Louis Althusser, Filosofia per non filosofi (Dedalo 2015)

Il testo di Louis Althusser Filosofia per non filosofi (Dedalo, 2015) ha l’ambizione di presentarsi – il titolo in francese è sicuramente più efficace – come un manuale d’iniziazione alla filosofia per non-filosofi in cui l’esposizione delle principali e insuperabili tendenze della filosofia (idealismo versus materialismo, dove il primo risulta egemone rispetto al secondo) diventa anche un pretesto per iniziare a leggere la filosofia di Althusser. Il libro, come altri importanti contributi teorici pubblicato solo dopo la morte del filosofo francese, come sottolinea opportunamente G. M. Goshgarian nella sua introduzione, è una rielaborazione di un lavoro iniziato dopo la cosiddetta «svolta antiteoricista» databile intorno al 1966-1967, ripreso e sostanziosamente modificato, nella sua ultima stesura, nel 1978, cioè in una congiuntura politica e teorica in cui la crisi (non solo) della filosofia marxista è apertamente acquisita e discussa criticamente da Althusser, anche se si notano alcune sfasature teoriche rispetto a interventi coevi.  Al centro delle argomentazioni althusseriane – rivolte «all’uomo ordinario» che si ritiene non-filosofo introiettando inconsapevolmente la posizione idealista che identificherebbe il filosofo (solo) con il professore di filosofia alle prese con «la rilettura perpetua» delle opere dei grandi autori – e del giro lungo che innerva il testo per giungere ad esplicitare e dimostrare le tesi sostenute, troviamo la lotta che anima la filosofia tra le sue due tendenze contrapposte ma allo stesso tempo mai presenti allo stato puro. Pertanto, se non c’è mai una filosofia completamente materialista o idealista, la tendenza materialista, pur concordando, con alcune riserve, con quella idealista, su alcuni aspetti – la filosofia non si insegna, ha un carattere inesauribile e in qualche modo tutte le filosofie sono contemporanee – pone al centro la necessità di guardare all’esterno per filosofare considerando che la filosofia sia una pratica e, come (quasi) tutte le pratiche prese in rassegna da Althusser (dal marxiano «processo lavorativo» alla politica, dalla scienza all’ideologia, dalla psicoanalisi alla pratica artistica), dotata di una materia prima, di agenti (forza-lavoro) e di mezzi di produzione specifici. In ogni caso, questi elementi, combinati, producono determinati risultati e la pratica filosofica tendenzialmente materialista diventa utile alla trasformazione della filosofia spontanea, connotata da passiva rassegnazione, che informa l’uomo ordinario. Storicamente la filosofia nasce come risposta ad una crisi dell’ordine religioso (garante dell’ordine sociale), prodotto dall’affermazione della scienza matematica, in cui si afferma la tendenza idealista su quella materialista: la prima ricostruisce a un livello più astratto – dato che «gli uomini […] non escono mai dall’astrazione» e l’ideologia ne rappresenta il tratto naturale – risposte alle grandi domande di Senso, mentre per la seconda vi sono domande senza senso (l’Origine, il/la Fine). In quest’ottica il materialismo è un potenziale alleato della pratica scientifica. Quest’ultima, nella sua produzione di «conoscenze definite», opera su rappresentazioni ideologiche o già scientifiche, in ogni caso con delle generalità, procedendo, marxianamente, dall’astratto verso il concreto, e producendo la conoscenza di un oggetto concreto. Si tratta, tuttavia, oltre che di un «processo senza soggetto» (dove il ricercatore non è un creatore esterno al processo ed è la teoria ad agire in primis su se stessa), di un’operazione che si basa su un oggetto contraddittorio e pertanto mai compiuta definitivamente, tanto che, in ogni nuova conoscenza, permane una presenza di generalità ideologiche che l’opzione positivista, espressione dell’ideologia dominante, con la sua pretesa di neutralità scientifica assoluta, tende ad occultare, oltre che a ostacolare la costruzione di nuove scienze (come il marxismo e la psicoanalisi) non passibili di un’applicazione del metodo sperimentale per verificarne la scientificità. Il processo ideologico, che incorpora un sintomo di conoscenza, anche se inadeguata, non è completamente al di qua delle scienze e a sua volta rinvia, essendo un rapporto sociale, ai rapporti sociali di produzione che strutturano la società divisa in classi con il loro antagonismo. Vi è dunque una lotta ideologica – anch’essa priva di un autore, dove la forma soggetto è l’espressione (senza eccedenze teoriche?) dell’ideologia giuridica tipicamente borghese – che è lotta di classe, per sviluppare o contenere la pratica scientifica, dunque per garantire l’ordine sociale o promuovere l’emancipazione umana. Ed è proprio la filosofia, che non è una scienza ed è priva di un proprio oggetto, a trasformare le ideologie «sotto le quali le differenti pratiche sociali producono i loro effetti». È in questo campo che si lavora ad unificare gli elementi per produrre ideologie che si articolano tra dominanti e dominate (con i relativi referenti sociali), in definitiva per ottenere un vantaggio sull’avversario in un campo di battaglia permanente in cui la specificità dell’ideologia proletaria, incontrando il marxismo, consisterebbe nella capacità d’includere la scienza della lotta tra le classi, di conoscerne le leggi (aspetto su cui Althusser poi tornerà criticamente sottolineando il carattere aleatorio che segna un processo storico senza fine/i) e di consentire di prendere una posizione filosofica giusta, cioè orientata al superamento della divisione in classi. Non a caso, da ciò deriverebbe non un nuovo sistema filosofico – indice di un dominio di classe e della forma Stato –, né una pratica politica tesa a farsi Stato (anch’esso sempre indice della divisione in classi), da cui il partito doveva star fuori per accelerarne l’estinzione. Tutto ciò in un’epoca in cui il compito smisurato del proletariato incontrava una borghesia che affidava «il suo destino [e le sue idee] all’automatismo dei computer e dei tecnocrati».