Sulla Scienza e la Contro-Scienza

di Georges Canguilhem

Bisogna dire, come La Fontaine, "quando l'acqua curva un bastone, la mia ragione lo raddrizza", oppure dire che la mia ragione conferma di diritto il bastone spezzato nel suo essere-spezzato? Quando alla realtà veduta del bastone spezzato è stata sostituita la realtà riveduta della rifrazione, da una parte si continua a percepire spezzato un bastone che si conosce per dritto, senza riuscire a sostituire il sapere al percepire come una constatazione ad un'altra; d'altra parte, ammettere la necessità dell'illusione costringe a smettere di identificare l'essere e l'apparire. Un'opposizione rompe l'unità dell'affermazione. Per quanto appaia spezzato, il bastone non è più spezzato, è il giudizio che è spezzato. Inizialmente, il giudizio faceva coesistere due affermazioni in una: c'è una realtà, essa mi è data nel punto in cui io mi trovo e da cui io la percepisco. In seguito si separano due affermazioni: c'è una realtà, io non la colgo come tale nel punto in cui mi trovo e da cui io la percepisco. Il reale è affermato in quanto il mio giudizio ne è il vettore. E questo vettore ha una direzione opposta a quella per cui un giudizio può essere detto il mio giudizio.
A partire dal momento in cui l'affermazione iniziale si è scissa in due, semplici, inverse, e correlative, l'una delle due non è l'altra ed esse non possono essere sostenute assieme ed allo stesso titolo se non nell'oblio della loro esclusione reciproca. Non si può essere contemporaneamente ingenui ed avvertiti, creduli e critici, presuntuosi e lucidi, ignoranti e sapienti. La scienza è la negazione esplicita, per esclusione positiva, di questa negazione della scienza, implicita per confusione, che è l'ignoranza. L'ignoranza non è la privazione di una scienza contemporanea, già ottenuta, già disponibile. È, per riprendere un motto di Fontanelle nell'Elogio di La Hire, "la primogenita della scienza che la scienza trova sempre in una condizione privilegiata". L'ignoranza, qui, è l'innocenza, l'illusione, la presunzione iniziale che faceva considerare risolta una questione non ancora posta, per un'affermazione della realtà un giudizio non ancora diviso.
L'apparenza nasce come apparenza, contemporaneamente alla realtà, nel momento in cui essa è posta a fianco della realtà e contro di essa, cioè fuori di essa. Quando l'apparenza non è in rapporto che a se stessa, non c'è apparenza in quanto tale, ma solo realtà, ed in ciò consiste l'illusione teorica, l'errore. "L'errore", dice Descartes, "consiste solo in ciò, che esso non appare tale". Tuttavia, il "solo" non va preso per l'espressione di una inconsistenza. Al contrario, c'è una consistenza dell'errore, che è la com-posizione senza discernimento delle due referenze del giudizio secondo le quali la realtà è identificata e distinta. L'apparenza non è mai l'espressione della realtà. O essa è la realtà senza riserve, senza esitazione, senza ricusazioni. Oppure la realtà è riconosciuta in un pentimento del giudizio, e l'apparenza non la esprime affatto, poiché essa è ritenuta ormai usurpatrice della funzione della realtà. Il falso non è dunque mai un momento del vero. Quando il vero è affermato di una proposizione inizialmente indecisa, il falso ne è escluso come valore eventuale della stessa proposizione. Il falso ha potuto, per un momento, occupare il posto del vero. Ma questo momento non è momento del vero, poiché il vero è immediatamente retroattivo, in temporale. Il falso ha potuto essere il vero di un momento del giudizio, operante nella costituzione progressiva del vero. La verità non è costituita da una storia della verità, ma da una storia della scienza, nell'esperienza della scienza.
Affinché risulti intelligibile la costituzione del vero nella scienza, scienza che i suoi storici spesso si contentano di prendere come un fatto dato nella propria storia, similmente a come i fossili trovati nei corsi dei fiumi o nelle miniere sono dati ai paleontologi dalla storia della Terra, è necessario che l'apparenza ed il falso ottengano dalla filosofia uno statuto proprio, originale, uno statuto altrimenti che meramente repressivo per infrazione dell'ordine del vero, altrimenti che punitivo per crimine di lesa maestà scientifica. Il compito da eseguire ammonta nientemeno che a rompere l'identità della realtà, della verità e dell'essere. Esso comincia, per fare ciò, con il riconoscere la superiorità filosofica del principio di non-contraddizione sul principio d'identità. Il principio di non-contraddizione non è affatto un principio vuoto, formale, tanto che l'oggetto della sua applicazione, il campo della sua validità, non è stato formalizzato. Al contrario, esso esprime il rapporto autentico tra il vero ed il falso, tra il reale e l'apparente. Ponendo al giudizio l'obbligo di una scelta alternativa, esso è l'indizio dell'identica forza di attrazione, seppur esercitata in direzioni opposte, dei differenti termini soggetti ad opzione. È in virtù dell'oblio dell'opzione da cui sorge che il principio d'identità identifica la verità e l'essere. Husserl ha fatto notare che la presupposizione "una volta per tutte" è implicitamente costitutiva dei principii logici, e che uno stesso giudizio non può essere talvolta vero talvolta falso, ma che è l'uno o l'altro una volta per tutte.
Non possiamo allora noi dire, a nostra volta, per quanto in modo diverso: A è A significa che, se c'è A, non c'è mai stato altro che A? Ciò di cui il discorso mira a dire ciò che è, non è affetto dal tempo del discorso, che si tratti del discorso di uno solo o di cento messi in fila, che si tratti di Evariste Galois o di Bourbaki. Se nel corso del discorso si ritorna su ciò che, in un momento passato, è stato affermato come l'essere di X, ciò che X è, il giudizio fissa nuovamente la ragione positiva della negazione dell'antico giudizio. "Il bastone non è spezzato" significa "il bastone non è mai stato veramente spezzato". Ma dire che il vero non è stato alterato dall'alterazione del discorso nella sua storia -ciò che implica l'affermazione dell'identità a sé del vero- equivale a riconoscere, aldifuori del vero e dell'identità, una positività, dunque una potenza di alterazione, cioè a dire, in rapporto al vero preso come parametro di riferimento, di falsificazione. I principii logici, in quanto regole di polizia della conoscenza, in quanto reattivi critici della falsificazione teorica, non sono dei fatti logici. Essi non dipendono a loro volta dai criteri del vero e del falso. Perché il vero non è una pro-posizione, ma una pre-sup-posizione normativa. Per dire ciò che le cose sono, il principio di non-contraddizione obbliga a decidere tra il vero ed il falso. Ma in nessun modo esso ordina di scegliere tra il vero ed il falso. Esso enuncia una risoluzione possibile del giudizio in favore del vero se il giudizio mira a costituire operativamente un sapere di ciò che le cose sono. È in rapporto al sapere sull'essere che questa risoluzione possibile prende la forma di proposizione necessaria. Il principio di contraddizione non costringe alla costituzione della scienza.
Di conseguenza, la logica dell'identità e della non-contraddizione non ci è d'alcun aiuto per comprendere la possibilità di una scelta altra rispetto a quella da cui deriva la scienza, né per giustificarla attraverso ciò che ne deriva. Nell'ordine del vero è impossibile ammettere l'altro-dal-vero altrimenti che come vano, illusorio, nullo. E di contro, l'altro-dal-vero, che alimenta ciò che il vero esclude come falso, non può vedersi attribuire l'essere, non può essere detto, a voler parlare propriamente, un ordine. Il falso, il folle, sono a discrezione, ma senza discernimento. Del prestigio, del valore delle differenze, delle differenze dei valori, di tutto ciò che disdegna l'incolore identità dell'essere con sé stesso, di tutto questo è impossibile parlare come di un ordine. E perciò, è impossibile parlare della Ragione come di un'essenza. Se si accorda uno statuto positivo alla contro scienza, la Ragione non può essere che una disciplina. Ma non è facile, quando si è amputato il pensiero logico da ogni aderenza ontologica, continuare a dirsi razionalisti, cioè a sostenere l'idea che non c'è verità se non quella scientifica sostenendo, simultaneamente, i diritti dell'immaginario. Se Gaston Bachelard è riuscito a dare l'esempio felice della tolleranza reciproca tra "la coscienza della razionalità" e la "coscienza creatrice del poeta", bisogna ancora constatare che egli è stato affatto discreto sull'economia di tale riuscita. Questo successo non ci illumina sulle condizioni della sua possibilità [1].
Al contrario, la filosofia di Nietzsche ci dà una teoria del partito preso assiologico in favore della verità, una riabilitazione di ciò che la logica ontologica, il razionalismo essenzialista o scientista chiamano "errore". Ma se noi comprendiamo meglio ormai che la ricerca della verità è l'effetto di una scelta che non esclude il proprio contrario, noi non abbiamo risposte a tutte le difficoltà riguardanti il fondamento della scienza in quanto discorso la cui storia attesta la caparbia ostinazione nel proseguirsi, e le cui realizzazioni tecniche attestano trattarsi del discorso della realtà.
Quali che siano le variazioni del pensiero di Nietzsche sul significato della scienza, egli non ha mai smesso di considerare la verità come un valore da collocare tra una pluralità di valori, e la scienza come un'attività del vivente, senza privilegiare particolarmente il giudizio del filosofo. La logica qui è intesa come una volontà di trovare il vero, e quindi, in ultima istanza, come un espediente per inventarlo. Gli assiomi della logica non esibiscono un criterio della verità; essi sono degli imperativi ipotetici relativi a ciò che si ritiene di dover considerare vero. Il pensiero logico non può funzionare se non presupponendo dei miti, che sono l'essere, la sostanza, la cosa, l'identità. Questi miti sono delle istituzioni di sicurezza vitale. L'identità del vero è inventata, mediante la falsificazione del reale, per la tranquillità del vivente, come reazione di difesa preventiva contro l'imprevisto.
È la logica stessa che è errore. Ma non si tratta di un rovesciamento dal pro al contro. Questo errore che è la logica non è affatto un errore nel senso della logica. Altrimenti, Nietzsche avrebbe orientato la propria filosofia secondo l'ago magnetico della logica stessa. Al contrario, egli ha situato la logica, nella propria filosofia, al seguito della rosa dei venti della vita. La verità è una specie di errore, nel senso di illusione vitale, senza la quale una certa specie di viventi, gli uomini, non potrebbe vivere. Citare Nietzsche, su questo punto, è più utile che parafrasarlo:<<I nostri organi, che servono la vita, sono fatti in vista dell'errore ... La vita è la condizione della conoscenza. L'errore è la condizione della vita, voglio dire l'errore fondamentale ... Dobbiamo amare ed aver cura dell'errore, esso è la matrice della conoscenza. ... Se è vero che noi viviamo grazie all'errore, cosa può essere allora la "volontà di sapere"? Non dovrebbe essere la "volontà di morire"?>>[2]. Interroghiamoci, allora. Che cos'è infine questo vivente che non può vivere senza commettere, dietro il nome di conoscenza e di ricerca della verità, l'errore - vale a dire la colpa nei riguardi della vita- di denunciare e ridurre ad illusione la condizione stessa della vita? L'errore avrebbe dunque la sua radice nel conflitto della vita e della morte, della potenza e della conservazione, del rischio e della sicurezza. Il sapere, ansioso di fissasi ad un oggetto stabile, identico a sé, sarebbe paura, non della morte, ma della vita nella misura in cui essa è potenza, lotta, invenzione, rischio e sofferenza. La conoscenza, negazione della vita, essa stessa condizione della conoscenza, sarebbe dunque una perversione della vita, o forse soltanto un'espressione della sua fatica. Ma, in questo caso, bisogna cercare la ragione di questa fatica, di questa caduta delle ambizioni della vita. Nietzsche ha letto ed amato Schopenhauer che aveva letto ed amato Bichat e meditato sulla celebre definizione: "La vita è l'insieme delle funzioni che resistono alla morte". Di questa definizione così spesso criticata, ed altrettanto spesso ripresa in altri termini -ivi compresi il linguaggio della termodinamica e recentemente quello della teoria dell'informazione- si è sempre trascurato di accorgersi di un fatto: nel 1800 essa si presentava come la confutazione di una filosofia della medicina esposta dal celebre scozzese John Brown nei suoi Elementi di medicina (1780)[3]. Colui che definiva la vita attraverso l' eccitabilità, e divideva le malattie in steniche ed asteniche, secondo l'eccesso od il difetto degli stimolanti vitali, ha scritto: <<Dopo tutto ciò che ho già dettofin qui è un punto fermo che la vita è uno stato forzato; che ad ogni istante tutti gli esseri viventi tendono alla propria distruzione; che essi non si garantiscono l'esistenza se non con pena, per poco tempo, e mediante il soccorso di potenze estranee, e che infine essi muoiono soccombendo ad una fatale necessità>>[4].
Secondo Nietzsche la vita non è uno stato forzato, essa è la forza stessa, forza che l'ascetismo tenta di rivolgere contro se stessa, forza di oltrepassamento di sé che la scienza si sforza di contenere subordinandola alla finzione dell'identità dell'essere. <<Anche secondo una considerazione fisiologica, la scienza riposa sullo stesso terreno dell'ideale ascetico: l'uno e l'altra presuppongono un certo impoverimento dell'energia vitale>>[5].
Se la vita non fosse che vita, forza, volontà di potenza, la sua caduta di tensione sarebbe inintelligibile. Se la vita contiene la propria limitazione, perché la scienza che ne fa la teoria, prendendola ad oggetto, non sarebbe altro che un "errore" della vita? Perché la scienza, figlia della paura della vita, non potrebbe essere, come determinazione dei limiti della vita, accettata dalla vita ed utilizzata coraggiosamente dalla vita?Che cosa è mai un potere privo di lucidità sui suoi propri limiti?
In ultima analisi, la teoria dell'errore secondo Nietzsche è debitrice, più di quanto sembrasse all'inizio, del dualismo classico. Descartes attribuiva all'errore un significato soltanto negativo, perché egli non concepiva la Ragione come una disciplina. Ma Nietzsche, attribuendo all'indisciplina del non-razionale il nome di errore, non arriva ad attribuire alla verità un significato positivo. Secondo lui l'intelletto oltrepassa la volontà di attenersi alle sole apparenze. Descartes non poteva produrre una teoria della creazione. Nietzsche non arriva a produrre una teoria della scienza, che è anche una teoria dell'apparenza.
<<Eraclito avrà ragione in eterno nell'affermare che il mondo è una vuota finzione. Il mondo "apparente" è il solo reale: il "mondo-verità" è solamente ]aggiunto dalla menzogna>>[6]. <<Il mondo-verità noi l'abbiamo abolito: quale mondo ci è restato? Il mondo delle apparenze forse?... Ma no! Con il mondo-verità abbiamo abolito anche il mondo delle apparenze>>[7].