Rintracciare nella storia della filosofia le posizioni di esplicito ateismo
- cioè di negazione dell'esistenza di entità "divine",
trascendenti l'uomo - ridurrebbe molto drasticamente i punti di riferimento
del pensiero laico. Nella filosofia antica troveremmo solo alcuni
sofisti (Diagora di Melo, Crizia, Protagora) e dovremmo escludere un personaggio
della grandezza di Epicuro, che non nega gli dei ma li "disinnesca"
completamente, sostenendo che l'uomo deve agire come se non ci fossero.
Dovremmo poi saltare a piè pari non solo la filosofia medievale
- poco male, visto che è completamente cristiano-teocentrica - ma
anche la filosofia moderna, e con essa gli sviluppi scientifici (la
"rivoluzione copernicana", Galilei) e il razionalismo (Cartesio
e soprattutto Spinoza): a quei tempi chi avesse fatto esplicita professione
di ateismo sarebbe finito arrosto come Giordano Bruno, o in galera fino
all'auto da fé, perciò, come ebbe a dire Cartesio, "i
filosofi procedevano mascherati". Bisogna arrivare all'illuminismo
per trovare posizioni di ateismo conclamate, e in autori (La Mettrie, Helvétius)
che non esauriscono la portata di questo movimento di pensiero. Nella filosofia
contemporanea dovremmo accontentarci di alcuni esponenti della sinistra
hegeliana (Feuerbach, Marx) e dei seguaci del positivismo più radicali
(soprattutto Comte, ma anche l'italiano Ardigò), poiché molti
abbracciano un agnosticismo davvero troppo cauto (Spencer, Du Bois-Reymond).
Ritengo perciò più interessante individuare i punti alti del
pensiero materialista, indicando con questo termine le concezioni
che, da un lato, escludono l'esistenza di sostanze spirituali; dall'altro,
evitano spiegazioni finalistiche o provvidenzialistiche del mondo
e della storia. Impostazioni di questo tipo implicano, direi quasi senza
eccezioni, una teoria della conoscenza razionalista e un'etica edonista.
In questa definizione del materialismo seguo (in parte) le indicazioni del
filosofo francese Louis Althusser. Il mio primo consiglio di lettura è
un testo di questo autore, che propone - nella forma di una lunga intervista
- una lettura della storia della filosofia come scontro reiterato tra due
principali tendenze, quella idealista e quella materialista: L. Althusser,
Sulla filosofia, UNICOPLI, Milano 2001. Dello stesso autore consiglio
anche il saggio La corrente sotterranea del materialismo dell'incontro,
in L. Althusser, Sul materialismo aleatorio, UNICOPLI, Milano 2000.
Il capostipite del materialismo come sopra definito è senza dubbio
Epicuro. Di ciò che è rimasto di questo autore - poco amato
dalle culture ufficiali, dunque poco conservato per i posteri - è
uscita recentemente un'edizione economica: Epicuro, Opere, frammenti,
testimonianze, Laterza 2003. L'ottima introduzione di Gabriele Giannantoni
orienta molto bene la lettura, che può essere affrontata anche dai
non addetti ai lavori. Molto opportunamente Giannantoni espone l'atomismo
epicureo sottolineando come si tratti di una consapevole rielaborazione
di quello democriteo, finalizzata a evitare sia l'idealismo platonico (gli
atomi sono corporei, non riducibili a enti matematici o a punti geometrici),
sia il finalismo aristotelico (con la teoria del clinamen, la deviazione
casuale che dà origine all'aggregazione di atomi, il mondo viene
consegnato integralmente alla coppia caso/necessità). L'apparato
concettuale epicureo ha una completezza e una coerenza assolutamente all'altezza
della grande filosofia platonica e aristotelica. Come scrive Giannantoni
nell'introduzione (p. 24), "la grandezza di Epicuro [...] non sfigura
al confronto con quella di un Platone e di un Aristotele, cioè quei
sommi pensatori contro cui instancabilmente si indirizzò la sua polemica.
Per questo la sua lettura può esser ancora oggi un riferimento essenziale
[...]. All'idea che il mondo non abbia valore di per sé ma in un
fine che lo trascende [...], Epicuro oppone il suo meccanicismo ed il suo
'materialismo', che altro non sono se non l'espressione di una alienazione
superata e di una realizzata conciliazione con la realtà; all'idea
che la vita umana non ha senso se non come 'preparazione alla morte' e che
comunque la sua destinazione è data dalla vita oltremondana, Epicuro
oppone il suo ideale di felicità tutta mondana; alla concezione della
scienza come contemplazione di verità eterne, Epicuro oppone quella
della scienza come progressivo strumento di liberazione dai timori e dalla
superstizione religiosa". Oltre alle opere di Epicuro, consiglio di
leggere il poema di Lucrezio De rerum natura (ne esiste un'edizione
economica della BUR), che rappresenta un'organica esposizione della filosofia
di Epicuro e insieme una sua appassionata difesa e divulgazione, e testimonia
la diffusione dell'epicureismo nel mondo latino nonostante l'ostilità
della cultura ufficiale romana (sono note le polemiche di Cicerone e Seneca
contro questa corrente di pensiero).
I nemici romani dell'epicureismo consegnarono ai secoli successivi una versione
riduttiva, se non decisamente falsata, dei contenuti teoretici della filosofia
di Epicuro, che la rese un facile bersaglio per i filosofi cristiani del
medioevo: per costoro, "epicureo" divenne mero sinonimo di ateo
e libertino. Ma dei filosofi cristiani, e dei loro acrobatici tentativi
di conciliare platonismo e aristotelismo con la rivelazione cristiana, poco
c'importa (personalmente dubito che "filosofia" sia un termine
appropriato per sistemi di pensiero di questo tipo). Dobbiamo arrivare alla
filosofia moderna, in parte preannunciata da Giordano Bruno, per veder riemergere
la "corrente sotterranea" (come la definisce Althusser) del materialismo.
E' abbastanza facile suggerire letture su questo affascinante periodo della
storia del pensiero, in cui si pongono le basi di quel razionalismo di cui
tutt'ora si alimenta la conoscenza scientifica. Un vero classico è
A. Koyré, Dal mondo chiuso all'universo infinito, Feltrinelli,
Milano 1970; dello stesso autore è appena uscita una raccolta
di brevi saggi, finora inediti in Italia, molto interessanti: A. Koyré,
Filosofia e storia delle scienze, Mimesis, Milano 2003. Koyré
mette a confronto due concezioni del mondo: quella medievale, di ispirazione
aristotelica, che propone un cosmo finito e ordinato secondo una gerarchia
di perfezione e di valore; e la nuova scienza, che propone un universo indefinito
o infinito, "unificato soltanto dall'identità delle sue leggi
e delle sue componenti ultime e fondamentali" (Dal mondo chiuso
all'universo infinito, p. 8). La sostituzione della nuova concezione
alla vecchia richiede "due azioni fondamentali e strettamente connesse":
"distruzione del cosmo e geometrizzazione dello spazio" (ivi).
Il "cosmo" è lo schema geocentrico e gerarchico della fisica
aristotelica (davvero ingenua - possiamo ben dirlo con il senno del poi
- se paragonata a quella epicurea), accettato dalla Chiesa a partire da
Tommaso d'Aquino che faceva corrispondere alla struttura gerarchizzata del
cosmo fisico un'analoga gerarchia concentrica del mondo spirituale. Un primo
duro colpo all'ordinato cosmo aristotelico-tomistico arriva da Copernico,
anche se dovremo aspettare Galilei per una formulazione più completa
e sperimentalmente supportata della nuova ipotesi eliocentrica; e sarà
soprattutto Cartesio a inserire queste scoperte entro le coordinate di uno
spazio infinito rappresentabile nei termini della geometria euclidea. Colpo
decisivo sul piano filosofico, oltre che su quello scientifico, perché
nell'universo infinito la terra non è più al centro dell'universo
e l'uomo non è più sotto l'occhio di dio. Perché mai
dio dovrebbe occuparsi dell'abitante di una palla di fango perduta nello
spazio? Per citare ancora Koyré: "Nel mondo cartesiano non c'è
sfera, né centro, né confini, né limiti, c'è
uno spazio infinito, vuoto, in cui non c'è nulla [...] se c'è
un dio, è talmente lontano che è poco probabile che questo
dio creatore capace di creare il mondo infinito si occupi di noi. L'uomo
perduto nell'immensità è un uomo che ha perduto dio, che cerca
di ritrovarlo, che non potrà più cercarlo nella natura e in
ogni caso mai così vicino come aveva fatto l'uomo medievale"
(Filosofia e storia delle scienze, p. 34).
Cartesio, tuttavia, non è materialista fino in fondo: nega il provvidenzialismo,
ma mantiene l'idea di una sostanza spirituale diversa dalla materia: un
dualismo tra res extensa e res cogitans, tra corpo e mente che solo Spinoza
riuscirà a ridurre, mettendo in più a segno un sistema per
"disinnescare" dio ancora più efficace di quello escogitato
da Epicuro. Spinoza non solo ribadisce che la causalità di dio è
solo efficiente, bollando ogni interpretazione finalistica del mondo come
illusione antropomorfica, ma fa coincidere dio col mondo. Deus sive natura:
dio viene completamente mondanizzato. La conoscenza di dio coincide con
la conoscenza della natura, la quale è un'unica sostanza di cui noi
conosciamo due attributi, l'estensione e il pensiero. Questo punto è
molto importante: non ci sono - come in Cartesio - due livelli di realtà,
uno spirituale e uno materiale, ma un'unica realtà che può
essere considerata sotto l'attributo dell'estensione o sotto l'attributo
del pensiero. Quando noi consideriamo l'uomo, ad esempio, parliamo di "corpo"
con riferimento all'attributo dell'estensione (considerandolo cioè
res extensa) e parliamo di "mente" con riferimento all'attributo
del pensiero (considerandolo cioè res cogitans): parliamo comunque
della stessa cosa. Niente anime immortali, dunque, visto che mente e corpo
coincidono; e di conseguenza - come in Epicuro - nessuna etica in vista
di una vita ultramondana, ma ricerca della felicità in questo mondo
sotto la guida della ragione. L'Etica di Spinoza - che espone "more
geometrico" la sua filosofia - non è di facile lettura; c'è
tuttavia una buona guida per chi voglia provarci: P. Cristofolini, Spinoza
per tutti, Feltrinelli, Milano 1993. Dello stesso autore consiglio
anche Spinoza edonista, Edizioni ETS, Pisa 2002. Nei saggi
raccolti in questo secondo libro, Cristofolini mostra la "differenza
tra due modelli di saggezza, l'uno, di ascendenza ciceroniano-virgiliana,
e successivamente cristiana, che pone nella paura (il timore del divino)
il proprio presupposto; l'altro, di ascendenza invece epicureo-lucreziana,
che parte dalla liberazione della paura [...]. Spinoza ci appare [...] il
più significativo rappresentante del [secondo] modello, di libertà
interamente umana" (p. 10).
Altra tappa fondamentale del pensiero laico è, naturalmente, l'illuminismo.
Come ho già anticipato, nemmeno tra i pensatori illuministi dobbiamo
aspettarci di trovare molte professioni esplicite di ateismo: ci sono in
Helvétius, La Mettrie (che non a caso si considera seguace di Epicuro),
d'Holbach (uno dei materialisti più appassionati, le cui posizioni
erano considerate estremistiche anche in ambiente illuministico) e Diderot.
Sceglierei proprio quest'ultimo autore per dare un'idea del pensiero illuminista
- cosa non facile, perché si tratta di un movimento eterogeneo, collocato
in un periodo storico in cui la specializzazione dei saperi comincia a erodere
la possibilità di "filosofie" che esprimano la summa del
sapere del tempo. D. Diderot, Interpretazione della natura, Editori
Riuniti, Roma 1995 è un insieme, a volte un po' caotico, di spunti,
considerazioni, congetture, dubbi che rende comunque l'idea del personaggio
che - per usare le parole dell'introduzione di Pietro Omodeo - "personifica
l'insurrezione filosofica [...] contro tutte le idee consunte, accettate
acriticamente, sorretta da una profonda onestà intellettuale, da
umiltà e candore esemplari, da una sincerità totale, disarmante,
terribilmente pericolosa ed eversiva" (p. 19). L'introduzione di Omodeo
ha inoltre il vantaggio di delineare il clima culturale dell'epoca: nella
prima metà del settecento la fisica di Cartesio veniva sostituita
da quella di Newton, e contemporaneamente la filosofia cartesiana veniva
finalmente accettata dalla Chiesa (nella versione cristianizzata di Malebranche)
che, visto il dilagare del razionalismo, si attaccava al dualismo corpo/mente
per salvare almeno l'anima. Di qui la conversione al monismo materialistico
di una parte del pensiero illuminista, ben rappresentata da Diderot. Sono
inoltre ben presenti le prime ipotesi evoluzioniste, che stavano prendendo
piede nella biologia dell'epoca, e che Diderot gioca soprattutto in senso
anticreazionistico. Giustamente Omodeo fa notare la cautela di Diderot nel
formulare la sua concezione evoluzionista, per cui la "pone al riparo
di uno schermo di brillante autoironia" (p. 15); la sua drastica avversione
per le cause finali (si vedano le considerazioni alle pp. 84-86) gli evita,
inoltre, la facile trappola di una formulazione teleologica dell'ipotesi
evoluzionista.
Il pensiero illuminista (con la rilevante eccezione di Voltaire) non rinuncia
tuttavia a interpretare in modo teleologico la storia, leggendola in chiave
di "progresso", come sviluppo unilineare dell'umanità.
Questo atteggiamento si ritrova anche in buona parte del positivismo, che
a volte reintroduce il finalismo anche nel campo della biologia (ad esempio,
con Spencer), mostrando di non cogliere fino in fondo la lezione di Darwin.
Esiste un aureo libretto - temo non facile da trovare - che espone in modo
chiaro e molto completo il tormentato itinerario del movimento positivista,
ancora più disperso e differenziato dell'illuminismo a causa della
sempre più accentuata specializzazione delle scienze: F. Vidoni,
Il positivismo, Morano Editore, Napoli 1993. Secondo Vidoni,
un'istanza fondamentale del positivismo "è quella della ricerca
di una concezione del mondo alimentata da una filosofia che non sia più
astratta e speculativa, ma si configuri come riflessione che tiene conto
dei saperi concreti elaborati via via dalle discipline scientifiche, riguardanti
tanto la natura che l'uomo [...]. Istanze del genere mantengono attualità
anche se l'etichetta 'positivismo', come tale, non ha più molto corso
sul mercato delle idee" (p. 183).
Se il positivismo non è stato all'altezza di Darwin, il marxismo
non è stato all'altezza di Marx: secondo Althusser, in Marx ci sono
rilevanti tracce di una concezione della storia "scientifica"
perché non teleologica, tracce che sono state del tutto cancellate
dal marxismo successivo (a partire da Engels), sostenitore di una "filosofia
della storia" finalistica, di stampo hegeliano: una storia provvidenziale
che conduce al "paradiso" del comunismo e che rischia, in effetti,
di diventare una sorta di religione laica. Per chi voglia accostarsi a Marx,
consiglio perciò un testo di un allievo di Althusser: E. Balibar,
La filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 2001. L'autore sa ben
distinguere il pensiero di Marx dalle vulgate che hanno fatto del marxismo
una inaccettabile via di mezzo tra una "pseudo-scienza" e una
"quasi-religione".
Maria Turchetto