1. L' "umano" e la storia
In ordine: l'"Impero" di Hardt e Negri, "La guerra"
di Asor Rosa, "Power Inferno" di Baudrillard. Vengono considerati
il meglio, il distillato dell'intellighenzia disposta a confrontarsi
con i temi scottanti della globalizzazione, del terrore, della guerra infinita.
Non è così, diranno in molti. Altri discetteranno che siamo
semplicemente all'interno del maxi pensiero dell'intellighenzia di
sinistra.
Ahimè, questi ultimi potrebbero aver ragione. Fra destra e sinistra
si è creata una tale compenetrazione che per distinguere ciò
che è dell'una e ciò che è dell'altra bisogna ricorrere
alle biografie degli autori. Si va incontro però all'imperdonabile
errore di dimenticare che anche la storia della vita degli umani non ha
radici nell'uomo. Perché di questo errore si tratta: il comune vizio
idealistico - avrebbe detto Althusser - dei pensatori citati di credere
che "è l'uomo che fa la storia".
Asor Rosa lo esplicita chiaramente quando lamenta che non funziona più
l'idea di "un dominio umano" sulla storia (vedi p. 44 del suo
La guerra, Einaudi, 2002). Gli altri due lo presuppongono: Negri
nel raccontare il lieto Fine della storia post-postmoderna, Baudrillard
con l'affabulazione del suo coinvolgente nichilismo, entro il quale le Twin
Towers diventano così umane da decidere di suicidarsi quando l'una
vede crollare l'altra (Power Inferno, R. Cortina, 2003, pp. 12-13).
Al lettore però non sfuggirà che i Nostri parlano per categorie
generico-astratte, quali: "Impero", "Occidente", "Ordine
mondiale", "Crollo simbolico", "Ebraismo", ecc.
Sull' "ebraismo" ritornerò più avanti. Per ora mi
preme sottolineare che l'uso di tali categorie indeterminate non è
solo questione di indigestione da hegelismo, ma anche alibi per una resa
incondizionata al primato dell'"evento" sul fatto. Concorso nella
sottomissione delle coscienze alla "Idea" che il tempo scandisca
le anticipazioni della "Profezia", i "Segni" dell'Apocalisse,
l'avvento dell'Anticristo. Un nuovo bagno nell'oscurantismo medioevale all'inizio
del terzo millennio, in nome di un umanesimo astratto, intriso di piacere
masochistico per l'autoflagellazione.
Ma stiamo ai fatti. O meglio, alle coordinate del loro pensiero analitico.
Comincerò da Asor Rosa, non fosse altro perché su Toni Negri
non ho niente da aggiungere a quanto già esemplarmente scritto da
Maria Turchetto nel suo "L'Impero colpisce ancora" (http://www.intermarx.com).
Dunque, in un Occidente che avrebbe fallito nella sua missione storica di
"piegare la natura umana alla voce della ragione e del diritto",
si consoliderebbe un modello capitalistico "umano-naturale" in
contrapposizione a un modello "umano-progettuale", risultato sconfitto
dalla storia. Come si vede lo "umano" è la costante, il
"naturale" e il "progettuale" rappresentano invece il
vincitore e lo sconfitto di un'epoca storica che va "da un '89 all'altro",
dalla Rivoluzione francese al giorno in cui il mondo si accorge che vanno
affermandosi la globalizzazione e il "pensiero unico" dell'Impero.
Non chiedete a me se quest'ultimo evento coincide proprio col 1989. Gli
idealisti amano procedere col passo dei secoli.
Preferisco chiedermi invece perché il "naturale" debba
essere così in antitesi col "progettuale" e la domanda
la vorrei porre soprattutto agli ambientalisti, oggi così impegnati
nella salvaguardia della natura dai progetti di degrado portati avanti dall'uomo.
Ma il senso con cui Asor Rosa crea questa opposizione è molto preciso:
"il diritto naturale, come è ovvio, coincide col diritto del
più forte" (ivi, p.43). Come vedete la colpa è di Rousseau,
a dispetto del suo "Discorso sull'ineguglianza" e di quanto si
è sforzato di dire Galvano Della Volpe sul "vezzo engelsiano"
di voler trovare a tutti i costi i precedenti della dialettica storico-materialista
nei "residui" della dialettica hegeliana (vedi Rousseau e Marx,
Editori Riuniti, 1964, pp. 77-79).
Ma, per i non addetti ai lavori, sarà meglio ritornare sul terreno
più congeniale ad Asor Rosa. Perché, vedete, l'Uomo, il letterato
illustre, rimane pur sempre un marxista legato alla sua storia. Ce lo conferma
quando nostalgicamente mette in risalto "l'importanza dell'esperimento
umano tentato con la Rivoluzione d'Ottobre"; o parla del marxismo come
di "un sogno che ha fatto da argine allo strapotere dei più
forti". Peccato che poi concluda che oggi non è più possibile
sognare. E al posto dei sogni subentrano gli incubi, le allucinazioni, le
visioni e tornano l'Apocalisse,"Babilonia la grande", Paolo, Agostino.
Ma i sogni non si alimentano solo di sonno. Si può sognare anche
ad occhi aperti. Questa seconda ipotesi ha, a mio avviso, il vantaggio di
incidere meglio sulla storia. Il sogno di Spartaco muove ancora oggi milioni
di oppressi. Viceversa, nei sogni dominati dall'inconscio c'è spesso
un effetto negativo. C'è addirittura un detto molto in voga fino
a poco tempo fa: "il sonno della Ragione genera i mostri".
Chissà perché, senza volerlo, sto pensando al sonno che da
decenni avvolge la lotta di classe in Occidente. La letargia di classe ha
generato in Italia il mostro dell'abolizione dell'articolo 18 dello statuto
dei lavoratori.
Ma non voglio rischiare di scivolare in un superato operaismo, e poi l'Occidente
- l'ho già detto - è una generalizzazione fuorviante. Fanno
parte dell'Occidente anche i Paesi dell'America latina e dell'Africa atlantica.
Proviamo a liberarci dagli eufemismi. Ad abbandonare il rifugio del linguaggio
allusivo. Costituirebbe un atto liberatorio per tutti riappropriarsi dei
vecchi vocabolari e dividere i Paesi in base allo stadio del loro sviluppo
capitalistico. Parleremmo finalmente di imperialismo al posto dell'Impero,
di neo-colonialismo al posto della sovranità limitata dei soggetti
periferici della globalizzazione. Non si è insistito abbastanza sul
fatto che, oltre alle "filiere" della cosiddetta "esternalizzazione"
dell'attività produttiva, esiste anche una filiera delle sovranità
nazionali. L'Occidente non è un blocco monolitico di potere. E' una
catena di dipendenze unilaterali dei Paesi sviluppati dallo Stato leader,
vale a dire degli U.S.A. E' in questo preciso contesto politico-territoriale
che il Capitale vive la sua fase di massima espansione. Finanza e Software
da qui governano il mondo in una stretta simbiosi virtuale. La guerra infinita
è solo il braccio meccanico del Cyber-Leviatano del terzo millennio.
2. Il terrorismo
Già, rischiavo di dimenticare che la giustificazione di una guerra
infinita nasce dalla presenza di un terrorismo universale.
Il ricorso al terrore risale nientedimeno alla distruzione di Sodoma e Gomorra,
ma, anche in tempi meno remoti, Machiavelli ricordava, nei "Discorsi
sulla prima deca di Tito Livio" (III, I), che "per ripigliare
lo stato" fosse necessario periodicamente "mettere quel terrore
e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo". Non
passano tre secoli da allora che il "Terrore" diventa lo strumento
istituzionale della Convenzione nazionale della Rivoluzione francese (5-IX-1793)
che, nonostante ciò, terrà a battesimo la democrazia parlamentare
in quasi tutti i paesi dell'occidente industrializzato.
Questo bisticcio della storia non è sicuramente sfuggito ad Asor
Rosa, perché quando parla dell'"imbroglio" con cui l'Occidente
cerca di spiegare il fenomeno del terrorismo si lascia andare a una pesante
ammissione: "Chi volesse tagliare in due con un colpo di spada la storia
della civiltà occidentale non saprebbe più come fare. Negare,
con la violenza o con le idee, l'Impero americano significherebbe negare
tout court la Rivoluzione francese e quella americana". E, una
volta avviatosi su questa china, addita il pericolo di negare tutto ciò
che viene prima e dopo: l'età di Pericle, l'Impero romano, le crociate,
lo sterminio dei neri, dei gialli e degli indi, le grandi invenzioni, la
rivoluzione industriale, il colonialismo, lo sfruttamento del lavoro, le
innumerevoli guerre di conquista e perfino Auschwitz e Hiroshima.
Come si può vedere, la deriva idealistica è lunga almeno quanto
la Corrente del Golfo e mette tutto sullo stesso piatto, dopo aver geneticamente
modificato gli alimenti, come in un fast food della Mac Donald.
E però dice il vero quando scrive che la bomba atomica è per
certi versi "l'antecedente più immediato, anche figurativamente
della distruzione delle Twin Towers" (ivi, p. 177). Solo che su questo
argomento viene abbondantemente superato da Baudrillard, che sintetizza
la sua ipotesi sulla natura dell'attuale terrorismo, definendolo "la
sfida al sistema attraverso il dono simbolico della morte, che diviene un'arma
assoluta ... le Torri sembrano averlo capito, e hanno dato la loro risposta
crollando su se stesse" (op.cit., p. 30).
E' stupefacente come in questa ricostruzione degli archetipi del terrorismo
(o se preferite , più weberianamente, dei suoi "tipi ideali")
siano completamente assenti i soggetti empirici passivi e attivi di esso,
ovvero gli uomini in carne ed ossa, le centinaia, migliaia di vittime, da
una parte, i singoli, o i gruppi di kamikaze, dall'altra...
A dire il vero, c'è un punto in cui Baudrillard, richiamando la tesi
di Arundhati Roy, presta un po' di attenzione ai kamikaze, ed è quando
ipotizza che possono essere "dei folli suicidi, degli psicopatici,
dei fanatici di una causa perversa, a loro volta manipolati da qualche potenza
malefica che si limita a sfruttare il risentimento e l'odio dei popoli oppressi
per assecondare la sua rabbia di distruzione". Ma poi nega tutto questo,
rinnegando la stessa tesi di Arundhati Roy, per fare spazio alla sua ipotesi
di uno scambio simbolico di morte contro morte.
In quanto alle vittime ci pensa Asor Rosa a prestare loro un po' di attenzione.
Lo fa però a un livello assai rarefatto e ambiguo, e cioè
per dire che: "Il concetto stesso di vittima innocente va rivisto.
Si ha l'impressione che sia completamente obsoleto e che, nella logica del
Terrore, vittime innocenti non ce ne siano più ... Siamo tutti corresponsabili
sistemici e dunque soldati in battaglia". Tanto Bush, quanto Osama
Bin Laden hanno detto "Chi non è con noi è contro di
noi" (op. cit., p. 178). Una prova in più della omologazione
perfino linguistica fra l'impero del Bene e quello del Male.
C'è da sperare che quella di Asor Rosa sia solo una provocazione
rivolta a far riflettere sulla tesi, assai più condivisibile, di
un terrorismo che nasce dentro di noi quando chiudiamo gli occhi davanti
agli eccidi che si consumano in tutta la periferia del mondo sviluppato.
E' come il calare la testa nella manna della nostra opulenza. Più
gli uomini dei paesi ricchi diventano opimi, più quelli dei paesi
poveri perdono così tanto il loro peso e la propria volontà
da non distinguere più il passaggio dalla vita alla morte.
I nuovi kamikaze non sono fenomeno da baraccone o guerrieri assimilabili
a quelli giapponesi del secondo conflitto mondiale. Non sono neppure dei
"suicidi altruisti", per dirla alla Durkheim, a meno che non si
voglia dare un valore positivo alla loro scelta di sacrificare la propria
vita per ideali così alti da giustificare il disprezzo per tante
vite innocenti. Se però il concetto di innocenza fosse veramente
obsoleto, come Asor Rosa sospetta, l'ipotesi durkheimiana non sarebbe più
tanto peregrina.
Sono i paradossi a cui si arriva ragionando per movimento di concetti, perdendo
ogni contatto con la materialità dei fatti, con i soggetti empirici
delle nostre riflessioni. Questo il maggior danno arrecato al pensiero critico
e, più nello specifico, al pensiero di derivazione marxista dall'idealismo
hegeliano.
La controprova di questo basilare assunto della critica althusseriana all'hegelismo,
la si può facilmente trovare in quei rari, ma pur presenti, momenti
in cui Asor Rosa recupera il contatto con la materialità delle cose.
Così, ad esempio, come non essere d'accordo con lui quando scrive
"il terrorismo forse è islamico, ma la tecnologia del Terrore
è occidentale" (ivi, p.179). Certo anche qui sarebbe stato preferibile
che avesse detto il terrorismo è anche islamico, ma la tecnologia
del Terrore è capitalistica (e ciò anche con riferimento ai
capitali stanziati da Bin Laden per tenere in piedi il terrorismo islamico),
ma è già un notevole passo avanti l'aver recuperato il ruolo
della tecnologia nella moltiplicazione degli effetti del Terrore. E, a proposito
di islamismo, c'è un altro passaggio del suo confrontarsi con gli
aspetti empirici della riflessione che vale la pena di riportare: "Le
popolazioni islamiche restano più rigidamente legate alla fedeltà
coranica per un problema di identità collettiva, perché respinte
violentemente ai margini del 'progresso', devono difendere con i mezzi più
tipici della tradizione la loro fisionomia, il loro, nonostante tutto, esserci
come tali, e non come individui isolati soggetti a una manipolazione infinita"
(ivi, p.180).
Qui si tocca finalmente con mano una realtà che è sotto gli
occhi di tutti. Quantomeno di quelli che non menano vanto delle loro improbabili
ascendenze celtiche, o fanno il filo allo stato d'Israele per farsi perdonare
le loro, neppure troppo remote, collusioni con i campi di sterminio.
Peccato, però, che anche a questo punto, per coerenza con le sue
inclinazioni apocalittiche, l'Autore concluda sbrigativamente che il processo
di manipolazione degli islamici è diventato irreversibile per l'assenza
di "movimenti alternativi e sistemi concorrenti" alla Fata Morgana
dell'Occidente.
E le centinaia di migliaia, i milioni di no-global che da Seattle a Genova,
a Firenze hanno espresso il loro rifiuto della globalizzazione a senso unico?
E le fiumane di persone che in ogni continente e luogo della terra gridano
in questi giorni il loro no alla guerra? Parafrasando Althusser, possiamo
dire che "i pacifisti, quando sono anticapitalisti, non gridano mai
al deserto".
Ma per gli idealisti, la storia (che gli uomini non riescono più
a fare) cede il posto al destino: "Ogni sogno di riscatto è
tramontato. L'intreccio tra Bene e Male nell'Occidente è irrimediabile
... Tutti, orientali e occidentali, Nord e Sud, bianchi neri e gialli dovranno
passare di qui". Cioè per "l'imbroglio" dell'Occidente:
"il problema è l'Occidente" (ivi, pp. 180-181) .
3. L'ebraismo
E' impensabile che un intellettuale di alto profilo come Asor Rosa non
abbia letto "La questione ebraica" di Marx. Eppure, all'apparenza,
così si direbbe. Dico all'apparenza perché, molto più
verosimilmente, Asor Rosa conosce così bene la critica che Marx in
questo scritto muove a Bruno Bauer da pensare che basti un piccolo salto
all'indietro per risolvere dialetticamente il problema.
Mi spiego meglio: Marx rimprovera a Bauer di credere che l'emancipazione
dell'ebreo, entro lo stato cristiano, passi per la eliminazione delle religioni,
o quantomeno per una netta separazione fra Stato e religione. Viceversa,
Marx sostiene che l'emancipazione dell'ebreo non è problema diverso
dall'emancipazione di qualsiasi altro cittadino e che perciò essa
passa per l'abolizione dello Stato medesimo, in quanto strumento della dominazione
borghese. Solo in questa ottica si riesce a spiegare perché Asor
Rosa si scagli con tanta veemenza contro l'ebraismo che si fa Stato, che
diventa Israele.
Ma cerchiamo di seguire i passaggi della sua analisi: "L' ebraismo
nella sua essenza è puro Oriente" (ivi, p. 96). Arriva Roma,
espianta gli ebrei dalla loro terra e questi si proiettano per l'intero
universo, spinti dall'imperativo di "garantirsi l'autosopravvivenza".
E proprio per questo si tengono lontani dalla cosa pubblica. A differenza
del cristianesimo, l'ebraismo non pensa di "fondere il potere di Dio
con quello dell'uomo, la religione e lo Stato". L'ebraismo diventa
in questo modo la culla dell'antistatalismo. Piuttosto che piegarsi ai voleri
dell'Impero, "ha preferito giacere ovunque nel fondo della storia".
Si è lasciato ghettizzare, anziché assimilare. "Nell'ebreo
infatti, c'era non solo il segno di una diversità, ma l'elemento
attivo, sempre vigile, anche quando apparentemente passivo sul piano pratico,
di resistenza a quell'assimilazione, che l'Occidente ha sempre preteso come
forma concreta di un vero e proprio atto di subordinazione" (ivi, p.
98). Poi, bontà sua, Asor Rosa riconosce che sono esistiti degli
ebrei che si sono lasciati assimilare, ma questo non ha impedito che contro
di loro si organizzassero persecuzioni e pogrom perché l'Occidente
non poteva non accorgersi che l'ebraismo costituiva un limite, un impedimento
al suo delirio civilizzatore.
Si avverte già, ho motivo di sperare, che partendo dalla opposizione
dei punti cardinali si arriva all'opposizione di due concezioni del mondo:
quella occidentale, basata sulla sua "folle missione civilizzatrice"
e quella orientale che "dell'Impero si rifiutava di accettare il suo
Re, in quanto un Re aveva che bastava per tutto e per tutti" (ivi,
p. 98). Chi non l'avesse ancora capito, sa ora che la diversità degli
ebrei consisteva nell'essere il "popolo eletto" da Dio-Re.
Ma l'Occidente non si lascia intimidire e, dopo aver visto fallire i suoi
piani di sterminio, incorpora l'ebraismo nel proprio sistema, "ne fa
una trave portante del 'nuovo ordine' mondiale nel luogo più importante
di questa strategia, ovvero nel cuore della potenziale alterità islamica"
(ivi, p. 99) . Nasce lo Stato d'Israele come risarcimento per l'olocausto,
ma anche perché l'Occidente possa continuare nella sua opera civilizzatrice,
la quale non tollera l'alterità, la diversità, in questo caso
del Mondo Islamico. Sì, perché "l'aspetto catastrofico
di questa vicenda è che l'ebraismo, per diventare Israele, ha accettato
anch'esso e fatta profezia, per la prima volta nella sua storia in quanto
ebraismo, la grande eredità dell'Occidente".
"Gli ebrei hanno avuto una patria e hanno perso una religione. Da un
popolo di religiosi e di pensatori è nato un popolo di zeloti. E'
nato uno Stato, e si è dissolto un popolo" (ivi, p. 100).
Nella circolarità della dialettica hegeliana il passaggio è
chiaro: l'ebraismo rappresentava una negazione per l'Occidente. Ma dalla
negazione della negazione (ad opera dell'Occidente) nasce una nuova contraddizione,
quella che oppone oggi l'ebraismo all'islamismo. Non è specificato
se l'islamismo sia Oriente a ventiquattro carati come l'ebraismo. Probabilmente
no, a giudicare dalla grande sintonia che c'è fra l'Impero e Israele
nel negare i diritti dei palestinesi.
Ma non crediate che Asor Rosa sia insensibile a questo problema. Anzi, c'è
addirittura un crescente d'invettiva contro lo Stato d'Israele "con
la sua inequivocabile caratterizzazione razziale". Le conseguenze di
questa caratterizzazione sono: "l'esercizio sempre più raffinato
e arrogante della violenza, la disponibilità a pagare il prezzo della
propria sopravvivenza in termini di umiliazione permanente delle nazioni
arabe circostanti, fino all'implicita-esplicita, mostruosa ma inevitabile
affermazione della superiorità razziale ebraica nei confronti dei
sottosviluppati popoli circonvicini e alla presa del potere per via democratica
di un gruppo parafascistico, come quello che governa oggi il paese"
(ivi, p. 101). Ce n'è abbastanza, mi sembra, per giustificare le
allarmate reazioni delle comunità israelitiche di Roma e di Milano.
Ma sono partito dalle colpe dell'idealismo di sinistra e preferisco restare
su questo terreno.
Dunque, come spero adesso risulti più chiaro, se, secondo Marx, l'emancipazione
dell'ebraismo poteva avvenire solo con il superamento dello Stato borghese,
è evidente che la costituzione in Israele di uno Stato borghese,
sentinella avanzata dell'Impero, costituisce un notevole passo indietro,
una vera regressione dall'emancipazione al dominio. Il guaio è, però,
che coi "movimenti" della dialettica hegeliana non si cava un
ragno dal buco. C'è il rischio di girare in tondo sullo scivoloso
terreno della "negazione della negazione".
Non è da escludere che anche ne "La questione ebraica"
di Marx permangano residui di hegelismo, dal momento che è stata
scritta nel 1844, prima cioè di quella che Althusser chiama "rottura
epistemologica", o svolta filosofica del pensiero di Marx. Tuttavia,
proprio perché, come abbiamo visto all'inizio, Asor Rosa attribuisce
all'Occidente la colpa di aver optato per un modello "umano-naturale",
sarebbe stato auspicabile che nella sua accusa al naturale avesse fatto
spazio alla naturalità del "libero mercato". Viceversa,
Marx centra la sua feroce critica all'ebraismo (tradotto "giudaismo"
nella versione italiana degli "Annali franco-tedeschi", in assonanza
col neutro della parola tedesca "Judentum") solo ed esclusivamente
sulle categorie economiche del mercato. Scrive allora che: "L'emancipazione
degli ebrei nel suo significato ultimo è la emancipazione dell'umanità
dal giudaismo" (in Opere scelte, Editori Riuniti, p. 104). Prima
e dopo spiega che lui considera "l'ebreo reale mondano, l'ebreo di
tutti i giorni, non l'ebreo del Sabbath, come fa Bauer". Che il fondamento
mondano del giudaismo è l'egoismo, il suo culto mondano, il traffico,
il suo Dio mondano il denaro. A un certo punto afferma: "Invero la
signoria pratica del giudaismo sul mondo cristiano ha raggiunto nel Nordamerica
l'espressione non equivoca, normale, così che l'annuncio stesso del
Vangelo, la predicazione cristiana, è divenuto un articolo di commercio,
e il commerciante fallito traffica in Vangelo come l'evangelista arricchito
traffica negli affari" (ivi, p. 105).
Altro che mancata assimilazione dell'ebreo entro lo Stato cristiano! Marx
rovescia la direzione dell'integrazione e parla di signoria del giudaismo
sul cristianesimo, almeno per quanto concerne il Nordamerica. Ma è
ancora più sorprendente che Marx abbia prefigurato con oltre un secolo
e mezzo di anticipo la combriccola affaristica del governo di Bush W., il
quale garantisce appunto, nel nome del Vangelo, che la guerra a Saddam Hussein
porterà benessere e pacificazione agli stessi popoli di Palestina.
E però, al di là di queste considerazioni, che potrebbero
essere frutto della mia inveterata soggezione al pensiero del Grande Rivoluzionario
Ebreo, rimane il fatto inoppugnabile che nessuno più di Marx aveva
conoscenza diretta del legame sotterraneo che esiste fra ebraismo e capitalismo
già ai tempi della diaspora. Non c'era perciò bisogno di aspettare
la nascita dello Stato di Israele per scoprire il filo doppio che lega ebraismo
e finanza, traffici e "libero mercato".
Certo, si potrà obiettare che anche Marx ricorreva a generalizzazioni
estreme come quella di concepire un unico ebraismo, tacendo (a partire dal
suo) il grande contributo dato dagli ebrei della diaspora al progresso scientifico,
artistico e letterario, oltre che alla rivoluzione politico-sociale in Europa,
in America e in Asia. Ancora, si potrà discutere se sia saggia operazione
sottovalutare l'influenza del fattore religioso sullo stesso sviluppo delle
nazioni a esclusivo vantaggio dell'economia. Non a caso, ho voluto mettere
in evidenza il residuo hegelismo presente nelle opere giovanili di Marx.
Ritengo, d'altro canto, in accordo con Althusser e Raniero Panzieri, che
fra economicismo e autoritarismo ci sia una sorta di reciproco sostegno.
Ma tutto ciò premesso, non riesco neppure a ipotizzare che si possa
saltare a piè pari sulle esigenze dell'economia e del mercato per
discettare sull'ebraismo e sulla funzione dello Stato d'Israele.
Del resto, lo stesso Asor Rosa, che materialista non è, in chiusura
del suo lavoro, e sotto lo choc della "Risoluzione strategica"
del The National security strategy of the United States of America
(20 settembre 2002), è costretto a fare i conti col "libero
mercato" e col "libero commercio". E li fa, bisogna riconoscerlo,
riportando integralmente il preambolo della risoluzione, dove non si fa
mistero di voler assegnare al mondo (anche con la forza e la guerra preventiva)
un unico modello di sviluppo in cui "libera impresa" e democrazia
si saldino a "immagine e somiglianza" dell'esempio americano.
Addirittura Asor Rosa si spinge a dire: "Si potrebbe dunque ragionevolmente
ipotizzare che il terrorismo venga preso a pretesto per un discorso 'altro',
che potrebbe essere sintetizzato così: l'ostentazione di una 'minaccia'
incombente, - quale che sia, - serve a mantenere gli attuali rapporti di
forza, anzi a consolidarli, a rendere meno praticabili le insorgenze di
altre linee di forza nell'attuale mondo unipolare (che so la Cina, la Russia,
la stessa Europa) e dunque in sostanza, a governare il mondo in funzione
della illimitata espansione del 'libero mercato' e del 'libero commercio',
che sono i veri fondamenti del Verbo" (ivi, p. 209).
C'è da rimanere stupefatti! Questo passo, sembrerebbe dettato dallo
stesso Marx de "La questione ebraica" quando parla del Pentateuco
e del Talmud. Peccato però che Asor Rosa non si accorga di questo
antico legame e preferisca poco dopo ritornare sulle profezie dell'Apocalisse,
o affidarsi, come rimedio, al primato della "Parola" sulle Armi.
Vale a dire al primato del Verbo.