Bisogna dire, come La Fontaine, "quando l'acqua curva un bastone,
la mia ragione lo raddrizza", oppure dire che la mia ragione conferma
di diritto il bastone spezzato nel suo essere-spezzato? Quando alla realtà
veduta del bastone spezzato è stata sostituita la realtà riveduta
della rifrazione, da una parte si continua a percepire spezzato un bastone
che si conosce per dritto, senza riuscire a sostituire il sapere al percepire
come una constatazione ad un'altra; d'altra parte, ammettere la necessità
dell'illusione costringe a smettere di identificare l'essere e l'apparire.
Un'opposizione rompe l'unità dell'affermazione. Per quanto appaia
spezzato, il bastone non è più spezzato, è il giudizio
che è spezzato. Inizialmente, il giudizio faceva coesistere due affermazioni
in una: c'è una realtà, essa mi è data nel punto in
cui io mi trovo e da cui io la percepisco. In seguito si separano due affermazioni:
c'è una realtà, io non la colgo come tale nel punto in cui
mi trovo e da cui io la percepisco. Il reale è affermato in quanto
il mio giudizio ne è il vettore. E questo vettore ha una direzione
opposta a quella per cui un giudizio può essere detto il mio giudizio.
A partire dal momento in cui l'affermazione iniziale si è scissa
in due, semplici, inverse, e correlative, l'una delle due non è l'altra
ed esse non possono essere sostenute assieme ed allo stesso titolo se non
nell'oblio della loro esclusione reciproca. Non si può essere contemporaneamente
ingenui ed avvertiti, creduli e critici, presuntuosi e lucidi, ignoranti
e sapienti. La scienza è la negazione esplicita, per esclusione positiva,
di questa negazione della scienza, implicita per confusione, che è
l'ignoranza. L'ignoranza non è la privazione di una scienza contemporanea,
già ottenuta, già disponibile. È, per riprendere un
motto di Fontanelle nell'Elogio di La Hire, "la primogenita della scienza
che la scienza trova sempre in una condizione privilegiata". L'ignoranza,
qui, è l'innocenza, l'illusione, la presunzione iniziale che faceva
considerare risolta una questione non ancora posta, per un'affermazione
della realtà un giudizio non ancora diviso.
L'apparenza nasce come apparenza, contemporaneamente alla realtà,
nel momento in cui essa è posta a fianco della realtà e contro
di essa, cioè fuori di essa. Quando l'apparenza non è in rapporto
che a se stessa, non c'è apparenza in quanto tale, ma solo realtà,
ed in ciò consiste l'illusione teorica, l'errore. "L'errore",
dice Descartes, "consiste solo in ciò, che esso non appare tale".
Tuttavia, il "solo" non va preso per l'espressione di una inconsistenza.
Al contrario, c'è una consistenza dell'errore, che è la com-posizione
senza discernimento delle due referenze del giudizio secondo le quali la
realtà è identificata e distinta. L'apparenza non è
mai l'espressione della realtà. O essa è la realtà
senza riserve, senza esitazione, senza ricusazioni. Oppure la realtà
è riconosciuta in un pentimento del giudizio, e l'apparenza non la
esprime affatto, poiché essa è ritenuta ormai usurpatrice
della funzione della realtà. Il falso non è dunque mai un
momento del vero. Quando il vero è affermato di una proposizione
inizialmente indecisa, il falso ne è escluso come valore eventuale
della stessa proposizione. Il falso ha potuto, per un momento, occupare
il posto del vero. Ma questo momento non è momento del vero, poiché
il vero è immediatamente retroattivo, in temporale. Il falso ha potuto
essere il vero di un momento del giudizio, operante nella costituzione progressiva
del vero. La verità non è costituita da una storia della verità,
ma da una storia della scienza, nell'esperienza della scienza.
Affinché risulti intelligibile la costituzione del vero nella scienza,
scienza che i suoi storici spesso si contentano di prendere come un fatto
dato nella propria storia, similmente a come i fossili trovati nei corsi
dei fiumi o nelle miniere sono dati ai paleontologi dalla storia della Terra,
è necessario che l'apparenza ed il falso ottengano dalla filosofia
uno statuto proprio, originale, uno statuto altrimenti che meramente repressivo
per infrazione dell'ordine del vero, altrimenti che punitivo per crimine
di lesa maestà scientifica. Il compito da eseguire ammonta nientemeno
che a rompere l'identità della realtà, della verità
e dell'essere. Esso comincia, per fare ciò, con il riconoscere la
superiorità filosofica del principio di non-contraddizione sul principio
d'identità. Il principio di non-contraddizione non è affatto
un principio vuoto, formale, tanto che l'oggetto della sua applicazione,
il campo della sua validità, non è stato formalizzato. Al
contrario, esso esprime il rapporto autentico tra il vero ed il falso, tra
il reale e l'apparente. Ponendo al giudizio l'obbligo di una scelta alternativa,
esso è l'indizio dell'identica forza di attrazione, seppur esercitata
in direzioni opposte, dei differenti termini soggetti ad opzione. È
in virtù dell'oblio dell'opzione da cui sorge che il principio d'identità
identifica la verità e l'essere. Husserl ha fatto notare che la presupposizione
"una volta per tutte" è implicitamente costitutiva dei
principii logici, e che uno stesso giudizio non può essere talvolta
vero talvolta falso, ma che è l'uno o l'altro una volta per tutte.
Non possiamo allora noi dire, a nostra volta, per quanto in modo diverso:
A è A significa che, se c'è A, non c'è mai stato altro
che A? Ciò di cui il discorso mira a dire ciò che è,
non è affetto dal tempo del discorso, che si tratti del discorso
di uno solo o di cento messi in fila, che si tratti di Evariste Galois o
di Bourbaki. Se nel corso del discorso si ritorna su ciò che, in
un momento passato, è stato affermato come l'essere di X, ciò
che X è, il giudizio fissa nuovamente la ragione positiva della negazione
dell'antico giudizio. "Il bastone non è spezzato" significa
"il bastone non è mai stato veramente spezzato". Ma dire
che il vero non è stato alterato dall'alterazione del discorso nella
sua storia -ciò che implica l'affermazione dell'identità a
sé del vero- equivale a riconoscere, aldifuori del vero e dell'identità,
una positività, dunque una potenza di alterazione, cioè a
dire, in rapporto al vero preso come parametro di riferimento, di falsificazione.
I principii logici, in quanto regole di polizia della conoscenza, in quanto
reattivi critici della falsificazione teorica, non sono dei fatti logici.
Essi non dipendono a loro volta dai criteri del vero e del falso. Perché
il vero non è una pro-posizione, ma una pre-sup-posizione normativa.
Per dire ciò che le cose sono, il principio di non-contraddizione
obbliga a decidere tra il vero ed il falso. Ma in nessun modo esso ordina
di scegliere tra il vero ed il falso. Esso enuncia una risoluzione possibile
del giudizio in favore del vero se il giudizio mira a costituire operativamente
un sapere di ciò che le cose sono. È in rapporto al sapere
sull'essere che questa risoluzione possibile prende la forma di proposizione
necessaria. Il principio di contraddizione non costringe alla costituzione
della scienza.
Di conseguenza, la logica dell'identità e della non-contraddizione
non ci è d'alcun aiuto per comprendere la possibilità di una
scelta altra rispetto a quella da cui deriva la scienza, né per giustificarla
attraverso ciò che ne deriva. Nell'ordine del vero è impossibile
ammettere l'altro-dal-vero altrimenti che come vano, illusorio, nullo. E
di contro, l'altro-dal-vero, che alimenta ciò che il vero esclude
come falso, non può vedersi attribuire l'essere, non può essere
detto, a voler parlare propriamente, un ordine. Il falso, il folle, sono
a discrezione, ma senza discernimento. Del prestigio, del valore delle differenze,
delle differenze dei valori, di tutto ciò che disdegna l'incolore
identità dell'essere con sé stesso, di tutto questo è
impossibile parlare come di un ordine. E perciò, è impossibile
parlare della Ragione come di un'essenza. Se si accorda uno statuto positivo
alla contro scienza, la Ragione non può essere che una disciplina.
Ma non è facile, quando si è amputato il pensiero logico da
ogni aderenza ontologica, continuare a dirsi razionalisti, cioè a
sostenere l'idea che non c'è verità se non quella scientifica
sostenendo, simultaneamente, i diritti dell'immaginario. Se Gaston Bachelard
è riuscito a dare l'esempio felice della tolleranza reciproca tra
"la coscienza della razionalità" e la "coscienza creatrice
del poeta", bisogna ancora constatare che egli è stato affatto
discreto sull'economia di tale riuscita. Questo successo non ci illumina
sulle condizioni della sua possibilità [1].
Al contrario, la filosofia di Nietzsche ci dà una teoria del partito
preso assiologico in favore della verità, una riabilitazione di ciò
che la logica ontologica, il razionalismo essenzialista o scientista chiamano
"errore". Ma se noi comprendiamo meglio ormai che la ricerca della
verità è l'effetto di una scelta che non esclude il proprio
contrario, noi non abbiamo risposte a tutte le difficoltà riguardanti
il fondamento della scienza in quanto discorso la cui storia attesta la
caparbia ostinazione nel proseguirsi, e le cui realizzazioni tecniche attestano
trattarsi del discorso della realtà.
Quali che siano le variazioni del pensiero di Nietzsche sul significato
della scienza, egli non ha mai smesso di considerare la verità come
un valore da collocare tra una pluralità di valori, e la scienza
come un'attività del vivente, senza privilegiare particolarmente
il giudizio del filosofo. La logica qui è intesa come una volontà
di trovare il vero, e quindi, in ultima istanza, come un espediente per
inventarlo. Gli assiomi della logica non esibiscono un criterio della verità;
essi sono degli imperativi ipotetici relativi a ciò che si ritiene
di dover considerare vero. Il pensiero logico non può funzionare
se non presupponendo dei miti, che sono l'essere, la sostanza, la cosa,
l'identità. Questi miti sono delle istituzioni di sicurezza vitale.
L'identità del vero è inventata, mediante la falsificazione
del reale, per la tranquillità del vivente, come reazione di difesa
preventiva contro l'imprevisto.
È la logica stessa che è errore. Ma non si tratta di un rovesciamento
dal pro al contro. Questo errore che è la logica non è affatto
un errore nel senso della logica. Altrimenti, Nietzsche avrebbe orientato
la propria filosofia secondo l'ago magnetico della logica stessa. Al contrario,
egli ha situato la logica, nella propria filosofia, al seguito della rosa
dei venti della vita. La verità è una specie di errore, nel
senso di illusione vitale, senza la quale una certa specie di viventi, gli
uomini, non potrebbe vivere. Citare Nietzsche, su questo punto, è
più utile che parafrasarlo:<<I nostri organi, che servono la
vita, sono fatti in vista dell'errore ... La vita è la condizione
della conoscenza. L'errore è la condizione della vita, voglio dire
l'errore fondamentale ... Dobbiamo amare ed aver cura dell'errore, esso
è la matrice della conoscenza. ... Se è vero che noi viviamo
grazie all'errore, cosa può essere allora la "volontà
di sapere"? Non dovrebbe essere la "volontà di morire"?>>[2]. Interroghiamoci, allora. Che cos'è
infine questo vivente che non può vivere senza commettere, dietro
il nome di conoscenza e di ricerca della verità, l'errore - vale
a dire la colpa nei riguardi della vita- di denunciare e ridurre ad illusione
la condizione stessa della vita? L'errore avrebbe dunque la sua radice nel
conflitto della vita e della morte, della potenza e della conservazione,
del rischio e della sicurezza. Il sapere, ansioso di fissasi ad un oggetto
stabile, identico a sé, sarebbe paura, non della morte, ma della
vita nella misura in cui essa è potenza, lotta, invenzione, rischio
e sofferenza. La conoscenza, negazione della vita, essa stessa condizione
della conoscenza, sarebbe dunque una perversione della vita, o forse soltanto
un'espressione della sua fatica. Ma, in questo caso, bisogna cercare la
ragione di questa fatica, di questa caduta delle ambizioni della vita. Nietzsche
ha letto ed amato Schopenhauer che aveva letto ed amato Bichat e meditato
sulla celebre definizione: "La vita è l'insieme delle funzioni
che resistono alla morte". Di questa definizione così spesso
criticata, ed altrettanto spesso ripresa in altri termini -ivi compresi
il linguaggio della termodinamica e recentemente quello della teoria dell'informazione-
si è sempre trascurato di accorgersi di un fatto: nel 1800 essa si
presentava come la confutazione di una filosofia della medicina esposta
dal celebre scozzese John Brown nei suoi Elementi di medicina (1780)[3]. Colui che definiva la vita attraverso
l' eccitabilità, e divideva le malattie in steniche ed asteniche,
secondo l'eccesso od il difetto degli stimolanti vitali, ha scritto: <<Dopo
tutto ciò che ho già dettofin qui è un punto fermo
che la vita è uno stato forzato; che ad ogni istante tutti gli esseri
viventi tendono alla propria distruzione; che essi non si garantiscono l'esistenza
se non con pena, per poco tempo, e mediante il soccorso di potenze estranee,
e che infine essi muoiono soccombendo ad una fatale necessità>>[4].
Secondo Nietzsche la vita non è uno stato forzato, essa è
la forza stessa, forza che l'ascetismo tenta di rivolgere contro se stessa,
forza di oltrepassamento di sé che la scienza si sforza di contenere
subordinandola alla finzione dell'identità dell'essere. <<Anche
secondo una considerazione fisiologica, la scienza riposa sullo stesso terreno
dell'ideale ascetico: l'uno e l'altra presuppongono un certo impoverimento
dell'energia vitale>>[5].
Se la vita non fosse che vita, forza, volontà di potenza, la sua
caduta di tensione sarebbe inintelligibile. Se la vita contiene la propria
limitazione, perché la scienza che ne fa la teoria, prendendola ad
oggetto, non sarebbe altro che un "errore" della vita? Perché
la scienza, figlia della paura della vita, non potrebbe essere, come determinazione
dei limiti della vita, accettata dalla vita ed utilizzata coraggiosamente
dalla vita?Che cosa è mai un potere privo di lucidità sui
suoi propri limiti?
In ultima analisi, la teoria dell'errore secondo Nietzsche è debitrice,
più di quanto sembrasse all'inizio, del dualismo classico. Descartes
attribuiva all'errore un significato soltanto negativo, perché egli
non concepiva la Ragione come una disciplina. Ma Nietzsche, attribuendo
all'indisciplina del non-razionale il nome di errore, non arriva ad attribuire
alla verità un significato positivo. Secondo lui l'intelletto oltrepassa
la volontà di attenersi alle sole apparenze. Descartes non poteva
produrre una teoria della creazione. Nietzsche non arriva a produrre una
teoria della scienza, che è anche una teoria dell'apparenza.
<<Eraclito avrà ragione in eterno nell'affermare che il mondo
è una vuota finzione. Il mondo "apparente" è il
solo reale: il "mondo-verità" è solamente ]aggiunto
dalla menzogna>>[6]. <<Il
mondo-verità noi l'abbiamo abolito: quale mondo ci è restato?
Il mondo delle apparenze forse?... Ma no! Con il mondo-verità
abbiamo abolito anche il mondo delle apparenze>>[7].