce dentro di noi quando chiudiamo gli occhi davanti agli eccidi che si consumano in tutta la periferia del mondo sviluppato. E' come il calare la testa nella manna della nostra opulenza. Più gli uomini dei paesi ricchi diventano opimi, più quelli dei paesi poveri perdono così tanto il loro peso e la propria volontà da non distinguere più il passaggio dalla vita alla morte.
I nuovi kamikaze non sono fenomeno da baraccone o guerrieri assimilabili a quelli giapponesi del secondo conflitto mondiale. Non sono neppure dei "suicidi altruisti", per dirla alla Durkheim, a meno che non si voglia dare un valore positivo alla loro scelta di sacrificare la propria vita per ideali così alti da giustificare il disprezzo per tante vite innocenti. Se però il concetto di innocenza fosse veramente obsoleto, come Asor Rosa sospetta, l'ipotesi durkheimiana non sarebbe più tanto peregrina.
Sono i paradossi a cui si arriva ragionando per movimento di concetti, perdendo ogni contatto con la materialità dei fatti, con i soggetti empirici delle nostre riflessioni. Questo il maggior danno arrecato al pensiero critico e, più nello specifico, al pensiero di derivazione marxista dall'idealismo hegeliano.
La controprova di questo basilare assunto della critica althusseriana all'hegelismo, la si può facilmente trovare in quei rari, ma pur presenti, momenti in cui Asor Rosa recupera il contatto con la materialità delle cose. Così, ad esempio, come non essere d'accordo con lui quando scrive "il terrorismo forse è islamico, ma la tecnologia del Terrore è occidentale" (ivi, p.179). Certo anche qui sarebbe stato preferibile che avesse detto il terrorismo è anche islamico, ma la tecnologia del Terrore è capitalistica (e ciò anche con riferimento ai capitali stanziati da Bin Laden per tenere in piedi il terrorismo islamico), ma è già un notevole passo avanti l'aver recuperato il ruolo della tecnologia nella moltiplicazione degli effetti del Terrore. E, a proposito di islamismo, c'è un altro passaggio del suo confrontarsi con gli aspetti empirici della riflessione che vale la pena di riportare: "Le popolazioni islamiche restano più rigidamente legate alla fedeltà coranica per un problema di identità collettiva, perché respinte violentemente ai margini del 'progresso', devono difendere con i mezzi più tipici della tradizione la loro fisionomia, il loro, nonostante tutto, esserci come tali, e non come individui isolati soggetti a una manipolazione infinita" (ivi, p.180).
Qui si tocca finalmente con mano una realtà che è sotto gli occhi di tutti. Quantomeno di quelli che non menano vanto delle loro improbabili ascendenze celtiche, o fanno il filo allo stato d'Israele per farsi perdonare le loro, neppure troppo remote, collusioni con i campi di sterminio.
Peccato, però, che anche a questo punto, per coerenza con le sue inclinazioni apocalittiche, l'Autore concluda sbrigativamente che il processo di manipolazione degli islamici è diventato irreversibile per l'assenza di "movimenti alternativi e sistemi concorrenti" alla Fata Morgana dell'Occidente.
E le centinaia di migliaia, i milioni di no-global che da Seattle a Genova, a Firenze hanno espresso il loro rifiuto della globalizzazione a senso unico? E le fiumane di persone che in ogni continente e luogo della terra gridano in questi giorni il loro no alla guerra? Parafrasando Althusser, possiamo dire che "i pacifisti, quando sono anticapitalisti, non gridano mai al deserto".
Ma per gli idealisti, la storia (che gli uomini non riescono più a fare) cede il posto al destino: "Ogni sogno di riscatto è tramontato. L'intreccio tra Bene e Male nell'Occidente è irrimediabile ... Tutti, orientali e occidentali, Nord e Sud, bianchi neri e gialli dovranno passare di qui". Cioè per "l'imbroglio" dell'Occidente: "il problema è l'Occidente" (ivi, pp. 180-181) .

3. L'ebraismo

E' impensabile che un intellettuale di alto profilo come Asor Rosa non abbia letto "La questione ebraica" di Marx. Eppure, all'apparenza, così si direbbe. Dico all'apparenza perché, molto più verosimilmente, Asor Rosa conosce così bene la critica che Marx in questo scritto muove a Bruno Bauer da pensare che basti un piccolo salto all'indietro per risolvere dialetticamente il problema.
Mi spiego meglio: Marx rimprovera a Bauer di credere che l'emancipazione dell'ebreo, entro lo stato cristiano, passi per la eliminazione delle religioni, o quantomeno per una netta separazione fra Stato e religione. Viceversa, Marx sostiene che l'emancipazione dell'ebreo non è problema diverso dall'emancipazione di qualsiasi altro cittadino e che perciò essa passa per l'abolizione dello Stato medesimo, in quanto strumento della dominazione borghese. Solo in questa ottica si riesce a spiegare perché Asor Rosa si scagli con tanta veemenza contro l'ebraismo che si fa Stato, che diventa Israele.
Ma cerchiamo di seguire i passaggi della sua analisi: "L' ebraismo nella sua essenza è puro Oriente" (ivi, p. 96). Arriva Roma, espianta gli ebrei dalla loro terra e questi si proiettano per l'intero universo, spinti dall'imperativo di "garantirsi l'autosopravvivenza". E proprio per questo si tengono lontani dalla cosa pubblica. A differenza del cristianesimo, l'ebraismo non pensa di "fondere il potere di Dio con quello dell'uomo, la religione e lo Stato". L'ebraismo diventa in questo modo la culla dell'antistatalismo. Piuttosto che piegarsi ai voleri dell'Impero, "ha preferito giacere ovunque nel fondo della storia". Si è lasciato ghettizzare, anziché assimilare. "Nell'ebreo infatti, c'era non solo il segno di una diversità, ma l'elemento attivo, sempre vigile, anche quando apparentemente passivo sul piano pratico, di resistenza a quell'assimilazione, che l'Occidente ha sempre preteso come forma concreta di un vero e proprio atto di subordinazione" (ivi, p. 98). Poi, bontà sua, Asor Rosa riconosce che sono esistiti degli ebrei che si sono lasciati assimilare, ma questo non ha impedito che contro di loro si organizzassero persecuzioni e pogrom perché l'Occidente non poteva non accorgersi che l'ebraismo costituiva un limite, un impedimento al suo delirio civilizzatore.
Si avverte già, ho motivo di sperare, che partendo dalla opposizione dei punti cardinali si arriva all'opposizione di due concezioni del mondo: quella occidentale, basata sulla sua "folle missione civilizzatrice" e quella orientale che "dell'Impero si rifiutava di accettare il suo Re, in quanto un Re aveva che bastava per tutto e per tutti" (ivi, p. 98). Chi non l'avesse ancora capito, sa ora che la diversità degli ebrei consisteva nell'essere il "popolo eletto" da Dio-Re.
Ma l'Occidente non si lascia intimidire e, dopo aver visto fallire i suoi piani di sterminio, incorpora l'ebraismo nel proprio sistema, "ne fa una trave portante del 'nuovo ordine' mondiale nel luogo più importante di questa strategia, ovvero nel cuore della potenziale alterità islamica" (ivi, p. 99) . Nasce lo Stato d'Israele come risarcimento per l'olocausto, ma anche perché l'Occidente possa continuare nella sua opera civilizzatrice, la quale non tollera l'alterità, la diversità, in questo caso del Mondo Islamico. Sì, perché "l'aspetto catastrofico di questa vicenda è che l'ebraismo, per diventare Israele, ha accettato anch'esso e fatta profezia, per la prima volta nella sua storia in quanto ebraismo, la grande eredità dell'Occidente".
"Gli ebrei hanno avuto una patria e hanno perso una religione. Da un popolo di religiosi e di pensatori è nato un popolo di zeloti. E' nato uno Stato, e si è dissolto un popolo" (ivi, p. 100).
Nella circolarità della dialettica hegeliana il passaggio è chiaro: l'ebraismo rappresentava una negazione per l'Occidente. Ma dalla negazione della negazione (ad opera dell'Occidente) nasce una nuova contraddizione, quella che oppone oggi l'ebraismo all'islamismo. Non è specificato se l'islamismo sia Oriente a ventiquattro carati come l'ebraismo. Probabilmente no, a giudicare dalla grande sintonia che c'è fra l'Impero e Israele nel negare i diritti dei palestinesi.
Ma non crediate che Asor Rosa sia insensibile a questo problema. Anzi, c'è addirittura un crescente d'invettiva contro lo Stato d'Israele "con la sua inequivocabile caratterizzazione razziale". Le conseguenze di questa caratterizzazione sono: "l'esercizio sempre più raffinato e arrogante della violenza, la disponibilità a pagare il prezzo della propria sopravvivenza in termini di umiliazione permanente delle nazioni arabe circostanti, fino all'implicita-esplicita, mostruosa ma inevitabile affermazione della superiorità razziale ebraica nei confronti dei sottosviluppati popoli circonvicini e alla presa del potere per via democratica di un gruppo parafascistico, come quello che governa oggi il paese" (ivi, p. 101). Ce n'è abbastanza, mi sembra, per giustificare le allarmate reazioni delle comunità israelitiche di Roma e di Milano.
Ma sono partito dalle colpe dell'idealismo di sinistra e preferisco restare su questo terreno.
Dunque, come spero adesso risulti più chiaro, se, secondo Marx, l'emancipazione dell'ebraismo poteva avvenire solo con il superamento dello Stato borghese, è evidente che la costituzione in Israele di uno Stato borghese, sentinella avanzata dell'Impero, costituisce un notevole passo indietro, una vera regressione dall'emancipazione al dominio. Il guaio è, però, che coi "movimenti" della dialettica hegeliana non si cava un ragno dal buco. C'è il rischio di girare in tondo sullo scivoloso terreno della "negazione della negazione".
Non è da escludere che anche ne "La questione ebraica" di Marx permangano residui di hegelismo, dal momento che è stata scritta nel 1844, prima cioè di quella che Althusser chiama "rottura epistemologica", o svolta filosofica del pensiero di Marx. Tuttavia, proprio perché, come abbiamo visto all'inizio, Asor Rosa attribuisce all'Occidente la colpa di aver optato per un modello "umano-naturale", sarebbe stato auspicabile che nella sua accusa al naturale avesse fatto spazio alla naturalità del "libero mercato". Viceversa, Marx centra la sua feroce critica all'ebraismo (tradotto "giudaismo" nella versione italiana degli "Annali franco-tedeschi", in assonanza col neutro della parola tedesca "Judentum") solo ed esclusivamente sulle categorie economiche del mercato. Scrive allora che: "L'emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è la emancipazione dell'umanità dal giudaismo" (in Opere scelte, Editori Riuniti, p. 104). Prima e dopo spiega che lui considera "l'ebreo reale mondano, l'ebreo di tutti i giorni, non l'ebreo del Sabbath, come fa Bauer". Che il fondamento mondano del giudaismo è l'egoismo, il suo culto mondano, il traffico, il suo Dio mondano il denaro. A un certo punto afferma: "Invero la signoria pratica del giudaismo sul mondo cristiano ha raggiunto nel Nordamerica l'espressione non equivoca, normale, così che l'annuncio stesso del Vangelo, la predicazione cristiana, è divenuto un articolo di commercio, e il commerciante fallito traffica in Vangelo come l'evangelista arricchito traffica negli affari" (ivi, p. 105).
Altro che mancata assimilazione dell'ebreo entro lo Stato cristiano! Marx rovescia la direzione dell'integrazione e parla di signoria del giudaismo sul cristianesimo, almeno per quanto concerne il Nordamerica. Ma è ancora più sorprendente che Marx abbia prefigurato con oltre un secolo e mezzo di anticipo la combriccola affaristica del governo di Bush W., il quale garantisce appunto, nel nome del Vangelo, che la guerra a Saddam Hussein porterà benessere e pacificazione agli stessi popoli di Palestina.
E però, al di là di queste considerazioni, che potrebbero essere frutto della mia inveterata soggezione al pensiero del Grande Rivoluzionario Ebreo, rimane il fatto inoppugnabile che nessuno più di Marx aveva conoscenza diretta del legame sotterraneo che esiste fra ebraismo e capitalismo già ai tempi della diaspora. Non c'era perciò bisogno di aspettare la nascita dello Stato di Israele per scoprire il filo doppio che lega ebraismo e finanza, traffici e "libero mercato".
Certo, si potrà obiettare che anche Marx ricorreva a generalizzazioni estreme come quella di concepire un unico ebraismo, tacendo (a partire dal suo) il grande contributo dato dagli ebrei della diaspora al progresso scientifico, artistico e letterario, oltre che alla rivoluzione politico-sociale in Europa, in America e in Asia. Ancora, si potrà discutere se sia saggia operazione sottovalutare l'influenza del fattore religioso sullo stesso sviluppo delle nazioni a esclusivo vantaggio dell'economia. Non a caso, ho voluto mettere in evidenza il residuo hegelismo presente nelle opere giovanili di Marx. Ritengo, d'altro canto, in accordo con Althusser e Raniero Panzieri, che fra economicismo e autoritarismo ci sia una sorta di reciproco sostegno. Ma tutto ciò premesso, non riesco neppure a ipotizzare che si possa saltare a piè pari sulle esigenze dell'economia e del mercato per discettare sull'ebraismo e sulla funzione dello Stato d'Israele.
Del resto, lo stesso Asor Rosa, che materialista non è, in chiusura del suo lavoro, e sotto lo choc della "Risoluzione strategica" del The National security strategy of the United States of America (20 settembre 2002), è costretto a fare i conti col "libero mercato" e col "libero commercio". E li fa, bisogna riconoscerlo, riportando integralmente il preambolo della risoluzione, dove non si fa mistero di voler assegnare al mondo (anche con la forza e la guerra preventiva) un unico modello di sviluppo in cui "libera impresa" e democrazia si saldino a "immagine e somiglianza" dell'esempio americano. Addirittura Asor Rosa si spinge a dire: "Si potrebbe dunque ragionevolmente ipotizzare che il terrorismo venga preso a pretesto per un discorso 'altro', che potrebbe essere sintetizzato così: l'ostentazione di una 'minaccia' incombente, - quale che sia, - serve a mantenere gli attuali rapporti di forza, anzi a consolidarli, a rendere meno praticabili le insorgenze di altre linee di forza nell'attuale mondo unipolare (che so la Cina, la Russia, la stessa Europa) e dunque in sostanza, a governare il mondo in funzione della illimitata espansione del 'libero mercato' e del 'libero commercio', che sono i veri fondamenti del Verbo" (ivi, p. 209).
C'è da rimanere stupefatti! Questo passo, sembrerebbe dettato dallo stesso Marx de "La questione ebraica" quando parla del Pentateuco e del Talmud. Peccato però che Asor Rosa non si accorga di questo antico legame e preferisca poco dopo ritornare sulle profezie dell'Apocalisse, o affidarsi, come rimedio, al primato della "Parola" sulle Armi.
Vale a dire al primato del Verbo.