torna alla newsletter
torna a "il caso Iofrida"
vai alla home page

 

 

Pensiero molle.

Per un’esegesi di Marx in Francia di Manlio Iofrida.

Maria Turchetto

 

Amici miei, lasciatevelo dire: non avete capito un tubo nulla dello scritto di Manlio Iofrida. Eppure l’autore via aveva messi sulla buona strada fin dalle prime pagine, in cui apprendiamo che l’evento cruciale per il marxismo del secondo dopoguerra (anche se si è verificato un paio di decenni prima) è il surrealismo e leggiamo di seguito la seguente frase: “Althusser, Foucault, Deleuze, Derrida saranno i veri figli di Breton” (p. 47).

Proprio in questa frase, già di per sé un capolavoro surrealista, sta la chiave di lettura: non abbiamo a che fare con un saggio filosofico (avrebbe costretto lo scritto entro le ristrettezze della coerenza razionale), né tantomeno con il capitolo di un’opera manualistica (che l’avrebbero piegato a una finalità informativa e al rigore documentario), ma con un lavoro artistico. Si tratta forse di un esercizio di stile, più che di un’opera compiuta e originale: un esercizio di puro stile surrealista, per l’appunto. Davvero puro, canonico (se è lecito attribuire “canoni” a questa corrente); in ogni caso fedelissimo al Manifesto del 1924, in particolare al suo celebre incipit: “automatismo psichico, con il quale ci si propone di esprimere […] il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione”.

Vi è sembrato un testo “scritto in stato confusionale” (così Cavazzini), confuso, incoerente, a volte ingenuo a volte delirante. Certo: non dimenticate che il surrealismo tributava al pensiero infantile e alla malattia mentale la capacità di attingere la verità.

Vi siete scandalizzati per alcune incongruenze cronologiche, come la discussione sulla coppia Kultur/Civilisation spostata di un secolo buono? Ma è evidente che qui abbiamo a che fare con un tempo onirico, che non rispetta le scansioni dei calendari e degli orologi (se non di quelli molli).

Cavazzini si scandalizza apertamente per questa frase: “A cosa si riduceva, in sintesi, l’analisi di Le parole e le cose di Foucault (1966), in cui il dialogo col marxismo era centrale, anche se in sordina? All’idea che era inutile opporre la soggettività operaia all’enorme sviluppo tecnologico di cui si stava dimostrando capace il capitalismo: era inutile, ma anche politicamente errato e controproducente, poiché portava in realtà al totalitarismo” (p. 65). Certo, non ha senso (o meglio, non ha senso dal punto di vista di un super-io ragionevole), ma mi sembra abbastanza evidente che si tratta di un cadavre exquis, cioè di uno di quegli esercizi di scrittura collettiva praticati dai surrealisti in cui uno comincia una frase e un altro la completa a vanvera. Mi immagino la scena: a Iofrida è venuto automatico scrivere Le parole e le cose perché aveva appena scritto il nome di Foucault, poi, non avendo letto il libro (non può leggerlo, con la zucca molle che si ritrova) e non sapendo come proseguire, ha chiamato uno studentazzo di passaggio: “Ehi, tu! Scrivimi una frase sul marxismo!” “Marxismo…? Cosa? Come?” “Dài, veloce, quel che ti viene in mente, una cosa qualsiasi!”.

Altre incongruenze apparenti (oddìo, reali: ma di quella realtà conformista che il surrealismo anela a trascendere) – come Althusser movimentista e antileninista, Hegel soggettivista, ecc. – si possono invece facilmente ricondurre alla “scrittura automatica”. Quest’ultima – lo stesso Breton ne era consapevole (oddìo, inconsciamente consapevole, si capisce) – oltre a dar vita a connessioni inedite e inaccessibili alla ragione, spesso porta alla luce orrende paure sepolte. La paura della castrazione, per lo più, nel caso di Breton. La paura di Lenin, senza dubbio, nel caso di Iofrida. Cosa gli avrà mai fatto Vladimir Il'ič Ul'janov da temerlo più dello stesso Stalin? Ah, saperlo. Ma è evidente che Lenin popola il mondo onirico del Nostro peggio del Babau.

In conclusione, cari amici, un po’ di rispetto per chi, ritenendo (e facendo ritenere a molti autori, Foucault compreso) che la rivoluzione si fa con la letteratura, fa le sue brave prove letterarie violando di proposito il senso comune e soprattutto il comune senso del pudore.

Resta naturalmente un dubbio. Perché questo scritto è stato inserito in una Storia del marxismo e non in una rivista come La révolution surréaliste (dove oltretutto avrebbe potuto essere degnamente illustrato, ad esempio con il Tavolino da notte di Alexander Selivestrov che vi propongo qui sotto)? Ma di questo penso di debba chiedere conto a Stefano Petrucciani.