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Stephen J. Gould Ontogenesi e filogenesi
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Recensione
di Didier Contadini
Di formazione e professione paleontologo, S.J. Gould è noto
per essere stato uno studioso e un divulgatore delle teorie scientifiche
attinenti alla biologia e teorico che ha contribuito all’arricchimento e alla
problematizzazione della nozione di evoluzione.
In Italia, sono uscite varie sue opere ma nessun editore si è mai fatto carico
anche solo dell’idea di mettere a disposizione l’intero corpus dei suoi studi,
di tale entità da rendere impensabile, nell’odierno panorama editoriale,
qualsiasi ipotesi di operazione complessiva. Ciononostante, negli ultimi
quindici anni, grazie al lavoro appassionato di vari curatori e traduttori, il
pubblico italiano più o meno specializzato ha potuto apprezzare la diffusione di
alcuni tra i lavori più importanti di quest’autore sui generis. Mancava però
finora all’appello una delle sue pietre miliari: Ontogeny and Phylogeny.
Pubblicata nel 1977, l’opera non era ancora mai stata edita in italiano, forse
perché si riteneva potesse interessare solo una nicchia di specialisti comunque
in grado di leggerla in lingua originale o forse anche solo per la mole
imponente che presenta. Il decennale della morte ha dato l’occasione, l’anno
scorso, per la sua traduzione, che si inserisce nel solco del solido progetto
che è alla base della collana Epistemologia della Mimesis e che è stata
portata avanti, con la consapevolezza e la sapienza di chi conosce la materia,
dai traduttori (A. Cavazzini, S. De Cesare, M. Pappalardo e F. Turriziani
Colonna) e dalla curatrice (M. Turchetto).
Il titolo riassume il problema di fondo: l’ontogenesi, lo sviluppo individuale,
ha a che fare con la filogenesi, lo sviluppo delle specie; ma, precisamente,
qual è il loro rapporto reciproco? La questione non è, ovviamente, capziosa e,
tantomeno, secondaria. E non lo è tanto per la biologia quanto, secondo Gould,
per la visione generale della presenza dell’uomo nel mondo.
Per un approccio iniziale, uno sguardo all’organizzazione del testo aiuta chi,
come il recensore, non è un esperto del ramo. Il volume si divide in maniera
chiara in due sezioni, una prima dal taglio storico a cui segue una seconda dal
taglio teorico. A questa divisione fa eco un “momento riflessivo”, nel capitolo
mediano e in quello conclusivo, che esplora lo sguardo che l’uomo in quanto
scienziato porta su di sé in quanto essere sociale.
Le due parti, sostanzialmente uguali, sono dedicate rispettivamente al tema
della “Ricapitolazione” e a quello dell’“Eterocronia e pedomorfosi”. La
ricapitolazione, una teoria caduta in disgrazia, viene affrontata dall’autore da
un punto di vista storico. La sua elaborazione è il tentativo di rispondere a
determinate esigenze di comprensione sorte da “dati” empirici e, insieme, è il
frutto di un certo sguardo diretto verso la natura da cui sorgono quei dati. In
questo senso, la teoria ricapitolativa è anzitutto la forma concettuale che
assume l’analogia tra ontogenesi e filogenesi, un’analogia necessaria per il
pensiero umano sin dall’antica Grecia. Lo studioso statunitense ne dà
dimostrazione prendendo le mosse da Aristotele per poi risalire nei secoli
giungendo ai dibattiti di fine ottocento e inizio novecento.
La storia moderna dell’idea ricapitolazionista trova tra i suoi iniziatori il
preformismo di Bonnet (1720-1793), in cui «la complessità del prodotto finale» è
«presente fin dall’inizio, sebbene il germe e l’embrione giovane sia troppo
piccolo o troppo trasparente per mostrarla» (p. 29). Vede uno dei suoi momenti
grandiosi nella Naturphilosophie, che legge questo passaggio attraverso
gli stadi adulti ancestrali come la conferma che «l’intero regno animale non è
altro che la rappresentazione di numerose attività o organi dell’Uomo;
nient’altro che l’Uomo disintegrato» (p. 53), secondo una potente immagine di
Oken. La ricapitolazione, dunque, presuppone e vuole confermare 1) che la natura
segue uno sviluppo; 2) che questo sviluppo è un unico grande movimento; 3) che
questo grande movimento presuppone una «qualche forza formativa»; 4) infine, che
al vertice di questo sviluppo si trova l’Uomo, espressione massima di tutta la
Natura. Trova, infine, il suo apice nella formulazione di Haeckel (1834-1919) la
cui sintetica affermazione «l’ontogenesi è la ricapitolazione breve e rapida
della filogenesi» (p. 81) assume l’incisività di una scritta nel marmo. Lo
sviluppo dell’individuo è, dunque, la ripetizione dei «principali cambiamenti di
forma evoluti dai suoi antenati durante il loro lungo e lento sviluppo
paleontologico». Qui più che sulla centralità cosmica dell’uomo è sulla
tradizione di cui esso è portatore, la tradizione dell’intera vita del mondo
naturale, che è posto l’accento.
L’analisi storica di queste ed altre teorie serve a Gould per far emergere
diversi aspetti a cui tiene particolarmente. Un primo aspetto è sicuramente il
fatto che le leggi teoriche scientifiche sono abbandonate quando diventano «fuori
moda nell’approccio» e «insostenibili nella teoria» (p. 155). Non si
tratta dunque di una confutazione che porta a smentire l’inadeguatezza di
determinate formulazioni rispetto a una verità da scoprire, bensì, in termini
precisi, in cassette di strumenti epistemologici che diventano insoddisfacenti e
inadeguate alle necessità che richiede il contesto umano – diremo qui
genericamente. Così, non è un giudizio di disconoscimento, come invece vorrebbe
la vulgata, che colpisce ogni teoria in un determinato momento, quanto piuttosto
una impossibilità pratica di funzionamento che porta a una selezione di quegli
strumenti della “cassetta” che sono ancora utilizzabili e all’abbandono di
altri: la nuova teoria lavora ancora con materiali precedenti cambiandone la
posizione nel quadro teorico, modificandone la funzione e il ruolo. È quanto
Gould sottolinea mostrando il debito della teoria darwiniana nei confronti di
von Baer (pp. 76-78) e di Agassiz (p. 79).
Nella scrittura di Gould si riconosce un vero e proprio piacere sia per i grandi
affreschi teorici che per la passione umana che vi si cela. Non si tratta, di
antropocentrismo; Gould ha piuttosto presente in termini chiari che qualsiasi
domanda scientifica venga posta in ambito biologico ha a che fare con l’esigenza
dell’uomo di comprendere l’ambiente in cui vive e di comprendersi nel mondo. È
in questo senso che Gould imposta la seconda parte di questo corposo lavoro e,
ancor di più, il filo rosso della domanda sull’uomo che torna per orientarne la
prospettiva.
Una volta formulati i termini del discorso in chiave storica, Gould imposta,
nella seconda parte, il proprio ragionamento teorico. «La filogenesi è una
sequenza di ontogenesi; è raffigurata presentando stadi comparabili in punti
scelti e standardizzati» (p. 193). Questa semplice affermazione dice già
qualcosa di preciso sul tipo di rapporto che sussiste tra le due tendenze: non
si tratta di una legge universale e univoca bensì, proprio secondo
l’impostazione di partenza che definisce il rapporto tra i due concetti come
un’analogia, di una chiave di lettura della relazione possibile tra due
temporalità. In altri termini: quale relazione sussiste tra una temporalità
generale biologica (che è poi anche l’unica temporalità che, sedimentandosi in
storia – la storia paleontologica –, consenta di dare un senso alla temporalità
cosmica) e la temporalità ontologica singolare? Se il principio generale è, ed è
sicuramente, quello stabilito dall’evoluzione secondo la definizione datane da
Darwin, la questione assume allora una forma più complessa, essendo l’evoluzione
una forza che attraversa le temporalità, comune e singolare, moltiplicandole.
Anzitutto, Gould sottolinea che ci può essere o un rapporto diretto o un
rapporto inverso tra filogenesi e ontogenesi: o la ricapitolazione («il
discendente ripete nella propria ontogenesi una sequenza di stadi che
caratterizzavano gli antenati nei loro punti standardizzati» (p. 195)), dunque
un parallelismo diretto, o la pedomorfosi («caratteri precoci di
un’ontogenesi ancestrale sono trasposti in avanti per apparire nel punto
standardizzato di un discendente» (ivi)), quindi un parallelismo inverso.
Se questa affermazione potrebbe far credere al lettore che Gould pensi una
freccia del tempo unica e lineare per la specie, rispetto alla quale l’individuo
o accelera o decelera rispetto a un valore medio che è solo statisticamente
costruibile, in realtà non è così. Il secondo punto di partenza che Gould tiene
a fissare è infatti quello che riguarda i due soli meccanismi morfologici che
possono essere messi in atto: l’aggiunta e lo spostamento. Solo lo
spostamento di caratteri già esistenti rientra nel discorso del parallelismo,
quello dell’aggiunta determina invece una frattura non solo morfologica ma anche
temporale. Da qui sorge la moltiplicazione delle temporalità filetiche e
ontogenetiche. Allora, se è vero che predomina la categoria del tempo (e sarebbe
difficile che fosse diversamente, dato l’obiettivo del libro) è anche vero che
la disposizione spaziale acquista un ruolo rilevante. In altri termini, in Gould
agisce una sorta di struttura, intimamente aperta, la quale gioca insieme le
varietà sincroniche che coabitano spazialmente con la pluralità diacronica dei
loro sviluppi. È in questo senso che acquista un valore particolare il
concetto, storicamente maturo, di eterocronia nel momento in cui gli viene
collegato la nozione di «dissociabilità» (p. 211). In questo modo, al posto di
pensare l’organismo come un’unità individuale esso viene frantumato in parti
molteplici e solo relativamente predefinite. A questa relativizzazione si
aggiunge quella della prospettiva da cui considerare questi fenomeni. L’allometria,
per es., li misura secondo il variare della relazione tra taglia e forma. Allo
stesso modo, «la pedomorfosi e la ricapitolazione sono dei risultati
generali che dipendono da un criterio di standardizzazione e non comportano
alcuna relazione ineluttabile con qualunque processo eterocronico» (p.
219). Quel che in termini generali possiamo osservare, è che anche nella ricerca
teorica di Gould manca ogni interesse per criteri predittivi e l’attenzione si
concentra sull’apertura dei sistemi adottati (cfr. ivi, pp. 236-237).
È in questa prospettiva che egli utilizza nell’ultimo capitolo i concetti che
ritiene definiscano i meccanismi evolutivi fondamentali: progenesi, neotenia,
pedomorfosi, ambienti k e r, adattività (cap. IX); opposizione alla “rilevanza
evolutiva” e al “gradualismo” (pp. 302-303); evoluzione a mosaico, equilibrio
precario (pp. 328-338). Essi rientrano in quella cassetta degli attrezzi di cui
dicevamo e che serve a Gould per articolare la sua complessa formulazione della
teoria della neotenia umana. Qui ricorderemo sinteticamente solo che, se essa è
collegata a un modello proprio anche di altre specie naturali, vi si differenzia
essenzialmente poiché l’enfatizzazione del ritardo dello sviluppo (p. 359)
introduce un rallentamento che permette di cogliere possibilità multiple,
«piccoli cambiamenti» (p. 363), e agisce «di concerto» (p. 360) con altri
fattori che operano autonomamente ma si trovano ad essersi storicamente
incrociati in una congiuntura evenemenziale che ha prodotto quest’uomo
che noi possiamo essere.
Quest’ultima parte porta a conclusione quel filo rosso che determina la
prospettiva generale dello studio gouldiano e che trova il suo momento
precedente nel capitolo mediano, a cui già accennavamo, dove, con un’attenzione
particolare per la storia delle implicazioni extrascientifiche delle teorie
biologiche, Gould si interroga su come abbiano interagito gli sguardi teorici
sulla natura con le politiche dirette a gestire la natura umana? Antropologia
criminale e sociale, scienze dell’educazione (come si direbbe oggi) e
psicanalisi si sono rivolte alla natura dell’uomo pensando di trovare una chiave
oggettiva di lettura nei modelli biologici dominanti nell’epoca in cui sono
sorte. Esse hanno pensato di reinterrogare un’essenza costituendo invece tale
essenza come gerarchizzazione dell’esistenza umana. Riporta Gould, riassumendo
il punto di vista di quelle posizioni: «Le proposte di cambiamento potrebbero
sconvolgere l’etica tradizionale, ma qualora dovessero portare la procedura
sociale in armonia con la biologia umana, sarebbe possibile stabilire l’inizio
di un ordine razionale e scientifico, libero da antiche superstizioni e, dunque,
a lungo termine, propriamente umano» (p. 117). È così che è nato il
fraintendimento che ha affettato queste discipline e su cui rimane ancora oggi,
a noi, di interrogarci, a partire dalla domanda di fondo sul senso del
linguaggio tecnico come ciò che investe l’umanità dell’uomo nel suo momento
costituente e non in quello secondario di reinvestimento.
pubblicata in www.scienzaefilosofia.it