Un'immaginaria resa dei conti: Althusser, Marx e il Partito Comunista Francese*

di Giovanni Di Benedetto

 

Credo che nessun’altra organizzazione in Francia potesse allora offrire a dei militanti sinceri una formazione e un’esperienza politico-pratiche paragonabili a quelle che si potevano acquisire con una presenza militante abbastanza lunga all’interno del Partito. (…) Non ho mai scritto nulla, né fatto campagne pubbliche o private, per convincere chicchessia a restare nel Partito, e mai, né in pubblico né in privato, ho sconfessato o condannato coloro i quali lo lasciavano o volevano lasciarlo. Ciascuno decida secondo coscienza: tale era la mia regola d’azione. Forse non avevo buone ragioni personali per restare o non ne avevo di così buone per uscirne: fatto sta che sono rimasto; tutti i miei scritti, però, mostravano abbastanza chiaramente che, sulle questioni fondamentali, sia filosofiche, sia politiche e ideologiche, come sulle questioni di linea (si veda Sul XXII° Congresso), sui principi pratici di organizzazione e sulle pratiche insensate del Partito, io non ero d’accordo. Ed ero il solo, proprio il solo a dirlo apertamente in seno allo stesso Partito, e a portare avanti una linea di opposizione interna: bisognava farlo! Io l’ho fatto. (L. Althusser, L’avvenire dura a lungo)[1]

 

Louis Althusser è stato membro del Partito Comunista Francese dal 1948 al 1980. È noto che il suo impegno teorico si è caratterizzato per il tentativo costante di entrare in connessione con l’attivismo militante e la partecipazione e l’intervento nella pratica politica. Del resto, secondo Althusser, il concetto stesso di pratica teorica non riguarda soltanto il problema del rapporto tra teoria e prassi ma va oltre, afferendo al tentativo di garantire alla teoria una carattere effettuale, ossia pratico e materialistico. Ma l’appartenenza al PCF si è anche sempre contraddistinta per la espressione di uno spirito critico che molto spesso lo ha portato a sostenere e rivendicare un esplicito dissenso nei confronti del gruppo dirigente comunista. Già nella sua autobiografia, L’avvenire dura a lungo, il filosofo aveva dato voce al difficile compito di legare insieme la propria partecipazione e adesione al partito con l’esercizio di un’intelligenza critica mai passiva di fronte alle decisioni del proprio gruppo dirigente. Ma adesso, a testimoniare questo legame, militante, critico e libero al tempo stesso, contribuisce la pubblicazione di un suo libro postumo, a cura dell’Associazione Culturale Louis Althusser, intitolato Le vacche nere, intervista immaginaria (il disagio del XXII Congresso), Mimesis, 2018[2].  

Senza volere approfondire l’analisi del contesto storico nel quale si situa l’elaborazione del testo, è il caso di ricordare che a metà degli anni ’70 le divergenze tra il PCUS dell’Unione Sovietica e i partiti comunisti dell’Occidente si fanno sempre più esplicite, sono divergenze che rimandano alla persistenza in Unione Sovietica, a dispetto delle ammissioni del XX Congresso del 1956 sui crimini di Stalin, di un clima politico asfittico e di pratiche repressive, ma che riguardano anche il tentativo, da parte dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, di individuare e percorrere una via al socialismo differente da quella sperimentata nei paesi del Patto di Varsavia. Nonostante la divisione in seno al movimento comunista internazionale, a seguito della rottura tra URSS e Repubblica Popolare Cinese, e dopo l’invasione da parte dei carri armati sovietici della Cecoslovacchia, sembrava comunque ancora possibile che i movimenti di massa popolari e di classe potessero essere in grado di esercitare una pressione tale da prefigurare l’eventuale transizione pacifica e democratica al socialismo. In questo quadro l’impresa althusseriana avrebbe avuto, quale obiettivo politico, quello di formulare le condizioni teoriche e filosofiche adeguate ad una rielaborazione rivoluzionaria del comunismo.

È in questo contesto storico che nel Febbraio del 1976 si svolge in Francia il XXII Congresso del PCF, con ogni probabilità uno dei partiti più dogmatici tra i partiti comunisti dell’Europa occidentale. Si tratta di un momento di svolta decisivo, di portata storica, come lo definisce la stampa internazionale, perché il Congresso delibera la mutazione all’italiana di un partito sino ad allora di stretta osservanza staliniana e l’abbandono del concetto della dittatura del proletariato. La decisione del partito diventa per Althusser un’occasione importante per intervenire, per così dire, nella congiuntura, attraverso la stesura di un libro intervista nel quale si denunciano i limiti teorici e di pratica politica che si sono tradotti nelle decisioni del gruppo dirigente comunista, afflitto da manchevolezze e lacune che lo costringono a rimanere nell’ambito degli effetti retorici e dell’agitazione politica senza avvenire[3]. In realtà, il filosofo francese deciderà, a un certo punto, di non pubblicare la sua autointervista, che vedrà la luce solo più di quaranta anni dopo grazie al meritorio lavoro editoriale di G. M. Goshgarian. La mancata pubblicazione del manoscritto protrarrà a un momento successivo, che peraltro non avrà mai luogo, la resa dei conti con la dirigenza del PCF. Tuttavia, il testo, che è coevo peraltro ad alcune esternazioni pubbliche del suo autore (si vedano l’intervento alla fiera del libro marxista alla Bastiglia nel mese di Aprile del 1976, la conferenza sulla dittatura del proletariato a Barcellona nel mese di Luglio e la conferenza alla Sorbona del Dicembre di quello stesso anno presso l’Unione degli studenti comunisti), rimane una lucida testimonianza del modo in cui il filosofo prende esplicita posizione contestando le decisioni assunte dal Congresso.

Il ragionamento di Althusser è ricco di argomentazioni che, pur muovendosi su livelli molteplici, sono riconducibili, in estrema sintesi, ad alcune questioni che, per il lettore del tempo presente, possono rivelarsi particolarmente stimolanti. Il punto è che Althusser, con una straordinaria lungimiranza e una non comune preveggenza, coglie i rischi connessi a un’operazione di profonda mutazione della concezione politica dei comunisti e dello strumento che dovrebbe esprimerla, ossia il partito, una svolta di linea politica che rischia di non cogliere la vera natura dei problemi e che finisce, quindi, per risolverli offrendo soluzioni inadeguate. Inoltre, all’intervistatore immaginario che lo sollecita con le sue domande, Althusser mette in chiaro che il PCF, attraverso una grande operazione mediatica, ha voluto abbandonare concetti che evocavano lo stalinismo utilizzando, tuttavia, per indurre il XXII Congresso a votare all’unanimità questo abbandono, metodi politici staliniani. È, per l’appunto, il grande paradosso del XXII Congresso: liberare il concetto di dittatura del proletariato dalle associazioni storiche e politiche riconducibili alla dittatura stalinista significa, paradossalmente, liquidare la possibilità di utilizzarne il concetto stesso. Il rischio è che, operando una sorta di rimozione della natura contraddittoria del socialismo, da intendere come momento storico che segna il passaggio dal capitalismo al comunismo, possa venire a mancare la prospettiva stessa del comunismo.

E per finire, il XXII Congresso ha sancito la dismissione di un altro concetto, quello di “centralismo democratico”, concetto che rimanda al problema dei rapporti tra l’organizzazione (il partito) e le masse di cui dovrebbe farsi espressione, rapporti che, al contrario, sono sempre più lacerati e deteriorati. Insomma, si tratta di questioni che costringono Althusser a evidenziare la crisi della teoria marxista e la necessità di imboccare percorsi teorici in grado di superare falsi dogmatismi e di emancipare le istanze di liberazione dalla minaccia di essere sussunte all’interno dell’ideologia dominante, e assorbite, in primo luogo, da quella formazione teorica, l’economia politica, che rappresenta il luogo nel quale si impianta il punto di vista della lotta di classe ideologica borghese.

A diversi decenni di distanza da quell’evento e, soprattutto, dopo il crollo del socialismo reale tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 del secolo scorso, ma anche a più di dieci anni di distanza dallo scoppio di una crisi economica globale da cui ancora si stenta a uscire, le questioni poste dal filosofo marxista si rivelano, nella loro apparente inattualità, una risorsa singolare, oltreché preziosa, per tornare a ragionare dell’efficacia teorica della critica dell’economia politica e dell’immenso lascito dell’opera speculativa e pratica di Marx. Sebbene provata da un percorso aspro, irregolare e accidentato, la fecondità dell’immensa sapienza pratico-teorica di Althusser torna a provocare il tempo presente. Certo, è una sfida che, come ricorda André Tosel, “si realizza sotto il segno di un doppio lutto delle forme d’esperienza assunte dai movimenti antisistema: innanzitutto il lutto del movimento operaio, l’unico che in tutte le sue varianti, social-democratiche o comuniste, abbia avuto un’esistenza durevole nella modernità; e, legato a questo, il lutto del movimento anticolonialista e anti-imperialista che a sua volta nel comunismo aveva trovato sostegno”[4]. Tuttavia, a quasi venti anni dall’inizio del nuovo millennio, pare giunto il momento in cui, attraverso le considerazioni presenti ne Le vacche nere, può diventare legittimo tornare a interrogare l’eredità teorica del filosofo francese e chiedersi cosa può significare oggi la ricostruzione di una cultura politica derivante dalla militanza in un’organizzazione politica, in cosa si può concretizzare l’attivismo politico e cosa può rappresentare, inoltre, l’orizzonte teorico che rimanda alla lotta per il comunismo.

 

LA CRISI DELLA TEORIA MARXISTA

 

«Non raccontarsi storie», questa formula resta per me la sola definizione del materialismo; e tentare, «pensando da me» (espressione di Kant ripresa da Marx), di rendere il pensiero di Marx chiaro e coerente a tutti i lettori di buona fede e con esigenze teoriche. (L. Althusser, L’avvenire dura a lungo)[5].

 

Althusser prova a analizzare, al di là delle superficiali rappresentazioni propagandistiche che raffigurano Stalin come un autocrate sanguinario, come se tutto potesse essere idealisticamente ridotto alla psicologia di un uomo, la natura profonda dello stalinismo. Esso si configura come una caricatura odiosa della dittatura del proletariato e risulta essere agli antipodi di quel mondo liberato dallo sfruttamento che ci si attendeva dopo gli eventi della rivoluzione del ‘17. È la grande delusione sovietica:

ciò che le stesse masse popolari attendevano, nella loro immensa speranza, da un mondo liberato dallo sfruttamento e dall’oppressione di classe, dalla “patria del socialismo”, cioè dall’URSS, è evidentemente ben altro che il regime di terrore e di sterminio di massa del periodo staliniano – e anche ben altro, malgrado gli immensi vantaggi sociali acquisiti, che le forme della repressione politica ed ideologica attuali. La grande assenza era questa ragione, la grande delusione sovietica[6].

La dittatura di Stalin, si diceva, come “caricatura odiosa di un principio scientifico essenziale: quello della dittatura del proletariato”[7]. Eppure, secondo Althusser la dittatura del proletariato era indispensabile alla lotta di classe operaia e avrebbe dovuto tradursi nella democrazia di massa la più ampia possibile, piuttosto che degenerare in forme dispotiche e repressive aventi come obiettivo principale l’assoggettamento delle masse popolari. Da questo fatale ribaltamento che appare come una sorta di atroce eterogenesi dei fini è scaturita la caotica assimilazione del concetto della dittatura del proletariato alla deviazione staliniana.

Ne è risultata un’estrema difficoltà di separare la dittatura del proletariato dalle sue forme degenerate, un’estrema difficoltà di difendere la dittatura del proletariato in quanto principio essenziale della teoria marxista. Il XXII Congresso ha subito anche lui questa difficoltà. Non potendo analizzare le condizioni della degenerazione della dittatura del proletariato nella deviazione staliniana, esso non ha saputo risolversi ad affrontare la difficoltà, e, gettando il bambino con l’acqua sporca, ha abbandonato la dittatura del proletariato per indicare che abbandonava in tal modo per sempre le sue forme staliniane[8].

Althusser, a rischio di apparire quale fedele custode dell’ortodossia, approfondisce una posizione nella quale si affastellano elementi di estrema ambiguità. Le decisioni del Congresso, infatti, nascondono, al contempo, fattori negativi e fattori positivi. Per un verso, l’abbandono del concetto di dittatura del proletariato non si misura con la difficoltà reale consistente nella contemporanea persistenza di pratiche autoritarie e repressive in URSS e di logiche di potere gerarchico tutt’altro che democratiche all’interno del partito, elementi questi di cui si consente la sopravvivenza, rinunciando, peraltro, ad un concetto scientifico essenziale alla lotta di classe proletaria. Tuttavia, per l’altro verso, è proprio a partire da questa ambiguità che il partito si decide a condannare irrevocabilmente, anche se non esplicitamente, proprio quell’altra realtà stalinista che non vuole più legittimare. Come se in Althusser si coagulasse drammaticamente un antagonismo permanente tra la rivendicazione del diritto di potere avanzare liberamente le proprie convinzioni critiche e l’ascolto nei confronti di qualsiasi riflessione possa fungere da attenuante per le posizioni pratiche e teoriche assunte dagli organismi dirigenti del partito.     

Come si è detto, ciò che preme ad Althusser è il tentativo di dissociare la dittatura del proletariato dalle pratiche staliniane e liberare così il concetto di dittatura del proletariato dalla pesantissima ipoteca storica e politica che pesa su di lui da quarant’anni[9]. Il ragionamento è, come sempre in Althusser, più complesso di quello che può sembrare in apparenza. Perché liberarsi da questa ipoteca comporta anche la necessità di fare i conti con la questione politica delle forme economiche, sociali, politiche e ideologiche assunte dalla realizzazione concreta della dittatura del proletariato nella storia del movimento operaio, e non solo nell’URSS di Lenin e Stalin. Da questa prospettiva, la resa dei conti con lo svolgimento storico è stata impietosa, di fronte ad esso non resta che riconoscere l’esistenza di falle teoriche che rimandano alla crisi del marxismo.

 La storia tirerà forse un giorno le sue somme, e farà forse apparire le cause più remote della realtà in cui siamo obbligati a vivere, per il semplice motivo che l’abbiamo ereditata senza chiederlo. Ma non possiamo aspettare che la storia tiri le sue somme, e non sappiamo nemmeno se  verrà il giorno in cui gli storici ne avranno la possibilità o la voglia. Dobbiamo cavarcela con i nostri mezzi, e non abbiamo scelta. Possiamo certo dire e scrivere, certi di non sbagliarci, che la deviazione staliniana, evoluzionista, economicista, e volontarista-umanista, è la causa prossima della nostra lacuna teorica, poiché questa causa è sotto gli occhi di tutti, ma perché la deviazione staliniana e che data attribuirle?[10]

Non c’è possibilità di scelta, scrive Althusser, occorre cavarsela da soli, con coraggio e onestà intellettuale. Lo stalinismo ha avuto effetti devastanti che hanno provocato la morte di milioni di vittime e l’uccisione di quelle idee che associavano i concetti di dittatura del proletariato e di comunismo ai temi della liberazione e dell’emancipazione. Tuttavia, se la crisi della teoria marxista rimanda alla deviazione staliniana, quest’ultima si rivela essere erede della scolastica del marxismo della Seconda Internazionale, si rivela cioè irretita da quei motivi dell’ideologia dominante che si sarebbero voluti combattere e, dunque, impregnata di quei tratti dell’ideologia borghese che, nella lotta teorica, hanno preso il sopravvento.

Ho detto a sufficienza che il marxismo poteva essere praticato da certi marxisti e anche da certi comunisti su posizioni borghesi, che il marxismo poteva essere dominato dall’ideologia borghese, o anche (vedi gli esempi “revisionisti” della Seconda internazionale) investito, sotto la maschera del suo stesso vocabolario, dall’ideologia borghese, e ho detto ciò sulla base stessa della teoria e del pensiero di Marx e Lenin, affinché i comunisti ne riconoscano almeno la possibilità[11].

                Tutto questo è reso possibile dal fatto che lo statuto della scienza (e il marxismo è una scienza) non insiste su un terreno di presunta oggettiva neutralità ma è sempre invischiato con le dinamiche e le tendenze dominanti del mondo reale, con le sue combinazioni entro la sfera della produzione e dell’economia e con i suoi incastri entro la sfera della politica e dell’ideologia. Le parole di Althusser, al riguardo, sono estremamente chiare e significative, esse esplicitano il fatto che non c’è scienza al mondo portatrice di una pura verità al riparo da qualsiasi tipo di influenza: è così che i traguardi conseguiti dalla teoria marxista rischiano di trovarsi in balia del pensiero dominante.

Nessuna scienza al mondo esiste in una dimensione protetta da ogni influenza, al riparo dalle ideologie, da cui sarebbe tutelata dal privilegio della sua scientificità, ossia dalla purezza della sua verità. Ogni scienza esiste nel mondo reale, che è il mondo della lotta di classe economica, politica e ideologica. Ogni scienza nasce da questo mondo, in cui le pratiche della produzione, della politica, dell’ideologia e della filosofia si combinano in incontri specifici che forniscono l’occasione alle conoscenze. (…) Ed è così che (…) i risultati delle diverse scienze in un momento preciso si trovano sempre più o meno (secondo le scienze in una data congiuntura) alla mercé dell’ideologia dominante, che se ne impadronisce per far loro dire, non ciò che esse dicono, ma ciò che deve far loro dire per funzionare come ideologia dominante[12].

                Per riuscire a evitare il rischio di essere riassorbiti nel gorgo del pensiero borghese, reiterando la “sclerosi inflitta alla teoria marxista”[13], bisogna innanzitutto avere il coraggio di “allargare il campo aperto dalla scoperta di Marx”[14], ossia occorre avere il coraggio di pensare da sé. E avere il coraggio di pensare da sé significa farsi carico della possibilità che la teoria marxista contenga delle sviste e degli abbagli. In fondo, l’errore testimonia il tentativo di far procedere in avanti la teoria marxista provando a dire cose vere che possano investire direttamente la pratica.

Anche Gramsci ha detto delle stupidaggini, come chiunque altro, in primis Marx, e come Engels, e come Lenin, e come Mao. Non esiste alcuna scienza al mondo i cui praticanti siano esenti dal proferire errori. E sia reso grazie a loro per i loro errori, soprattutto quando sono sistematici, poiché provano che loro cercavano sulla base di concetti rigorosi, e che si sbaglia solo chi ha il coraggio di cercare, cioè di pensare. Di “pensare da sé”, come diceva Marx per definire i lettori che voleva per Il Capitale[15].

Il pensare da sé comporta, si potrebbe dire, un doppio movimento. Allargare il campo aperto dalla scoperta di Marx, dentro la crisi, significa, da una parte, declinare lo sforzo filosofico e conoscitivo nella direzione di una lucida decostruzione della teoria marxista, ritenendo possibile l’apporto di altre discipline e di altri saperi. Il marxismo dimostra così di essere aperto alla propria trasformazione e di essere disponibile a entrare in relazione con elementi, a cominciare dalla psicoanalisi, che non sono direttamente riconducibili alla propria tradizione. A esemplificare questa posizione metodologica viene in soccorso un aneddoto di Fernanda Navarro, autrice insieme a Althusser del libro intervista Sulla filosofia[16], che ricorda di avergli domandato la ragione del suo appoggiarsi, nell’elaborazione della sua riflessione, a filosofi non marxisti. La risposta fu che quegli autori, Bachelard, Foucault, Lacan, per citarne solo alcuni, aprivano l’orizzonte del pensiero estraneo al dogma[17].

Dall’altra parte, pensare da sé significa anche la necessità di custodire gelosamente l’apparato categoriale della teoria marxista, anche quando questa necessità sembra essere sopravanzata dalla decisione di parlare il linguaggio di tutti. La determinazione contraddittoria di queste istanze teoriche, apparentemente contrapposte, precipita nell’assunzione di un punto di osservazione e ricerca teorica che sembra situarsi sempre al limite del pensiero e della teoria, nel tentativo di fare i conti, all’interno del modo di produzione capitalistico, con l’imprevedibilità delle azioni degli attori dei processi storici.   

In questa chiave va interpretata, a parere di chi scrive, la riflessione althusseriana sull’opportunità di dotarsi, si potrebbe dire, di un approccio comunicativo alla portata di tutti. Althusser rileva, a proposito del documento sottoposto ai militanti del Comitato centrale del PCF in occasione del XXII Congresso, che esso è inemendabile, perché destinato a rivolgersi direttamente ai francesi, scavalcando il punto di vista dei militanti comunisti. A partire da questa constatazione, il filosofo francese sviluppa un ragionamento che si fonda sulla consapevolezza che il linguaggio concettuale della teoria marxista, anche se non coincide con il linguaggio di tutti, rappresenta tutta la forza dei comunisti, perché permette loro di assumere un punto di vista autonomo da quello dell’ideologia dominante, in grado di essere fecondo perché capace di analizzare una situazione di lotta di classe.

La decisione di parlare il “linguaggio di tutti” non è per nulla indifferente alla questione che si discute qui. Poiché appunto, i comunisti, se devono parlare “il linguaggio di tutti” per essere compresi dalle masse, devono ricorrere anche ai concetti della loro teoria scientifica. E perciò stesso essi parlano al tempo stesso anche un altro linguaggio, il linguaggio della loro teoria scientifica, che non “tutti” comprendono o accettano. Nei circoli borghesi e soprattutto socialdemocratici si rimprovera loro già abbastanza spesso il loro “gergo”. Ma tutta la forza dei comunisti (che non dispongono di alcuna altra forza al mondo) viene dal fatto di avere una dottrina scientifica, e di servirsene per analizzare la situazione della lotta di classe. Poiché nessun’altra dottrina scientifica all’infuori della teoria scientifica della lotta di classe permette evidentemente di analizzare una situazione di lotta di classe. E per servirsi della loro teoria, i comunisti sono certo costretti a servirsi del linguaggio concettuale di questa teoria, il quale non coincide, ancora una volta, con il “linguaggio di tutti”. Altrimenti i comunisti sarebbero sottomessi alle “evidenze”, cioè ai pregiudizi, dell’ideologia dominante, che è borghese[18].

                Althusser sostiene che occorre avere la consapevolezza che anche le parole e il loro uso non sono mai neutri. Il che è coerente, per inciso, con il convincimento che la stessa filosofia non trascende in nessun modo il proprio campo di intervento, come se operasse in una sorta di spazio vuoto immunizzata rispetto alle influenze del contesto storico[19]. Se da un lato parlare il linguaggio di tutti può rispondere al bisogno di intercettare comunicativamente un pubblico quanto più ampio possibile, dall’altro lato, pur mantenendo l’esigenza di semplicità, cercando di dire cose vere che abbiano un’immediata ricaduta nella pratica[20], i comunisti devono sapere che le parole sono sempre parte indissolubile di una pratica teorica o politica storiche. Esse non possono essere trattate indipendentemente dalla pratica con cui fanno corpo. Da questo punto di vista, sostiene Althusser, le parole diventano forze, assumono una loro materialità cosale e dinamica, rivestono una loro realtà oggettiva che non è più possibile ridurre a mera forma verbale. Tutto questo vuol dire che, a  partire da un dato momento storico, le parole, e le idee da esse designate, diventano un’unica forza storica. Occorre sapere, dunque, che nella lotta teorica e pratica anche l’impiego di un certo tipo di linguaggio è oggetto di una contesa: tale uso configura, infatti, un campo di battaglia nel quale si scontrano interessi differenti e contraddittori. Il senso e il significato delle parole sono anch’essi storicamente determinati e rimandano alla necessità, a seconda dei casi e degli interessi di cui si è portatori, di tradire provocatoriamente o seguire in modo subalterno le trasformazioni delle condizioni storiche e politiche. È certo che a queste non può non corrispondere un mutamento dell’uso stesso delle parole. Il punto è se questa trasformazione, conseguente allo svolgimento del processo storico, va nella direzione della costituzione di un punto di vista autonomo rispetto a quello esercitato, e trasmesso come ovvio e naturale, dai dominanti.       

                Ed è proprio sulla base di queste considerazioni che è forse possibile ritornare a ragionare, oltrepassando però la caricatura staliniana che ne è stata fatta, dell’abolizione del concetto di dittatura del proletariato. Secondo Althusser, Marx si pone il problema, ed è un problema di parole, di dovere esprimere il potere assoluto dispiegato dalla classe dominante. È qui che interviene la necessità di elaborare, facendo violenza al linguaggio, il concetto di dittatura del proletariato, prendendo a prestito il termine dittatura dalla politica e il termine proletariato dalle dottrine socialiste.

Abbiamo sempre bisogno di parole, e il margine di scelta non è poi, in realtà, così grande: bisogna passare per i vincoli del linguaggio, che è sempre conservatore, perché registra le cose e i significati riconosciuti dall’ideologia dominante. E quando vogliamo fargli dire, con una formula breve e incisiva, come nel caso di Marx, qualcosa d’inedito che lo disturba nelle sue abitudini, bisogna fargli violenza. Fare violenza al linguaggio: tutti i poeti, i filosofi e gli scienziati lo sanno, come anche tutti i militanti rivoluzionari. (…) Marx ha fatto come chiunque altro. Ha dovuto cercare le parole di cui aveva bisogno dove esistevano. Ha preso una parola al linguaggio della politica: dittatura. Ha preso una parola al linguaggio della teoria del socialismo: proletariato. E le ha obbligate a coesistere in un’espressione esplosiva (dittatura del proletariato) per esprimere, in un concetto senza precedenti, la necessità di una realtà senza precedenti[21].

                Fare violenza al linguaggio significa, nel caso in oggetto, sottoporre la parola dittatura a una particolare torsione semantica, visto che nessuno, prima di Marx, aveva immaginato che il termine si potesse utilizzare, considerato il contesto politico istituzionale entro il quale esso veniva adoperato, per esprimere il potere assoluto di una classe sociale. Marx forza la parola a esprimere il potere di una classe dominante che si estende oltre quei limiti incarnati dalla politica per estendersi su tutta la vita sociale. E se si parla di potere assoluto di una classe sociale, allora se ne deve dedurre che assieme al concetto di dittatura del proletariato deve sempre venire associato il concetto di dittatura della borghesia. Che quest’ultima si esprima sotto mentite spoglie, ossia in forme politiche quali la democrazia parlamentare, autorizza a pensare, come in Lenin, che la dittatura del proletariato possa assumere la forma politica della democrazia delle più larghe masse. E questo perché, in definitiva, i rapporti di classe sono sempre rapporti di forza e di lotta, nei quali, al limite, gioca un ruolo determinante la componente della violenza, sia essa dichiarata o meno.

Al riguardo, si veda cosa accade nel rapporto di produzione capitalista, dove l’acquisto e la vendita di forza lavoro non possono essere ricondotti banalmente a una forma giuridica che mette in relazione degli equivalenti. La detenzione dei mezzi di produzione da parte della classe capitalista, infatti, presuppone un rapporto di forza ininterrotto finalizzato all’estorsione del plusvalore.   

 Nel cuore del rapporto di produzione capitalistico, che divide le classi in classi, e riproduce questa divisione attraverso il doppio processo di accumulazione e di proletarizzazione, troviamo quindi, in ultima istanza (vale a dire ancorata in quest’”ultima istanza” che è la produzione), la violenza di classe, questa violenza “fuorilegge” che esercita la classe capitalista contro la classe operaia. Esempi attuali: la parcellizzazione del lavoro a catena, i ritmi, ecc.[22]

Questo rapporto tra le classi configura il primato della lotta di classe sull’esistenza stessa delle classi e si dà come necessariamente antagonista. La priorità attribuita alla lotta delle classi quale motore della storia permette di istituire un discrimine chiaro tra il marxismo e il riformismo subalterno all’ideologia borghese. È esemplificativo, al riguardo, il riferimento, riportato ne I marxisti non parlano mai al vento, alle due squadre di rugby[23]. La lotta delle classi si dà in un contesto storicamente determinato, rimanda al legame materiale e contraddittorio tra forze produttive e rapporti di produzione e si sviluppa all’interno del modo di produzione capitalistico e in una formazione sociale storica concreta. Entro queste coordinate, aggiunge Althusser, la teoria marxista rappresenta lo Stato come un apparato della dominazione di classe che contribuisce, attraverso la trasformazione della violenza in potere, a riprodurre le condizioni generali del rapporto di produzione. Occorre allora che intervenga, da qualche parte, una rottura, che possa condurre alla presa del potere da parte delle masse subalterne, anche se questo non significa necessariamente la presa violenta e insurrezionale del potere di Stato. L’apparato di Stato della vecchia classe dominante può essere distrutto anche per via “pacifica”, sempre che non ci si dimentichi della prospettiva comunista e, per questo orizzonte, della necessità del deperimento dello Stato. Non si tratta, infatti, spostando in avanti il momento in cui avverrà quasi catarticamente lo scoccare dell’ora decisiva per l’assalto al Palazzo d’Inverno, di radere al suolo le istituzioni, ma di prefigurarsi, quale compito politico principale, il cambiamento del senso e delle finalità dello Stato, dotandosi di un’analisi, di una strategia e di una tattica per individuare e spezzare le forme politiche della dominazione borghese. Al contrario, il XXII Congresso, nel momento in cui ha avanzato la tesi del passaggio democratico al socialismo, ha perso di vista il carattere transitorio di quest’ultimo e, in ultima analisi, pur ponendo il problema della natura dello Stato, ha sorvolato proprio sulla sua sostanza più propria, ossia sul suo configurarsi come apparato o macchina di dominio, nei quali si condensano l’aspetto meramente repressivo e quello produttivo di ideologia.

 

MARX: LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA

 

La nostra eredità… La cerchiamo a tentoni dietro di noi, mentre la vita, la lotta di classe esigono che la teoria marxista passi infine alla produzione, esca infine dal suo silenzio, e dica ciò che deve dire, ciò che solo lei può dire, su questo continente che Marx ci ha aperto. Dico bene: questo continente. (Louis Althusser, Le vacche nere)[24].

 

Althusser pone al Partito Comunista Francese la questione del mancato rispetto dei diritti dell’uomo in Unione Sovietica, questione che, ancora nel 1976, venti anni dopo il XX Congresso, rimanda alle logiche repressive dello stalinismo. Solo nel momento in cui viene sgomberato il terreno dall’ipoteca dello stalinismo si può porre mano alla critica del diritto “formale” borghese. Già i grandi pensatori del secolo dei Lumi, e fra questi Rousseau, avevano dimostrato che l’uguaglianza formale del diritto borghese porta con sé, inscritta nel proprio DNA, l’ineguaglianza di fatto tra gli uomini. L’indagine di Marx rimanda a questa consapevolezza, corredata, in aggiunta, dal pensiero di Hegel e Feuerbach:

I diritti riconosciuti all’uomo sono i diritti di un uomo astratto che non esiste in nessuna parte del mondo. Ciò che invece esiste nel mondo sono individui concreti, costretti all’alienazione della propria libertà dalle condizioni alienate in cui vivono[25].

Tuttavia, aggiunge Althusser, il fatto che si tratti di diritti riguardanti il cielo della politica, come scrive Marx ne La questione ebraica[26], e perciò stesso formali, non impedisce che abbiano un’effettualità terribilmente reale. Per penetrare a fondo nella concettualizzazione del filosofo di Treviri bisogna comprendere che la formalità del diritto, la sua astrazione, rimanda a una specifica forma del rapporto sociale, il rapporto di scambio. La relazione di uguaglianza tra venditore e compratore, infatti, si fonda su un rapporto di equivalenza, cioè un rapporto tra valori uguali o termini uguali. E l’astrattezza formale del diritto non si svolge su un piano di eterea trascendenza ma proprio sul piano concreto dello scambio vincolato al rapporto mercantile.     

O, per dire le cose in termini chiari, il rapporto mercantile, il “libero” rapporto che interviene per contratto tra il venditore e l’acquirente, il primo che possiede una merce da vendere e il secondo che possiede il denaro necessario ad acquistarla. E questo rapporto mercantile è per definizione (cioè a parte i casi di imbroglio o di violenza) un rapporto di equivalenza, cioè un rapporto tra valori uguali o termini uguali. Se il diritto è formale, ciò significa dunque non che è opposto alla realtà concreta, ma al contrario che esprime esattamente, concretamente, nella sua forma, il rapporto di libertà e uguaglianza dello scambio in un’economia mercantile, cioè soggetta a rapporti mercantili[27].

Il fatto è che si tratta, nel caso del rapporto di scambio, di un vincolo dotato di caratteristiche particolari, di una forma primitiva da cui fare derivare tutti i diritti dell’uomo. Marx ha il grande merito di avere riconosciuto la forma contraddittoria con cui si configura lo scambio sul mercato. Esso da un lato risponde ai requisiti del rapporto di equivalenza, che si fonda sull’uguaglianza dei valori scambiati, dall’altro lato, come scrive Marx, deve fare i conti con il fatto che è impossibile che, dalla sfera della circolazione, scaturisca un’eccedenza di valore. Perché possa esserci lo scambio è necessario che tutti i soggetti siano liberi di porre in vendita una merce. Nel caso del lavoratore salariato, non avendo nella propria disponibilità il possesso di denaro o di mezzi di produzione, si tratta di mettere in vendita la propria forza-lavoro. Tuttavia, la libertà di vendere la propria forza lavoro risulta essere, in prima istanza, la libertà del capitalista di acquistare tale forza-lavoro e, per questa via, sfruttare i lavoratori. È la libertà del lavoratore di guadagnare il salario vendendo la propria forza-lavoro affinché venga sfruttata[28].

E se facciamo il conto, vediamo al centro la libertà e l’uguaglianza dei rapporti mercantili, ma, dietro di essi, due altri tipi di libertà molto speciali: al limite, la “libertà” del capitalista di sfruttare la forza lavorativa dell’operaio salariato, e la “libertà” dell’operaio di vendere la propria forza lavorativa perché venga sfruttata o di crepare di fame. Sono entrambi liberi, ma né l’uno né l’altro hanno scelta. Ecco la libertà[29].

Da qui Althusser muove per analizzare il modo in cui Marx riesce a smontare il dogma dell’economia politica fondato sullo scambio tra equivalenti. Si tratta di un problema fondamentale, che rimanda alla necessità di dare conto della diseguaglianza e, di conseguenza, dello sfruttamento e dell’oppressione. Il punto è che il valore d’uso della forza-lavoro si caratterizza per una capacità unica nel suo genere, quella, una volta messa all’opera, di erogare un pluslavoro, e dunque un plusvalore, superiore a quello del salario con il quale viene remunerata per provvedere alla propria riproduzione[30]

Risulta chiaro a tutti che non c’è eguaglianza pensabile tra un membro della classe capitalista, che continua ad accumulare capitale e potere, e un membro della classe operaia, che mendica lavoro e deve sottomettersi o crepare. (…) Com’è possibile che questo scambio, soggetto alla legge formale dell’eguaglianza, possa produrre senza mai violarla questa fantastica diseguaglianza di condizioni di potere? Marx ha fornito la spiegazione di questo enigma nella sua teoria del “plusvalore”, mostrando che la merce chiamata “forza lavoro”, che l’operaio vende al capitalista e che il capitalista acquista mediante il salario, ha un “valore d’uso”, diciamo una capacità utile, sorprendente, perché la messa in opera della forza lavoro sui mezzi di produzione produce più valore di quello che si deve spendere per la sua (ri)produzione, cioè un valore più grande del valore sborsato sotto forma di salario dal datore di lavoro[31].

Tuttavia, sottolinea Althusser, Marx ha il merito di individuare i limiti della concezione borghese del plusvalore e di elaborare per questa via una critica dell’economia politica dalla quale risulta che oltre la scena contabile si annida il vero nocciolo del problema: l’estorsione del plusvalore. Tale estorsione si svolge entro condizioni materiali concrete e condizioni storiche reali e, soprattutto, smentisce la supposta regola dello scambio fra equivalenti[32]. Anzi, dall’analisi di Marx, scrive Althusser, si evince la cruda verità di un processo capitalistico che istituisce, all’interno del rapporto di produzione, sfruttamento e violenza. Forse è il caso di lasciare parlare, in questa lunga citazione, lo stesso Althusser: 

Ma, ed è proprio questo che ci interessa, Marx non si accontenta di una concezione contabile del plusvalore. La concezione contabile del plusvalore è la concezione capitalistica, la concezione borghese del plusvalore. È scritta nei libri mastri del capitalista: basta saper leggere, e fare una sottrazione. È quel che si vede sul davanti della scena. Marx, se posso dirlo, ha l’audacia di andare a guardare nelle mutande. Ci va, e cosa vede? Semplicemente questo: che il plusvalore da solo non vuol dire niente, se non lo si pensa come estorsione. Dunque: estorsione del plusvalore. E questa estorsione non vuol dire niente, se non la si pensa come un processo che si svolge entro condizioni reali concrete, materiali e storiche. (…) Come definire questo processo di estorsione materiale e storico? Qui non si tratta più di diritto, comunque lo si chiami, qui non si tratta più di rapporto mercantile, perché ciò che avviene nell’estorsione di plusvalore viola le regole dello scambio, quelle della libertà e quelle dell’eguaglianza. Viola le regole della libertà? Sì, perché in definitiva, se si vede bene che l’operaio non è libero di scegliere, dal momento che è costretto a vendere la propria forza lavoro, generalmente non si sospetta che anche il capitalista non sia libero. Non è libero di smettere di sfruttare la forza lavoro perché, se smettesse di sfruttarla, non sarebbe più capitalista. Anche lui, in quanto capitalista, non ha scelta. Il capitalista e l’operaio sono liberi, ciascuno alla sua maniera, ma non hanno scelta, né l’uno né l’altro. Sono entrambi presi in un processo che li supera e li sottomette alla propria legge: appunto il processo di sfruttamento capitalistico, il processo di messa in opera del rapporto di produzione capitalistico. Questo processo che fa loro violenza in quanto individui (…) è un processo di violenza. Bisogna prendere questa parola alla lettera. L’estorsione di plusvalore è un “atto” di violenza o, più esattamente, un processo di violenza mediante il quale la classe (cambio qui i termini, dovendo parlare di un processo che, nella sua realtà, è un “processo senza soggetto”) capitalista si sottomette la forza lavoro della classe operaia per sottrarre alla classe operaia la maggior parte possibile del valore che il suo lavoro ha aggiunto al valore dei mezzi di produzione detenuti dalla classe capitalista[33].

Althusser, afferma senza mezzi termini, con un linguaggio sfrontato e quasi irriverente, che Marx ha l’audacia di andare a guardare nelle mutande, ha la temerarietà teorica per ricondurre, entro l’alveo dei rapporti di produzione capitalistici, la questione dell’eccedenza del valore all’estorsione del plusvalore. Non è sufficiente ricondurre l’economia alla mera distribuzione di valori d’uso. Occorre ribadire, marxianamente, il primato della produzione e, connessa ad essa, la centralità strategica del concetto di plusvalore[34]. Questo processo di vera e propria espropriazione della forza lavoro, per l’appunto, non si svolge nel cielo della teoria ma all’interno di condizioni storiche determinate: esso si configura come il processo di messa in opera del rapporto di produzione capitalistico, un rapporto violento e in se stesso contraddittorio. Un rapporto nel quale, infatti, entrambi gli attori sono presi all’interno di un processo di assoggettamento violento che li priva della libertà di agire diversamente (va da sé – dice Althusser - con tutta la differenza che separa la miseria dell’operaio dalla ricchezza del capitalista), accomunati in un processo senza soggetto.

La logica sistemica che si cela dietro questo rapporto richiama alla mente il concetto di causalità strutturale, ossia la problematica della natura concausale (come non pensare all’Etica di Spinoza) delle molteplici determinazioni che entrano in gioco nel dare conto della complessità dei processi storici, degli eventi e delle azioni dei singoli attori sociali[35]. La società non è l’emanazione di un’astratta volontà individuale, libera e cosciente ma il frutto di rapporti sociali all’interno dei quali vivono operano e lottano individui reali. Un processo senza soggetto, per l’appunto, nel quale l’elemento dell’economico, della struttura produttiva, interviene solo in ultima istanza, solo all’interno di un tutto differenziato e articolato. E a partire dal quale risulta chiaro che la contraddizione mette capo a un rapporto asimmetrico e diseguale, surdeterminato dalle condizioni materiali che producono la contraddizione stessa. L’espressione di contraddizione surdeterminata può chiarirsi, dice Althusser in Per Marx, proprio tenendo a mente l’accumularsi di determinazioni, relative alle forme politiche, giuridiche, religiose e culturali con la loro autonomia specifica, sulla determinazione in ultima istanza del modo di produzione economico[36].

Si diceva del fatto che il rapporto di sfruttamento della forza-lavoro va analizzato nelle forme storiche concrete e determinate nelle quali di volta in volta si presenta, concepite nella forma delle lotte di classe che di continuo contrappongono capitalisti e lavoratori. Ora se la teoria marxista è la scienza di un tale oggetto limitato, che ha prodotto la conoscenza scientifica del modo di produzione capitalistico e delle sue tendenze contraddittorie, per altro verso l’economia politica classica è, entro queste coordinate di pensiero, la principale formazione teorica dell’ideologia borghese connotata da fittizie pretese di scientificità. Essa, costituendosi come un sapere disciplinare che delimita e circoscrive un sistema chiuso, astratto dalle dinamiche storiche e sociali e operante attraverso la definizione di leggi pure e neutre, è il prodotto più avanzato della lotta di classe ideologica borghese contro il proletariato. Non c’è chi non possa vedere al giorno d’oggi come proprio l’economia politica, nella sua connotazione quale forma ideologica, piuttosto che essere un sorta di falsa coscienza, metta all’opera tutto il proprio potenziale trasformativo e di messa in forma della società, subordinandola alle logiche dell’impresa.

A onor del vero, forse occorre rammentare come Althusser non sembra abbia prestato la dovuta cura all’analisi, svolta da Marx nella prima sezione del primo libro de Il Capitale, della forma di valore. È un tema che esula dalla trattazione svolta ne Le vacche nere. Eppure, proprio nell’esame della forma di valore risiede la strategia conoscitiva, il grimaldello teorico, che permette a Marx di pervenire alla critica dell’economia politica. È infatti l’analisi della forma di valore a condurre prima alla forma di denaro e poi dal denaro al capitale. Attraverso la costruzione preliminare di questo primo livello del discorso diventa possibile elaborare la definizione del modo di produzione capitalistico[37]. Tuttavia, nonostante la sottovalutazione di questa problematica, Althusser ribadisce che Marx, elaborando ne ll Capitale la sua critica dell’economia politica, ha colto nel segno e non si è mai sbagliato relativamente al suo orientamento di fondo. Ecco l’esortazione che Althusser, a conclusione di questo lungo e approfondito ragionamento, consegna ai posteri:

Non dobbiamo sottovalutare la potenza della teoria di Marx: sottovalutarla significa fare un prezioso regalo alla lotta di classe imperialista e abbandonare la lotta di classe operaria e popolare alla sola spontaneità, al populismo e alle sue diverse varianti contemporanee[38].

Difficile negare che si tratti di un monito quanto mai attuale.

 

LA MILITANZA E IL PARTITO

 

È il caso di ricordare un principio leninista ben noto: che sono le masse che fanno la storia, e che l’organizzazione di lotta di classe delle masse (partito e sindacato) deve costantemente essere “all’ascolto delle masse” e dunque della loro immaginazione, delle loro invenzioni, e che, nell’organizzazione, i dirigenti devono costantemente essere “all’ascolto dei militanti di base”. (…) La cosa essenziale è che i militanti comunisti vadano dai lavoratori innanzitutto per ascoltarli. (…) Ci sono molti dirigenti comunisti in giro per il mondo che trovano che è decisamente più facile parlare al posto della gente che ascoltarla. (L. Althusser, Le vacche nere)[39].

 

Il XXII Congresso ha messo la sordina a un altro tema di fondamentale importanza per i marxisti che vogliono dirsi comunisti: la questione del “centralismo democratico”. Le parole di Althusser, in questo senso, consentono di esaminare le condizioni di possibilità perché si dia un’organizzazione della lotta di classe e proletaria adeguata e efficace. Condizione preliminare è quella di possedere un orizzonte teorico di riferimento coerente e consequenziale. Militare in un partito, infatti, significa militare in un’organizzazione che possiede una teoria (una dottrina scientifica) “ossia un corpo sistematico di concetti che non solo permette di interpretare i fatti, ma implica dei vincoli nell’azione politica concreta”[40].

Una dottrina in cui le idee prendono la forma del concetto, costituendo un insieme sistematico in cui ogni concetto è legato agli altri concetti dalla forza della “necessità”, quindi della consequenzialità, e in cui la linea e le pratiche politiche (siano esse alleanze o elezioni) sono legate alla dottrina dalla forza della stessa necessità, vale a dire della stessa consequenzialità[41].

Questo non vuol dire precipitare nel dogmatismo, come accade alle sette e alle organizzazioni teologiche, perché compito di un’organizzazione comunista deve essere quello di arricchire la teoria avendo la capacità di individuare quegli elementi, che nel rapporto con la situazione concreta, inficiano la consequenzialità della teoria. È interessante notare, a questo riguardo, che l’abbandono di un concetto chiave richiede il compito, se non si vuole compromettere la coerenza del tutto teorico, di rivedere l’insieme sistematico del corpo teorico.

È dentro questo quadro di riferimento più generale che Althusser si chiede in quali condizioni si svolge la vita democratica nel partito:

Facendo questa domanda, vorrei ricordare che la specificità dei militanti comunisti consiste appunto nel comportarsi in modo responsabile in quanto militanti, cioè in quanto rappresentanti della lotta della classe operaia, quali che siano i loro ruoli e le loro situazioni in questa lotta. E in quanto tali, se sono coscienti delle loro responsabilità, i comunisti fanno astrazione, e devono farla, dalle reazioni personali soggettive. E devono, allo stesso modo, considerare che, per trattare a fondo, in modo responsabile, una questione politica, anche di scarsa gravità, essi hanno il dovere politico di fare astrazione dalle persone in quanto persone. Devono sapere, e l’hanno provato in innumerevoli circostanze, che solo conta il Partito, la sua unità e la sua teoria scientifica e rivoluzionaria, poiché il Partito, la sua organizzazione e la legge del centralismo democratico che lo governa hanno una sola ragione d’esistere: servire nel migliore dei modi, in modo lucido, scientifico e responsabile, la lotta di classe della classe operaia. (…) E se le persone in questione sono veramente dei comunisti, sapranno che in quanto persone non sono determinanti. Gli uomini possono sbagliarsi. Gli uomini possono cambiare. Delle opinioni possono apparire, affermarsi, e poi scomparire. Nessuno è mai indispensabile. Ciò che indispensabile, è il Partito, indispensabile per aiutare e guidare la lotta di classe della classe operaia. Il Partito, lui, non può sparire: non scomparirà – e se mai dovesse scomparire, rinascerebbe[42].

È chiaro che il ragionamento di Althusser presuppone, almeno a livello teorico, il massimo di estensione di un modello di democrazia che oggi definiremmo, forse tautologicamente, partecipata. Tuttavia è abbastanza facile rimarcare come la sua narrazione raffiguri i tratti di una pratica politica che oggi suonerebbe stonata e anacronistica anche presso molti ambienti della sinistra radicale che si dichiara marxista e comunista. Il richiamo a un comportamento responsabile, l’appello alla capacità di fare astrazione dalle relazioni personali e dalle istanze soggettive, il ricorso alla disciplina intesa come subordinazione alle decisioni superiori dell’organizzazione evocano una pratica e una cultura politica lontana dalle modalità con cui, nel tempo presente, viene elaborato e realizzato l’attivismo nei movimenti antisistema. Senza volere assumere atteggiamenti nostalgici verso pratiche e modelli che sarebbe difficile riproporre nella loro interezza (si pensi al ruolo di un partito guida che dall’alto del ponte di comando presupporrebbe di sapere la verità relativamente alle lotte e agli interessi dei subalterni e dei dominati), è probabile che l’estrema rimozione di alcuni di quegli elementi, relativi alla condotta e alla pratica politiche, sia stata una delle cause dell’attuale assenza, almeno in alcuni paesi dell’Occidente capitalistico tra cui l’Italia, di organizzazioni in grado di incidere sui rapporti di forza che si determinano tra le classi, nonché causa di certi limiti della militanza, caratterizzata, molto spesso, da uno spropositato narcisismo infantile, da un estremismo meramente verbale, da un privatistico egoismo arrivistico e da un insensato spirito di competizione. Per inciso: anche dalla significativa estensione di questi aspetti, per così dire fenomenici, ma che richiamano la questione problematica dell’idea, duramente attaccata dal filosofo francese, dell’uomo come soggetto della storia, si misura il grado di introiezione dell’ideologia borghese subita dal campo di forze che, almeno in teoria, dovrebbero esserle avverse. Scrive, al contrario, Althusser:

Un individuo solo non può arrivare a una certezza sufficiente. Questa esigenza è stata colta nella storia dei partiti comunisti quando essi parlano della necessità della riflessione dell’“intellettuale collettivo” che è il partito. E, a suo modo, questa riflessione esiste, ma è dispersa e lacunosa[43].

Anche a questo livello del discorso, così come a proposito del dogma dell’ideologia idealistica, che si fonda sul presupposto dell’esistenza di un soggetto generico in grado di fare la storia, e di quello dell’economia politica, idealisticamente fondato sulla finzione ideologica dell’esistenza dell’homo oeconomicus, si sottolinea come sia necessario partire dal collettivo per dare origine a una pratica politica autenticamente comunista e, dunque, a forme di condotta collettive in grado di elaborare modalità di esistenza altre da quelle dei dominanti. Purtroppo, è la diagnosi di Althusser oggi quanto mai inverata, anziché ripensare criticamente agli errori del passato, si è sciaguratamente deliberato di assumere progressivamente il punto di vista dell’avversario, acquisendone la forma politica e i caratteri più indegni e deprecabili: il personalismo, l’arrogante separatezza e l’ostentazione di una presunta superiorità.

Ma si torni al livello più concettuale della problematica. A questa sorta di encomio preliminare, testé citato, segue il vero nocciolo del problema che conduce Althusser a denunciare la gestione antidemocratica all’interno del gruppo dirigente del PCF, a seguito della quale si è deliberato l’abbandono del concetto di dittatura del proletariato. La gestione antidemocratica si associa al fatto che le organizzazioni della lotta di classe e proletaria sono in ritardo rispetto al movimento delle masse, in sostanza non sono in grado di interpretare i bisogni della classe né di comunicare autenticamente con essa. Da qui derivano alcune conseguenze negative: “fuga in avanti per recuperare il ritardo, (…) atteggiamento demagogico e, cosa che va di pari passo, tendenza al nazionalismo volgare, che contraddice lo spirito dell’internazionalismo proletario”[44]. La conclusione è che “il ritardo delle organizzazioni di lotta di classe economica e politica determina e rafforza la divisione della classe operaia, e dunque, dal momento che è questa la sua arma principale, rafforza la lotta di classe imperialista”[45]. Il minimo, da parte del partito, sarebbe quello di incoraggiare, a costo di venire subissato dalle critiche, una discussione aperta, libera e franca.  

                Il punto di domanda consiste allora nel chiedersi come ridefinire la natura e il modo di operare delle organizzazioni della lotta di classe e come superare al loro interno quelle distinzioni gerarchiche che possano garantire lo sviluppo di rapporti fecondi tra la base e i vertici dei gruppi dirigenti, assicurando così una partecipazione di massa alle iniziative popolari e alla lotta di classe. Occorre prendere consapevolezza del problema e provare a articolare, secondo modalità il più possibile democratiche e orizzontali, il rapporto tra le varie componenti delle organizzazioni di lotta di classe:

Occorre definire positivamente i diritti e i doveri di tutti i militanti, dirigenti compresi, ricordando che i dirigenti sono dirigenti solo in quanto sono innanzitutto militanti, allo stesso titolo di tutti gli altri militanti, anche se sono incaricati da essi di dirigere il partito[46].

                La rivendicazione di un rapporto biunivoco di parità e di reciprocità tra tutti i militanti, dirigenti compresi, va collocata entro una stagione storica, quella degli anni ‘70, attraversata dalla straordinaria presenza di movimenti di massa che, a livello mondiale, si caratterizzano per avere posto inedite istanze di cambiamento radicale e sistemico. Sono domande che non si incarnano soltanto nella generica rivolta, destinata a esaurirsi nell’immediato, ma che scavano nel profondo, rafforzando la visione e la narrazione del mondo antagoniste a quella dominante, attraverso la realizzazione di elementi di democrazia di massa e di contropotere che coinvolgono gli stabilimenti industriali come le scuole e le università, i comitati di quartiere come gli ospedali psichiatrici e le caserme, le associazioni come i sindacati e i circoli sociali. È il tempo di un eccezionale protagonismo politico, probabilmente impensabile agli occhi delle generazioni del terzo millennio.

Tuttavia, la domanda di democrazia e orizzontalità tra la base militante e il vertice della dirigenza, contenuta nell’autointervista immaginaria di Althusser, non ha perso di attualità né è diventata anacronistica, anzi. Essa, piuttosto, in tempi di drammatica passivizzazione e omologazione delle masse all’ideologia dominante, si è caricata di un’urgenza ulteriore e consegna al lettore la diagnosi, il quadro e i termini del problema da cui ripartire. L’insterilirsi della partecipazione attiva e l’affievolirsi del controllo dal basso rappresentano oramai uno dei temi più critici dell’attuale dibattito politico e indicano l’acuirsi di tendenze oligarchiche e autoritarie all’interno delle stesse democrazie borghesi. L’acuto e profetico contributo di Althusser, originariamente pensato come contributo interno al dibattito del PCF, può oggi essere esteso a tutto il palcoscenico pubblico ove si esibiscono gli attori della scena politica. Esso, in questa chiave di lettura, risalta ancora di più se lo si confronta con l’analisi svolta negli ultimi anni dai più accorti scienziati della politica. Si veda, per esempio, cosa scrive Marco Revelli nel suo Finale di partito:

Contrariamente ai rappresentanti nella vecchia «democrazia dei partiti» – saldamente controllati dai propri militanti e dirigenti nell’ambito dell’«apparato» che li rende contigui fisicamente e culturalmente – gli «eletti» nella nuova «democrazia del pubblico» vivono letteralmente in un «altro mondo» rispetto ai loro elettori. Irraggiungibili e incontrollabili – se non al turno elettorale successivo quando possono essere abbandonati dai rispettivi supporters -, fanno parte di un tipo umano diverso rispetto alla gente comune, per stile di vita, frequentazioni, linguaggio, reddito, benefits goduti (e spesso vissuti da chi «sta in basso» come privilegi)[47].

Occorre partire dalla presa d’atto che si è creato un solco incolmabile tra le élite dominanti, che vivono in una sorta di mondo separato nel quale si consumano, letteralmente, condotte di vita senza senso e modi di esistere egoistici e privatistici, e gli individui ordinari, costretti, sempre più spesso, a vivere in contesti che hanno smarrito il senso del vivere comunitario. Bisogna avere il coraggio e la forza di restituire a questi ultimi la capacità di parola. Questa esigenza coincide, in fondo, con quanto auspicava Althusser all’indomani del convegno di Venezia del 1977 su Potere e opposizione nelle società postrivoluzionarie, allorché dichiarava che la questione del partito politico andava posta in termini nuovi. In un intervento dell’anno successivo, intitolato Il marxismo come teoria «finita», esprimeva l’esigenza che una diversa pratica andasse “non dalla politica alle masse ma dalle masse alla politica” e ribadiva “la necessità di tenere nel maggior conto possibile tutti i movimenti originali che si sviluppano fuori dei partiti”[48].

Non è escluso che l’antipolitica, intesa come quella tossica, aggressiva e volgare reazione che origina da un legittimo malcontento proveniente dal basso ma che si nutre di rancore e risentimento, per definizione passioni tristi del vivere sociale, scatenandosi sui più deboli e più poveri, sugli ultimi e sulle minoranze, abbia a che fare con una sorta di insoddisfazione inconsapevole, e quindi non elaborata politicamente, nei confronti delle classi dominanti e degli stessi gruppi dirigenti delle organizzazioni che si richiamano, ancora oggi, alla tradizione socialista e comunista. Malcontento dovuto sostanzialmente all’aumento della divaricazione tra ricchi e poveri, privilegiati e esclusi, gruppi dirigenti e masse popolari.

In definitiva Althusser, evidenziando i limiti di democrazia interna del partito politico e delle sue capacità tattiche e strategiche, mostra di avere capito che occorre ripensare i termini con i quali si costituisce un’organizzazione della lotta di classe. È indispensabile restituire attenzione ai militanti e protagonismo agli attivisti dei movimenti di lotta antisistemici, ben sapendo, però, che le pratiche politiche fondate sull’esclusiva spontaneità, in mancanza di organizzazione e condotte certe, non sono sufficienti e rischiano di precipitare nel puro velleitarismo fine a se stesso. Da questo punto di vista il rimedio suggerito da Althusser rimane ancora un antidoto di rilievo significativo: 

Qualcosa che era stato distrutto dalle pratiche staliniane, e costituisce il cuore di ciò che vi è di più prezioso nella tradizione marxista e leninista può maturare di nuovo in queste formule: ridare la parola alle masse che “fanno la storia”, sapersi mettere non solo al servizio delle masse, ma all’ascolto delle masse, studiare e capire i loro bisogni e le loro contraddizioni, e sapere anche prestare attenzione all’immaginazione e alle invenzioni delle masse[49].

 

CONCLUSIONI: LA STRATEGIA DEL COMUNISMO

 

Anche allora raccontavo una «storia». Il socialismo è un larghissimo fiume, molto pericoloso da attraversare. Avremo presto un’immensa barca sulla spiaggia: quella delle organizzazioni politiche e sindacali su cui tutto il popolo può salire. Ma per attraversare i vortici occorre un «timoniere», il potere di Stato in mano ai rivoluzionari, e nella grande nave dovrà regnare il dominio di classe dei proletari su tutti i rematori stipendiati (salario e interesse privato esistono ancora), altrimenti il dominio del proletariato va a farsi benedire. Si mette in acqua l’immensa nave, e per tutto il percorso bisogna sorvegliare i rematori esigendo da loro una stretta obbedienza, rimuovendoli dal loro posto se sbagliano e sostituendoli per tempo, all’occorrenza punendoli. Ma se quell’immenso fiume di merda viene infine attraversato, allora ecco l’infinità della spiaggia, il sole e il vento di una giovane primavera. Tutti scendono, non c’è più lotta fra gli uomini e i gruppi d’interesse perché non ci sono più rapporti mercantili, ma fiori e frutti a profusione che ciascuno può cogliere per la propria gioia. Esplodono allora le «passioni gioiose» di Spinoza e anche l’«Inno alla gioia» di Beethoven. Sostenevo allora l’idea che gli «isolotti di comunismo» esistessero già, negli «interstizi» della nostra società (interstizi, parola che Marx applicava – a immagine degli dèi di Epicuro nel mondo – ai primi nuclei commerciali del mondo antico), laddove non regnano rapporti mercantili. (L. Althusser, L’avvenire dura a lungo)[50].

 

C’è un ultimo elemento che, nell’analisi del testo di Althusser preso in considerazione, vale la pena di esaminare. Si tratta del concetto di comunismo che, in questo contributo, viene affrontato in sede di conclusioni ma che andrebbe parimenti considerato come quel dispositivo che segna le condizioni di possibilità perché possa essere adeguatamente pensato il ragionamento che è stato fin qui svolto. Perché la teoria marxista può avere un senso solo nella misura in cui è collocata all’interno di un orizzonte pratico che contempla la tendenziale realizzazione del comunismo. Come se la strategia del comunismo mettesse in campo una sorta di kantiano principio regolativo a partire dal quale potere assumere uno sguardo speculativo e una prospettiva conoscitiva saldamente posizionati e, al contempo, fuori registro e depositari di uno scarto teorico. È su questo crinale, giocato entro un oscillante doppio registro che, come si è già notato, si colloca il tentativo di Althusser.

La parabola citata in esergo, e riportata nell’autobiografia L’avvenire dura a lungo, compare, con qualche significativa modifica, anche nel testo oggetto di questo studio[51]. Essa sembra mettere capo a un messaggio che sembra intendere il socialismo come uno stadio da attraversare secondo modalità che richiamano una provvidenzialistica necessità storica, oltre la quale si paventerebbe la finalistica realizzazione del comunismo. Quest’ultimo, peraltro, viene illustrato, e non potrebbe essere diversamente, secondo canoni generici che richiamano l’uguaglianza, la libertà e il rispetto, si direbbe oggi, per le differenze:

Quando il fiume è stato attraversato, tutti scendono. E cosa fanno? Quello che vogliono. Sono nel comunismo, ognuno è libero, non ci sono più sfruttamento, oppressione, classi, lotta di classe, Stato, apparati di Stato, partiti politici, democrazia, diritto, rapporti di mercato, morale, religione, psicologia, economia politica, ecc. È forse il caos? No. I lavoratori si organizzano liberamente tra loro, non sono più persone, ma individui, continuano a lavorare, ma possono sviluppare liberamente i loro talenti, ossia la loro disuguaglianza nell’uguaglianza[52].

                Tuttavia, appare chiaro come il filosofo francese, nonostante la suggestiva evocazione inscritta nell’esempio testé riportato, non sia soddisfatto di questa immagine chiarificatrice. È un’immagine cara all’ortodossia marxista-leninista, evoluzionistica, che individua uno stadio transitorio nel socialismo e, in chiave teleologica, uno stadio finale nel comunismo. Essa sembra essere comunque troppo compromessa con la narrazione di quel mondo, lo stalinismo, che nel testo è, senza ombra di dubbio, il principale oggetto da bersagliare con la propria polemica teorica. Althusser non fa alcuno sforzo per dissimulare il proprio travaglio relativo alla dimensione teorica e pratica della questione. Testimonianza di questo imbarazzo teorico sono le pagine immediatamente successive, nelle quali si prova a offrire un’altra immagine del comunismo, un’immagine, per così dire, meno ingessata, e sintomo rivelatore di quegli sviluppi che condurranno il filosofo verso la ricerca di una filosofia della contingenza e la definizione di una corrente sotterranea del materialismo dell’incontro[53]. Vale la pena di riportare due passi che possono essere strettamente collegati fra di loro:

È anche importante rilevare, come già detto, che siamo già, sotto alcuni aspetti, nel comunismo, che alcune forme concrete ideologiche del comunismo sono già realizzate: ad esempio, in qualsiasi associazione umana in cui non regnano i rapporti di mercato[54];

E subito dopo:

Esistono già nel mondo delle isole di comunismo: dove non esistono più rapporti di mercato, ad esempio nelle associazioni libere (quando sono davvero libere, cioè democratiche, poiché la soppressione dei rapporti di mercato è solo una condizione negativa), come i partiti comunisti o i sindacati operai, o anche in altre comunità, ad esempio religiose, quando partecipano alla lotta di classe[55].

Oasi di comunismo, verrebbe da dire, luoghi interstiziali che non rimandano a un futuro di là da venire ma che sono già presenti qui e ora, e che sorgono dal divenire processuale degli eventi, a volte imprevisti e casuali. Come nel precipitare della pioggia di atomi di Epicuro che diviene, improvvisamente, deviazione, clinamen per l’appunto. L’idea di isole di comunismo, di rifugi nei quali ci si emancipa dall’onnipresenza pervasiva del totalitarismo capitalista, evoca immagini di rotture improvvise e aleatorie. Ma affiora nel testo con modalità quasi episodiche, senza nessuna adeguata fondazione concettuale o appropriata legittimazione teorica. Essa segnala però, quasi fosse un sintomo inconsapevole, l’urgenza di una metamorfosi nello svolgimento della questione che fin dai primi scritti ha attraversato il lavoro teorico di Althusser, quella relativa alla plausibilità di una concezione della successione storica che proceda e si faccia strada in assenza di uno sbocco lineare, deterministicamente predeterminato dall’origine e teleologico[56].

Per concludere: all’origine della redazione del prezioso libro di Althusser risiede, molto probabilmente, l’idea che, nonostante le sconfitte e gli errori, il comunismo e la sua storia non siano rottami inservibili ma risorse da esaminare criticamente e obiettivi da perseguire dialetticamente. Althusser si rende protagonista di una duplice mossa, consistente nella rivendicazione dell’appartenenza a una storia fatta di pratiche teoriche, politiche e sociali di liberazione e di uguaglianza realizzate da milioni di uomini e donne e, al contempo, risultante dalla consapevolezza che occorre praticare una decisa discontinuità rispetto agli errori dello stalinismo. Il riferimento alla strategia del comunismo segna l’ineludibile necessità di darsi un orizzonte teorico a partire dal quale riedificare l’autonomia politica e culturale delle classi lavoratrici e delle masse di oppressi e sfruttati dal capitalismo. Ricerca rinnovata di un orizzonte inedito, perché segnata dalla sconfitta, che già nel corso degli anni ’70 sembrava oramai dietro l’angolo, dell’ipotesi socialista e comunista.

Anche se si tratta di un testo postumo, Le vacche nere si presenta come un libro notevole perché rende manifesta la natura processuale, sempre in divenire, della ricerca teorica e pratica del suo autore. Esso si caratterizza per il suo situarsi in un momento della parabola teorica di Althusser nel quale, da una parte, pare che risaltino gli intoppi e gli ostacoli ai quali è approdata la crisi del marxismo e, nello stesso tempo, dall’altra parte, sembra che facciano capolino i tentativi di uscire da questo vicolo cieco pervenendo alle posizioni del successivo materialismo aleatorio. Questo travaglio, se si pensa all’incessante lavoro di revisione teorica a cui Althusser sottopone la propria riflessione e la propria ricerca, sembra innegabile e, ad avviso di chi scrive, rappresenta, sul piano del metodo e non solo, la cifra autentica del suo lascito pratico-teorico[57]. Ciò nondimeno, pur nelle rotture e nelle fratture, è possibile rintracciare una coerenza complessiva che smentisce, almeno sulle questioni sostanziali, l’ipotesi di una netta discontinuità che contrapporrebbe un supposto primo Althusser e un altrettanto ipotetico secondo Althusser. La centralità, ne Le vacche nere, di questioni teoriche quali quelle relative alla causalità immanente, al dispositivo del processo senza soggetto e all’antiumanismo teorico, all’importanza strategica della critica dell’economia politica, al vettore dell’ideologia quale forza di dominio effettiva e materiale, al concetto di apparati ideologici di Stato e, per finire, all’idea di comunismo, sono lì a dimostrarlo.

Senza volere ricordare, peraltro, l’utilità e la fecondità di intuizioni più legate all’attualità ma non per questo più spicciole e meno decisive. Si pensi, soltanto per fare qualche esempio, ai riferimenti alle tendenze, dappertutto evidenti all’interno del capitalismo contemporaneo, alla costruzione di governi politici sempre più autoritari e alla correlativa neutralizzazione dei poteri e delle istituzioni parlamentari (prezioso antidoto al “marasma” politico italiano, riconosce Althusser, è la Costituzione, molto democratica, del 1946)[58]. O ancora si veda la parte relativa alle “speculazioni produttive provocate dal capitale mondiale sul mercato del lavoro del terzo mondo, dove i profitti sono favolosi”[59] e al “gigantesco processo di proletarizzazione-salarizzazione” che insieme alla “meccanizzazione e la parcellizzazione del lavoro”[60] determina una modificazione della composizione della classe operaia. Per non parlare del modo in cui il capitalismo, come ha insegnato Marx, “integra in modo sempre più stretto la ricerca scientifica al processo di estorsione del plusvalore, controllando e pianificando sempre di più questa ricerca”[61]. E, per finire, si pensi alla lungimirante denuncia, in questo caso in perfetta sintonia con il PCF, dell’“intensificazione dell’integrazione europeo-occidentale, che si fa sotto l’egida e secondo gli interessi delle imprese capitaliste multinazionali”[62] e che fa il paio con la netta avversione a delegare la gestione dei problemi politici alla casta dei tecnocrati, grande “vecchio sogno ideologico borghese”[63]. De te fabula narratur, si direbbe con monito oraziano, se si pensa agli attuali disastri dell’integrazione valutaria europea determinati dal dispositivo monetario dell’euro.

Come si vede, non è facile tenere insieme la pluralità dei piani (teorico, politico, culturale, ideologico, storico, pratico) di cui si arricchisce il testo althusseriano. Esso si configura come un lavoro nella crisi e attraverso la crisi, una testimonianza laboriosa della transizione teorica, si potrebbe dire, nel quale si sovrappongono, sia sul livello dei contenuti più prettamente teorici che su quello dei riferimenti all’attivismo pratico e politico, elementi di continuità e elementi di discontinuità. Difficile distinguere gli uni dagli altri, essendo il lavoro di Althusser il precipitato di un continuo sforzo di autocritica che, come è noto, condensa il tutto in un’unica dimensione pratico-teorica.

E se, per l’appunto, di questa incompiutezza sistematica, piuttosto che un limite, si facesse la cifra più significativa dell’opera di Althusser? Tra gli anni ’80 e la fine dello scorso millennio sembrava quasi che questa dimensione decostruttiva si risolvesse in una tensione autodistruttiva precorritrice di uno scacco, oltreché teorico, esistenziale. Un modo forse, per esorcizzare, tramite la condanna all’oblio, quanto di radicale e di innovativo si fosse sedimentato dentro e contro gli organi ufficiali dell’ortodossia marxista e, cosa ben più importante, una deliberata strategia per rimuovere il fatto che, negli anni ’60 e ’70, fosse stata data alla luce una straordinaria stagione di lotte di emancipazione e liberazione che si ispiravano proprio a questo marxismo rinnovato, aperto e capace di pensare da sé.

A chi scrive pare che la vera risorsa dell’althusserismo risieda oggi proprio nella sua capacità di costituire un invito pressante all’apertura del pensiero, per l’appunto, una sollecitazione incessante a pensare da sé. Come se, nell’arco di tempo intercorso tra la storia di quegli anni e il presente, smantellata la pretesa infeconda di ricostruire un’unità e una coerenza astratte di un inesistente sistema di Althusser, potesse gradualmente emergere, invece, il pregio di avere pensato l’urgenza di un insieme di questioni la cui fertilità produttiva comincia a manifestarsi soltanto oggi. Del resto, pare fosse proprio questo l’auspicio di Etienne Balibar quando, nel lontano 1988, nel suo testo Il non contemporaneo, a proposito del suo maestro, amico, e compagno parlava del valore di alcune questioni poste da Althusser:

Un valore che proverrebbe precisamente dal fatto che sono questioni «non contemporanee», che vanno contro corrente tanto rispetto al marxismo ortodosso quanto rispetto a ciò che bisogna proprio chiamare l’ortodossia dell’anti-marxismo, poiché tali questioni sconvolgono l’immagine troppo lineare di un marxismo condannato a scomparire senza lasciar traccia, come hanno contribuito a loro tempo a sconvolgere l’immagine di un marxismo camuffato da «concezione del mondo dominante»[64].

È indubbio che la pubblicazione del libro Le vacche nere contribuisce a confermare e rafforzare questa prospettiva, nell’auspicio che possa alimentare un rinnovato interesse nei confronti del suo autore. Il quale, nonostante la sconfitta del progetto comunista, consapevole degli effetti di lunga durata dei processi storici, e forse anche delle più minute vicende dei singoli individui umani, ammoniva a non cedere allo scoramento e alla disillusione. Ecco allora cosa, a conclusione del suo libro, insegna, riecheggiando Lenin, Althusser:  

Se ciò che ho appena detto non ha effetti immediati, il che è più che probabile, non bisogna perciò scoraggiarsi. I comunisti sanno che ci vuole del tempo affinché l’esperienza insegni loro anche le verità più evidenti[65].

Forse anche in questo varrebbe la pena di restargli fedeli.


* Recensione in corso di pubblicazione in Quaderni Materialisti http://www.quadernimaterialisti.unimib.it/

[1] L. Althusser, L’avvenire dura a lungo seguito da I fatti. Autobiografia, Ugo Guanda Editore, Parma, 1992, p.245.

[2] L. Althusser, Le vacche nere, intervista immaginaria (il disagio del XXII Congresso), Mimesis Edizioni, Milano – Udine, 2018.

[3] Ivi, p.225.

[4] A. Tosel, Althusser e la storia. Dalla teoria strutturale dell’intero sociale alla politica della congiuntura aleatoria e ritorno in Materialismo Storico, n° 1-2/2016 (vol. I), pp.161-162.

[5] L. Althusser, L’avvenire dura a lungo, cit., p.233.

[6] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.89.

[7] Ibid.

[8] Ibid.

[9] Ivi, p.90.

[10] Ivi, p.101. 

[11] Ivi, p.102.

[12] Ivi, pp.102-103. 

[13] Ivi, p.105.

[14] Ivi, p.104.

[15] Ivi, p.105.

[16] L. Althusser, Sulla filosofia, Edizioni Unicopli, Milano, 2001.

[17] F. Navarro, Actualité des reflexions sur la politique du dernier Althusser in Maria Turchetto (a cura di), Althusseriana Quaderni, Rileggere Il Capitale. La lezione di Louis Althusser, Atti del convegno, Venezia, 9-10-11 Novembre 2006, Mimesis Edizioni, Milano, 2007, p.162.

[18] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.63.     

[19] W. Montag, Louis Althusser, Palgrave Macmillan, New York, 2003, p.84.

[20] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.105.

[21] Ivi, p.120.  

[22] Ivi, p.125.

[23] L. Althusser, I marxisti non parlano mai al vento, Mimesis Edizioni, Milano, 2005, pp.46-47.

[24] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.106.

[25] Ivi, p.157.

[26] K. Marx, La questione ebraica, Editori Riuniti, Roma, 1969, p.58.

[27] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.158. 

[28] Cfr. K. Marx, Il Capitale, Critica dell’economia politica, Libro primo, Editori Riuniti, 1989, pp.201-202.

[29] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.158. 

[30] Cfr. K. Marx, Il Capitale, cit., pp.228-229.

[31] L. Althusser, Le vacche nere, cit., pp.158-159.     

[32] Cfr. K. Marx, Il Capitale, cit., pp.267-269.

[33] L. Althusser, Le vacche nere, cit., pp.159-160.   

[34] Cfr. K. Marx, Il Capitale, cit., pp.208-209.

[35] Marx, secondo Althusser, si è inconsapevolmente ispirato a un modello di causalità immanente di chiara ascendenza spinoziana. Un modello di causalità che rimanda alla determinazione di una struttura complessa nella quale vigono rapporti strutturali a livelli e stratificazioni differenti. L’infinita processualità senza origine, senza fine e senza soggetto, si traduce nell’efficacia della struttura nei suoi elementi e degli elementi nella struttura. Si tratta di un modello che, nelle sue linee di fondo, è presente sia in Per Marx e Leggere il Capitale sia nei testi posteriori. Si confronti, per esempio, Elementi di autocritica dove si scrive di “una causalità che rendesse conto dell’efficacia del Tutto sulle parti, e dell’azione delle parti nel Tutto – un Tutto senza chiusura, che sia solo il rapporto attivo delle parti: in questo Spinoza ci serviva da lontano come primo e pressoché unico testimone.” (L. Althusser, Elementi di autocritica, Feltrinelli, Milano 1975, p.35). O ancora si veda È facile essere marxista in filosofia?, testo nel quale si parla “di un tutto, per sottolineare che nella concezione marxista di una formazione sociale tutto è collegato, che l’indipendenza di un elemento è sempre la forma della sua dipendenza, e che il gioco delle differenze è regolato dall’unità di una determinazione in ultima istanza;” (L. Althusser, È facile essere marxista in filosofia? In Freud e Lacan, Editori Riuniti, Roma, 1981, p.145). Relativamente alle questioni, centrali in Spinoza, della concausalità delle leggi naturali e della critica all’antropocentrismo e al finalismo, mi si consenta di rinviare anche a G. Di Benedetto, L’ecologia della mente nell’Etica di Spinoza, Mimesis Edizioni, Milano – Udine, 2009, pp.52-71.

[36] Cfr. L. Althusser, Contraddizione e surdeterminazione (Note per una ricerca) in Per Marx, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2008, pp.81-107 e L. Althusser, Leggere Il Capitale, Feltrinelli, Milano, 1971, pp.193-204.

[37] Cfr. M. Cangiani, Althusser e la critica dell’economia politica in M. Turchetto (a cura di), Althusseriana Quaderni, Rileggere Il Capitale, cit., pp.11-33 e J. Milios, Capital after Louis Althusser. Focusing on value-form analysis in Ivi, pp.129-130.

[38] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.183.

[39] Ivi, pp.196 -197. 

[40] Ivi, p.94.

[41] Ivi, p.95.

[42] Ivi, p.79.

[43] Ivi, p.186.  

[44] Ivi, p.184.

[45] Ivi, p.185.

[46] Ivi, p.190.

[47] M. Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino, 2013, p.112.  

[48] L. Althusser, Il marxismo come teoria finita, in Discutere lo Stato. Posizioni a confronto su una tesi di Louis Althusser, De Donato, Bari, 1978, p.19.

[49] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.240.

[50] L. Althusser, L’avvenire dura a lungo, cit., pp.236-237.   

[51] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.143.

[52] Ibid.

[53] Come ricorda G. M. Goshgarian, l’esposizione del materialismo dell’incontro costituisce parte del contenuto teorico, per l’esattezza il capitolo 16, del testo Essere marxisti in filosofia, la cui prima versione fu terminata nel Luglio del 1976, “poco prima di terminare un libro di duecento pagine centrato sulla questione della dittatura del proletariato”. (G. M. Goshgarian, Prefazione in L. Althusser, Essere Marxisti in filosofia, Edizioni Dedalo, Bari, 2017, p.10), “nel pieno della campagna pubblica contro l’abbandono del concetto di dittatura del proletariato da parte del PCF, annunciato dalla direzione del partito all’inizio del 1976. Ma si tratta di un fatto contingente. «La dittatura del proletariato è il punto cruciale di tutta la storia teorica e politica del marxismo», scrive Althusser nel 1966. Avrebbe potuto asserirlo anche dieci anni dopo o dieci anni prima” (G. M. Goshgarian, ibidem, p.25).

[54] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.144.  

[55] Ivi, p.149.

[56] Cfr. cosa scrive, al riguardo. F. Raimondi: “Il passaggio dalla «contraddizione surdeterminata» al «materialismo aleatorio» rappresenta lo svolgimento di uno stesso problema: quello di spiegare la storia in termini scientifici, con la consapevolezza, però, che, proprio per questo, non è possibile eludere la presenza inquietante di dinamiche fortuite, casuali e aleatorie, accanto a quelle (talvolta sottovalutate dalla tradizione marxista) che fanno capo, genericamente, alla sovrastruttura (ideologia) e al rapporto tra produzione e riproduzione.” (F. Raimondi, L’impensabile politica di Althusser in L. Althusser, Marx nei suoi limiti, Mimesis Edizioni, Milano, 2004, p.32).

[57] Un’esigenza analoga è espressa da Guilherme Cavalheiro a proposito dell’analisi del testo althusseriano Ciò che non può più durare nel Partito Comunista. Cfr. G. Cavalheiro, ll contributo di Althusser alla teoria della pratica politica in Althusseriana Quaderni, Giornate di studio sul pensiero di Louis Althusser, Venezia, 11 e 12 Febbraio 2004, Atti del convegno, (a cura di M. Turchetto), Mimesis Edizioni, Milano, 2006, pp.169-176.

[58] L. Althusser, Le vacche nere, cit., pp.213-214.     

[59] Ivi, p.216.

[60] Ivi, p.219.

[61] Ivi, p.228.

[62] Ivi, p.76 nota 26.

[63] Ivi, p.229.

[64] E. Balibar, Il non contemporaneo in Per Althusser, Manifestolibri, Roma, 1991, p.45.

[65] L. Althusser, Le vacche nere, cit., p.232.