torna alla newsletter
torna a "il caso Iofrida"
vai alla home page
IL MARXISMO, STORIA E ATTUALITÀ
Vittorio Morfino
La nuova Storia del marxismo curata da Stefano Petrucciani,
da poco in libreria, rappresenta uno sguardo complessivo e sintetico
sull’intera storia del marxismo, ripercorrendo il pensiero
che parte da Marx ed Engels e arriva ai giorni nostri.
L’opera fornisce anche un arsenale di concetti per continuare
la lotta intellettuale del marxismo in nuove congiunture.
La storia del marxismo non è per più ragioni una storia semplice. Anche ammesso che un autore possa mai trasmettere una sorta d’unità d’essenza alla sua opera, nel caso del marxismo siamo di fronte a un’opera di due autori, Karl Marx e Friedrich Engels. E che il loro lavoro sia a tal punto intrecciato da non potere essere non solo pensato, ma edito, in modo separato, lo dimostra il fatto che, caso pressoché unico, le edizioni complete o critiche delle opere portano il nome di entrambi.
Ma lo statuto trans-individuale dell’origine non è l’unica ragione di questa complessità. Il marxismo, il cui gesto inaugurale è il Manifesto del partito comunista, nasce come intreccio di teoria e politica, come intervento teorico in quel terreno per sua natura conflittuale che esso stesso teorizza: proprio per questo, come dirà Althusser in uno scritto tardo, è una scienza scismatica, è una scienza della “deviazione” senza “ortodossia”. Infine il marxismo, proprio in virtù di questo legame di teoria e politica, è stato, almeno nelle sue espressioni più alte e creative, intervento in una congiuntura specifica, e non intemporale ricetta per tutti i tempi e luoghi, e dunque è stato ogni volta tentativo di adeguare le categorie dei “fondatori” non solo alla situazione storica e politica in cui si trovava a intervenire, ma anche di raccogliere la sfida di nuovi orizzonti teorici, di nuove discipline.
In uno scritto inedito, che giace negli archivi dell’IMEC, Althusser invitava a pensare il marxismo rinunciando a uno schema temporale lineare e progressivo, a non pensare ciò che viene dopo come semplice accrescimento di ciò che precede cronologicamente. Nella storia del marxismo non ci sarebbero solo avanzamenti, ma anche stagnazioni, arretramenti, perdite secche. E tuttavia Althusser sembrava pensare comunque questa storia all’interno di uno schema in cui fosse rinvenibile una linea fondamentale, una sorta di canone, rispetto a cui fosse possibile misurare questi avanzamenti e ritardi. A me pare, invece, che sia necessario rinunciare a un tale canone per cogliere in tutta la sua complessità e profondità l’“oggetto” marxismo: è forse necessario dotarsi di uno schema che ponga al centro della scena quel multiversum di cui parla Ernst Bloch in Differenziazioni sul concetto di progresso, uno schema capace di cogliere le differenze, gli intrecci e gli strati temporali che ne costituiscono la specificità, rinunciando tanto al modello dell’ascesa quanto a quello del tramonto.
In questo senso mi sembra di inestimabile valore il tentativo fatto da Stefano Petrucciani nei tre volumi della Storia del marxismo da poco uscita (Storia del marxismo, a cura di S. Petrucciani, 3 voll., Roma, Carocci, 2015), un’opera sintetica che in poco più di 700 pagine ci restituisce la storia di questa straordinaria avventura teorica e politica che è stato il marxismo. Si tratta di un’opera collettiva, in cui, come scrive Petrucciani nella Premessa, ciascun autore «con la sua peculiare sensibilità» ha scelto «quali aspetti sottolineare e a quali conferire maggiore importanza» (vol. I, p. 9), in cui entrano in gioco una «molteplicità di prospettive», e tuttavia il risultato in termini di visione d’insieme è di straordinaria rilevanza, sia nel caso dei due volumi storici, sia nel caso del terzo volume tematico.
Da Marx a Gramsci
Il primo volume si apre con un testo di Petrucciani stesso dedicato al costituirsi del marxismo in quanto dottrina e al ruolo fondamentale di Engels in questo senso. Fondamentale lo sguardo storico capace di cogliere le stratificazioni temporali: l’opera di Marx, così come noi l’abbiamo davanti ora sfogliando le edizioni critiche o le raccolte di scritti, non è la stessa che avevano a disposizione i suoi contemporanei. Opere come la Critica del diritto statuale hegeliano, i Manoscritti del ’44, l’Ideologia tedesca, i Grundrisse, saranno pubblicate tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento (in alcuni casi con un vero e proprio colpo di forza, come ci hanno mostrato le più recenti ricerche filologiche), per non citare che testi di innegabile importanza nei dibattitti novecenteschi. Non solo: Petrucciani mostra con estrema chiarezza come il “marxismo” si formi in prima istanza nella contingenza della lotta politica all’interno della Prima Internazionale, per poi fissarsi in vera e propria dottrina dopo la morte di Marx: «Engels è la vera cerniera che segna il passaggio da Marx al marxismo» (vol. I, p. 24), fu Engels che «pur nel contesto di un’opera la cui origine era direttamente polemica, finì per dare del pensiero marxista una visione sistematica, articolata in tre grandi partizioni: Filosofia, Economia politica, Socialismo» (ivi, p. 25), dando luogo a quella vera e propria «visione complessiva del mondo» che trovò nell’Antidühring il suo luogo di espressione privilegiato
Il saggio di Nicolao Merker, Ortodossia e revisionismo nella socialdemocrazia, ricostruisce i lineamenti del dibattito teorico e politico che si sviluppa all’interno della socialdemocrazia tedesca. Cominciano a emergere qui nodi teorici che si ritroveranno con costanza nella storia del marxismo: la questione del rapporto struttura/sovrastruttura e la questione del crollo del capitalismo. La prima questione era meno spinosa: gli studi e alcune lettere del vecchio Engels avevano aperto la strada, si trattava di proseguire rifiutando la riduzione del materialismo storico a un determinismo economicista. Nella questione del crollo era invece in gioco la capacità predittiva della teoria marxista e la strategia politica che da essa dipendeva: gradualismo contro rottura rivoluzionaria, per schematizzare posizioni complesse ai cui due estremi troviamo Bernstein e Rosa Luxemburg.
Il saggio di Marcello Mustè dedicato a Il marxismo teorico in Italia ha il merito di mostrare la grande originalità di un pensatore come Antonio Labriola, il cui hegelismo corretto «attraverso la lezione herbartiana, fin dall’inizio respingeva gli elementi finalistici del “sistema”, volgendosi piuttosto ad una concreta indagine della “genesi” delle idee e dei fatti storici» (vol. I, p. 74). I due punti fondamentali attraverso cui Labriola fissa la sua rilettura del materialismo storico sono: 1) la discontinuità tra uomo e animale, tra natura e storia; e 2) la complessità dell’intreccio degli elementi storici non riducibili al fattore economico. Su questa base il marxismo viene interpretato non come l’enigma svelato della storia, ma come un «metodo di ricerca», un «filo conduttore» dell’analisi storiografica. Interessanti poi le ricostruzioni delle interpretazioni di Marx proposte dai due grandi allievi di Labriola, Croce e Gentile. Sul secondo in particolare e sulla sua Filosofia di Marx, in cui si giunge ad affermare che «guardando nel fondo della filosofia di Marx, si trovava Hegel, non uno Hegel migliorato o “rovesciato”, ma una copia identica al modello, e da esso indistinguibile» (vol. I, p. 97), io credo non si possa non condividere la pacatezza del giudizio di Labriola: «mi pare che sia pazzo».
Nel saggio di Guido Carpi, Il marxismo russo e sovietico, troviamo una preziosa ricostruzione dell’ampio ventaglio di posizioni presenti nel marxismo russo prima della fase rivoluzionaria, così come della posizione di Lenin a ridosso della rivoluzione. Nella prima fase spiccano le figure di Plechanov, in cui il marxismo è pensato «come modello epistemico, deduzione meccanica – sul modello delle scienze esatte – di ogni aspetto della vita umana dai rapporti di proprietà e di produzione» (vol. I, p. 102), di Bogdanov, che riformulando l’empiriocriticismo di Mach lo traduce in termini di «socialismo gnoseologico», naturalmente il Lenin della teoria del partito come falange di «rivoluzionari di professione» e del celebre attacco all’empiriocriticismo, il Trockij della «rivoluzione permanente» sotto la guida della classe operaia. Grande rilievo ha anche il Lenin di L’imperialismo fase suprema del capitalismo in cui viene descritto «con abbondante materiale statistico il processo di concentrazione subito dalle imprese europee»; così Carpi ne sintetizza l’analisi: «le imprese si sono accorpate in grandi monopoli transnazionali che comprendono varie branche [...] e che dipendono in misura sempre maggiore da un capitale finanziario anch’esso sempre più concentrato in poche grandi banche. La simbiosi – anche sul piano dei dirigenti – fra industria e banche si estende ben presto anche alle istituzioni statali, col che il capitale finanziario viene a svolgere un ruolo “universale”: inizia il predominio del capitale finanziario, slegato da qualsiasi attività produttiva, e dunque dell’oligarchia finanziaria e di pochi Stato finanziariamente più forti degli altri; si sviluppa il colonialismo [...] dato il bisogno di esportare i capitali finanziari in paesi meno progrediti [...]; una volta asservito tutto il mondo, il capitalismo finanziario [...] scatena la guerra imperialista» (vol. I, p. 127). Si tratta di trasformare allora la guerra imperialista in guerra civile, «spingere i proletari in uniforme a conquistare il potere e trasformare in senso socialista l’economia pianificata» (vol. I, p. 128). Nelle Tesi di aprile prima e in Stato e rivoluzione poi vengono definiti i termini di questo passaggio attraverso soviet e dittatura del proletariato intesa come Stato «a tempo determinato». L’analisi della fase postrivoluzionaria è estremamente sintetica e culmina nell’analisi dell’ideologia stalinista: «Negli anni trenta, la cultura staliniana si autocostruisce progressivamente, in almeno due tappe: la prima [...] è volontaristica, visionaria, dominata dall’idea della trasformazione del mondo e dell’interiorità dei singoli attraverso il lavoro collettivo organizzato. [Nella seconda] la necessità di disciplinare ed educare nuove masse di operai (ex contadini inurbati) porta a smorzare il precedente pathos classista e operaista e ad accentuare il pathos umanistico, la monoliticità del popolo, garantita dal rapporto carismatico con la “guida” [...]. Dalla prima alla seconda fase della cultura staliniana si vanno affievolendo il principio egualitario, il volontarismo, il culto del piccolo uomo (da riforgiare o meno), mentre si afferma un onnipresente principio gerarchico e il culto degli eroi» (vol. I, p. 140).
Di estremo interesse il capitolo dedicato ancora da Merker all’“austromarxismo” in cui, in particolare in Adler e Bauer, ha luogo un ripensamento del marxismo alla luce di Kant. Ma al di là della questione metodologica, di grande rilievo sono lo sviluppo di alcuni temi teorico-politici: l’analisi della questione nazionale e il passaggio al socialismo per vie legali. Quanto alla prima questione è fondamentale il testo di Otto Bauer, La questione delle nazionalità e la socialdemocrazia (1907), in cui viene rifiutata ogni sostanzializzazione metafisica della nazione, «cercando una definizione sistemica che ne contenesse i molteplici caratteri denotativi»: «si trattava di connettere la storia comune come causa efficiente, la cultura e discendenza comuni come mezzi dell’azione di quella causa, la lingua comune come strumento di mediazione della cultura in quanto insieme la produce e ne è prodotto» (vol. I, p. 155). La nazione è dunque «un’entità di genesi storica» (ivi, p. 154), che non può essere cancellata in una futura società socialista, ma deve essere valorizzata. Di qui anche, nella prefazione del 1924, la polemica con l’idea che un partito, quello comunista russo, possa dettare i metodi di lotta agli altri senza tener conto delle specificità nazionali. Quanto alla seconda, al di là delle differenti posizioni di Adler, Renner e Bauer, vi era la comune concezione dello Stato come “leva del socialismo”, cioè «l’idea che il socialismo si sarebbe realizzato, essenzialmente, a partire da strumenti giuridici capaci di preparargli la strada» (vol. I, p. 158), idea che condivise lo stesso Hans Kelsen.
Il capitolo di Giorgio Cesarale, Filosofia e marxismo tra Seconda e Terza Internazionale, è una splendida sintesi che offre un confronto tra le principali figure trattate nei capitoli precedenti, questa volta soffermandosi però sulla questione cruciale della filosofia. È preso qui in esame un tratto di quella affascinante avventura che è stata la ricerca della filosofia marxista, cominciata con un’assenza, quelle dieci pagine che Marx non scrisse mai sulla dialettica. Cesarale ricostruisce le differenti posizioni: quella dell’Engels dell’Antidühring e della Dialettica della natura in cui è centrale lo specifico rapporto istituito con Hegel (appropriazione del metodo dialettico e rinuncia al sistema), per compiere il rovesciamento materialistico; quella monistica di Plechanov; quella del revisionismo di Bernstein, che rifiuta il fatalismo dialettico del processo storico per proporre il socialismo come ideale etico; quella del neokantismo socialista nelle sue differenti declinazioni; la critica di Kautsky a queste posizioni, sulla base di un’alleanza teorica tra marxismo e darwinismo; e ancora la polemica leninista con l’empiriocriticismo, ma soprattutto il tentativo dei Quaderni filosofici di «riscrivere in modo “materialistico” l’intero itinerario della Logica hegeliana, dalla dottrina dell’essere alla dottrina del concetto» (vol. I, p. 201), lo scontro tra meccanicisti e dialettici nell’Unione Sovietica degli anni Venti; infine la fondamentale presa di posizione sulla dialettica di Mao in Sulla contraddizione, in cui viene proposta una serie di distinzioni, «quella fra l’universalità e la particolarità della contraddizione, quella fra contraddizione principale e contraddizione secondaria e quella fra l’aspetto principale di una contraddizione e il suo aspetto secondario» (vol. I, p. 223).
La parte più importante del capitolo è quella dedicata all’esposizione dei due testi che hanno segnato la nascita del cosiddetto “marxismo occidentale”, Storia e coscienza di classe di Lukács e Marxismo e filosofia di Korsch. Giustamente Cesarale sottolinea come la prima sia «probabilmente l’opera di filosofia marxista che ha avuto gli effetti teorici più dirompenti nel corso del Novecento» (vol. I, p. 205); il concetto cardine, la vera e propria invenzione teorica di Lukács, è il concetto di reificazione, che diventa il perno di una filosofia della storia di cui il proletariato costituisce il soggetto assoluto: in esso «sono poste tutte le risorse per distruggere la struttura “reificata” della coscienza borghese moderna e per defeticizzare il rapporto dell’individuo con la totalità sociale» (vol. I, p. 210).
Il primo volume si chiude con il bel saggio di Guido Liguori dedicato al pensiero di Antonio Gramsci, di cui vengono ricostruiti in modo sintetico, nella prima parte, la formazione e gli esordi politici, il consiliarismo dell’Ordine Nuovo, i cui limiti Liguori individua in «una eccessiva concentrazione sul ruolo strategico della fabbrica a discapito di una visione d’insieme [...] della società e della possibile rivoluzione in Italia, a partire dall’alleanza tra operai e contadini» (vol. I, p. 245). Nella seconda parte, dedicata a Gramsci come dirigente comunista e ai Quaderni, viene messo in luce l’enorme sforzo di costruire degli strumenti teorici necessari a produrre una conoscenza della realtà italiana, i cui primi risultati sono visibili in Alcuni temi della quistione meridionale: «In questo lavoro – scrive Liguori – la condizione del Mezzogiorno risulta centrale per tutto il sistema di potere messo a punto dalla borghesia italiana dall’Unità in avanti. Il mantenimento dell’arretratezza del Sud agricolo, infatti, serviva per garantire un mercato protetto per le merci prodotte al Nord, sia un utile esercito industriale di riserva. La società meridionale a sua volta era vista come composta da tre strati sociali: tra la grande massa contadina e il ristretto numero di proprietari terrieri l’analisi gramsciana assegnava un ruolo decisivo all’intellettualità piccolo-borghese [...] che frenava e imbrigliava il ribellismo contadino in un senso conservatore e subalterno. [...] In questo scritto compariva per la prima volta in modo rilevante in Gramsci il concetto di egemonia [...] per indicare la capacità della classe operaia di “dirigere” i contadini» (vol. I, p. 251).
Proprio il concetto di egemonia diventerà uno dei concetti cardine dei Quaderni, quello attorno al quale ruoterà la straordinaria rielaborazione della tradizione marxista proposta da Gramsci. Alla base dei concetti gramsciani di guerra di movimento e guerra di posizione, così come di intellettuale organico e di rivoluzione passiva, sta una nuova concezione dello Stato, lo Stato allargato: «il potere non era più visto risiedere in un “Palazzo d’Inverno”, ma appariva a Gramsci articolato, diffuso in innumerevoli siti politici, culturali ed economici, che tutti insieme costituivano lo “Stato integrale”. Erano soprattutto i secondi (gli “apparati culturali”) a costituire la novità maggiore del controllo esercitato dal potere nel capitalismo avanzato» (vol. I, p. 260). Di qui la concezione del Moderno Principe, del Partito, come partito di massa capace di una lotta «molecolare» e portatore di una «riforma intellettuale e morale» volta a preparare il passaggio al socialismo.
Dopo il fascismo
Il secondo volume si apre con il saggio di Cristina Corradi sulle Forme teoriche del marxismo italiano (1945-1979). Vi troviamo una ricostruzione dell’uso politico che Togliatti fece dei Quaderni nel dopoguerra attraverso una lettura storicistica, che fu largamente egemone, definita da Corradi come impasto singolare di «crocianesimo, gramscismo e marxismo sovietico, privo di riferimenti diretti a Marx ma molto aderente alla realtà nazionale» (vol. II, p. 11): «Dei Quaderni – scrive Corradi – lo storicismo valorizza la lettura della storia del Risorgimento in chiave di rivoluzione borghese incompiuta e di riforma agraria mancata; sottolinea la questione meridionale e il dualismo tra città e campagna; pone l’accento sull’autonomia delle sovrastrutture, sul primato della politica, sulla teoria del partito come moderno principe. Trascura invece la critica al trasformismo, del moderatismo, del riformismo liberale e della dialettica neoidealistica; svaluta le note su Americanismo e fordismo, che contrastano con una concezione stagnazionista del capitalismo; riduce la lotta per l’egemonia alla conquista del consenso e appiattisce il concetto di guerra di posizione sulla politica antifascista e democratica» (vol. II, p. 13). Non sorprende, in questo quadro, l’isolamento politico di Bordiga: «nel periodo del massimo vigore di Stalin il suo giudizio sulla natura imperialistica del secondo conflitto mondiale e le sue critiche all’Urss appaiono irricevibili; in piena rivoluzione industriale fordista le sue analisi del capitale come accumulazione illimitata e dominio impersonale sembra destinata all’incomprensione» (vol. II, p. 14). E tuttavia Cristina Corradi ci invita a non sottovalutarne l’influenza, nella misura in cui anticipa le principale critiche della nuova sinistra allo storicismo e al togliattismo e apre la strada, attraverso le sue analisi economiche, a Panzieri e Montaldi. Sono tuttavia gli anni Sessanta che vedranno il sorgere delle due correnti più originali del marxismo italiano, entrambe in polemica con lo storicismo dominante: il dellavolpismo e l’operaismo. Corradi ci offre gli sviluppi del primo da Della Volpe a Colletti e del secondo da Panzieri a Tronti e Negri.
Il saggio di Eleonora Piromalli e di Stefano Petrucciani dedicato alla Scuola di Francoforte tenta una sintetica ricostruzione delle differenti fasi attraverso le quali il gruppo di intellettuali che si riunirono attorno all’Istituto per la ricerca sociale diretto da Max Horkheimer ha sviluppato, «attraverso un approccio interdisciplinare, un programma di critica della società [...] su basi marxiste» (vol. II, p. 78). Una delle caratteristiche fondamentali dell’approccio francofortese è individuabile nell’affermazione della necessità di integrare marxismo e psicoanalisi: essa emerge nei primi studi di Horkheimer e di Fromm per poi ricevere una forma paradigmatica negli scritti di Marcuse, in particolare in Eros e civiltà. Altro tema di grande rilevanza è una genealogia del dominio la cui logica non è riconducibile alla sola economia capitalistica, ma deve essere rintracciata, è questa la tesi della Dialettica dell’illuminismo, nella stessa natura della ragione Occidentale: «Fin dagli albori della civiltà, la conquista di autonomia dall’ambiente e dagli impulsi naturali, ottenuta attraverso la razionalità strumentale, è stata pagata con la sottomissione alla repressione ce i poteri dominanti esercitano su tutta la società e ogni individuo su se stesso» (vol. II, p. 90). Vi è in altre parole una solidarietà tra la ragione strumentale, che ci libera dal mito sottomettendo la natura e il dominio dell’uomo sull’uomo: la sola prospettiva di liberazione consiste allora nella capacità dell’umanità di «conciliarsi tanto con la natura, vista non più come oggetto di dominio, quanto con se stessa, nel segno di una ragione che non sia più mera tecnica di autoconservazione, ma diventi organo di universalità, libertà e solidarietà» (vol. II, p. 91).
Altro tema di grande rilevanza è la critica francofortese all’industria culturale, tema soprattutto adorniano, di cui si esibisce la standardizzazione e la differenziazione dei consumi come elemento funzionale alla costruzione di forme di individualità integrate al sistema, critica che Marcuse sposterà sul piano dell’analisi della politica, nell’Uomo a una dimensione, denunciando «con grande lucidità ed efficacia i processi di spettacolarizzazione e ipersemplificazione della democrazia» (vol. II, p. 100).
Il saggio di Cesarale Filosofia e marxismo nell’Europa della Guerra fredda ha come suo centro gravitazionale le figure di Bloch e del secondo Lukács, pur non tralasciando di menzionare una serie di autori di rilievo, come quelli che formarono la cosiddetta “scuola di Budapest”, il gruppo che si riunì intorno alla rivista Praxis in Jugoslavia, Karel Kosik in Cecoslovacchia, Evald Ilienkov in Unione sovietica, infine il gruppo della sinistra francofortese (Krahl, Schmidt, Reichelt e Backhaus). Di Bloch Cesarale ci restituisce brevemente il cammino a partire dagli scritti giovanili sino al suo opus magnum, il Principio speranza, la cui originalità rispetto a tutta la tradizione è ben fissata in queste righe: «La filosofia marxista è la filosofia del futuro, non perché non riesca a dar conto della totalità delle linee di sviluppo della storia, ma perché è filosofia che prende coscienza della decisività della docta spes, della speranza consapevole, del “sognare che spinge in avanti” (Lenin): cosa che non riesce neanche al più alto razionalismo borghese, quello di Kant e di Hegel» (vol. II, p. 110). Di Lukács è riscostruito in sintesi il percorso che va dall’autocritica a Storia e coscienza di classe sino al testo princeps della seconda fase, l’Ontologia dell’essere sociale. In questo testo Lukács offre una critica delle principali correnti filosofiche del Novecento, proponendo un’ontologia dell’homo faber, un’ontologia del lavoro come attività teleologica, il cui soggetto è un genere umano che è dato in sé, ma il cui darsi per sé, lungi dall’essere, hegelianamente, il destino del processo, «è sempre una possibilità, legata al fatto che è nell’individuo che si deve attuare la crescita dalla particolarità all’universalità, è nella tensione fra capacità universali del genere e loro iscrizione all’interno della personalità individuale che si decide l’esito positivo o negativo del processo» (vol. II, p. 125).
Interessanti per il lettore occidentale i due saggi dedicati a Marxismo e rivoluzione in Asia e al Marxismo in America Latina rispettivamente di Guido Samarani e José Paulo Netto. Il primo ha un taglio più storico e ricostruisce l’esperienza della rivoluzione vietnamita, di quella coreana e di quella cinese mettendo in luce le differenti declinazioni del marxismo presenti in Ho Chi Min, Kim il Sung e Mao. Naturalmente a quest’ultimo, alle differenti fasi del suo pensiero dagli esordi sino alla rivoluzione culturale e alle complesse relazioni con il marxismo-leninismo sovietico è dedicata la parte più ampia della trattazione: Samarani ne individua il nucleo fondamentale in un movimento pendolare tra due estremi, «una visione centralista, gerarchica e autoritaria del potere, sancita anche dal periodico richiamo positivo, nei suo scritti e discorsi, a leader forti nella storia cinese» e la riaffermazione costante dell’«importanza del ruolo delle masse in quanto attori della storia» (vol. II, p. 156).
Il secondo si presenta come un veloce sorvolo del marxismo latino-americano dalle origini nel primo Novecento a oggi, la cui unità secondo l’autore può essere pensata solo come «non-identitaria, come unità del diverso». In realtà più che di una vera e propria ricostruzione, si tratta di una bibliografia ragionata che apre al lettore la possibilità di ulteriori approfondimenti, la cui utilità è indubbia. Non sarebbe però stato privo di utilità soffermarsi in modo più ampio su alcune figure fondamentali, come quella di Marietegui all’inizio del Novecento, sul gruppo di Pasado y presente guidato da Aricó e Portantiero, e senz’altro fare almeno cenno ad Alvaro Garcia Linera, il cui contributo è tra i più originali del panorama contemporaneo.
Il secondo volume si chiude con un saggio di Callinicos sul Marxismo anglosassone che ricostruisce la storia del marxismo anglo-americano dal dopoguerra ai giorni nostri. In un primo momento esso è una figura marginale rispetto alla cultura anglosassone pur avendo tra le proprie fila, in Inghilterra «una splendida galleria di storici [...] fra i quali si possono citare Edward Thomson, Christopher Hill, Eric Hobsbawn, Rodney Hilton e George Rudé» (vol. II, p. 192), e, nell’altra sponda dell’atlantico il gruppo di intellettuali raccolti intorno alla Monthly Review tra i quali Paul Baran, Paul Sweezy e Harry Magdoff. È negli anni Sessanta che il marxismo accrebbe la sua importanza sia in Inghilterra che negli Stati Uniti: nella prima giocò un ruolo l’influsso di Althusser e della sua scuola attraverso la mediazione della New Left Review diretta da Perry Anderson e dei cultural studies di Williams e Hall; negli Stati Uniti fu invece forte l’influsso francofortese anche «sotto l’influenza personale di Herbert Marcuse e Leo Löwenthal, i quali dopo la seconda guerra mondiale non ritornarono dall’esilio americano» (vol. II, p. 194). Tuttavia è solo negli anni Ottanta che prese forma una tendenza «teorica marxista specificamente anglosassone», il marxismo analitico, sviluppato in direzioni significativamente differenti da autori come Cohen, Elster, Rohmer. Se la tesi centrale di Cohen, volta a ripensare la struttura concettuale del materialismo storico, «implicava l’elaborazione di un tipo di spiegazione, la spiegazione funzionale, che gli permise di affermare che i rapporti di produzione esistono a causa della loro tendenza a sviluppare le forze produttive e che la sovrastruttura esiste perché tende a stabilizzare questi rapporti» (vol. II, p. 198), in Making sense of Marx Elster fonda la sua lettura sulla duplice tesi dell’individualismo metodologico e della razionalità strumentale degli individui, Rohmer infine «si è sforzato di isolare la teoria marxiana dello sfruttamento dalla teoria del valore-lavoro e di riformularla utilizzando la teoria dell’equilibrio generale e dei giochi» (vol. II, p. 199).
I nodi teorici
Il terzo volume ha una struttura differente rispetto a quella che potremmo definire geo-storica dei primi due. Come scrive Petrucciani, «procedendo in modo tematico, vuol essere uno strumento per ragionare sui molti nodi teorici, coinvolgenti una grande quantità di discipline [...], attorno ai quali la riflessione di Marx e dei marxisti si è affaticata, schiudendo problematiche che anche oggi non hanno affatto esaurito il loro interesse» (vol. III, p. 9). Non dunque una ricostruzione del dibattito contemporaneo, ma piuttosto, una selezione, rispetto ai diversi temi trattati, di ciò che nella tradizione parla ancora alla nostra contemporaneità.
Il volume si apre con un saggio di Riccardo Bellofiore su Capitale, teoria del valore e teoria della crisi, in cui ci l’autore ci offre in modo sintetico e rigoroso la propria lettura. Si tratta di un saggio di natura diversa rispetto a quelli che completano il volume poiché qui il riferimento ad altre letture è occasionale, mentre viene proposta una lettura originale della “critica dell’economia politica marxista” la cui differenza specifica è descritta in questi termini: «l’oggetto principale, e pressoché esclusivo, dell’analisi è il capitale [...] inteso come un rapporto di produzione caratterizzato da due elementi: lo “sfruttamento” in un’economia che produce merci, e una sistematica tendenza alla “crisi”. Lo strumento teorico utilizzato da Marx per mostrare sia la connessione tra il denaro e lo sfruttamento che il carattere endogeno della crisi è la teoria (monetaria) del valore-lavoro (astratto)» (vol. III, p. 11). Centrale in questa lettura monetaria di Marx, che più che come un’interpretazione si presenta come una «ricostruzione», secondo le parole dello stesso autore, è l’intendere il denaro in modo differente rispetto a Marx, cioè non più come merce ma come «finanziamento bancario della produzione, creato ex nihilo dall’insieme delle banche, come negli approcci circuitista e postkeynesiano»: in questo modo la famigerata questione della trasformazione dei valori in prezzi «si dissolve come neve al sole» (e su questo punto è particolarmente interessante una lunga parentesi su Sraffa di cui è proposta una lettura differente rispetto a quella della vulgata, cfr. p. 39) e si pongono le basi per una teoria marxista non solo delle crisi classiche, ma anche di quelle che caratterizzano questi anni in cui «il finanziamento delle imprese dalle banche si è mantenuto, ma con un diverso percorso che ha ora come punto di partenza l’indebitamento delle famiglie» (vol. III, p. 48).
Di estrema chiarezza il capitolo dedicato da Giulio Azzolini ai sistemi-mondo, di cui l’autore schizza una preistoria schematizzata in quattro elementi: la scuola dependentista; l’interpretazione sovietica del «modo asiatico di produzione» e la questione della necessità degli stadi di sviluppo; la disputa tra Dobb e Sweezy sul passaggio dal feudalesimo al capitalismo; infine la lezione offerta dalla storiografia delle Annales, in particolare da Braudel. La storia comincia con Immanuel Wallerstein, considerato il fondatore della scuola, e continua con André Gunder Frank e Giovanni Arrighi. Non è possibile entrare nello specifico delle analisi dei singoli autori, così come delle loro differenze, è sufficiente seguire Azzolini nella descrizione di ciò che caratterizza la prospettiva sistemica: «è lo sforzo di coniugare in una nuova unità d’analisi sociale, il sistema-mondo, gli insegnamenti di Marx con quelli di Fernand Braudel, Raul Prebish, Joseph Schumpeter e Karl Polanyi. L’apporto principale delle “Annales” è essenzialmente di tipo metodologico [in particolare] l’attenzione nei confronti delle macroregioni in quanto unità di analisi privilegiate per una storia materiale, ovvero agricola, commerciale, industriale. Ma il WSA [World-Systems Approach] è anche un’emanazione di una teoria della dipendenza: di questa accoglie l’idea di una gerarchizzazione funzionale del sistema-mondo. Le altre fonti decisive sono Schumpeter e Polanyi: il primo sollecita la propensione a riconoscere successioni cicliche nella storia economica; il secondo suggerisce la tripartizione dei criteri di organizzazione economica: reciproco, distributivo mercatistica» (vol. III, p. 100).
Nel capitolo sulle Teorie dello Stato e della democrazia, scritta a più mani da Piromalli, Petrucciani e Cesarale, la maggior parte dell’esposizione è dedicata alle posizioni di Miliband e Poulantzas e al dibattito che ha avuto luogo tra questi due autori. Miliband nel suo libro The State in Capitalist Society si propone di sostenere «che nelle società capitalistiche contemporanee si può chiaramente identificare una “classe dominante”, e che questa classe dispone delle principali leve del potere sociale e controlla anche [...] il potere politico» (vol. III, p. 57). Sul secondo punto è interessante la distinzione tra «potere politico dello Stato» e «governo»: «La macchina dello Stato è infatti composita e articolata: essa comprende innanzitutto un vasto apparato amministrativo e burocratico che in talune sue parti [...] è ampiamente autonomo dal potere governativo. Include forze di polizia e apparati militari che il governo legittimo non sempre controlla completamente; comprende le strutture della magistratura, che di regola sono indipendenti dal potere politico; e molte altre articolazioni, diverse da paese a paese, che fanno della macchina statale un organismo complesso e multiforme. I parlamenti eletti dal popolo, e i governi che [...] rispondono a questi parlamenti, esercitano dunque su tutta questa macchina, e sul potere di cui essa dispone, un controllo limitato e parziale» (vol. III, p. 58). Le élites statali che detengono questo potere «provengono in ampia misura dagli strati della media e alta borghesia, che è strettamente intrecciata con i gruppi capitalistici e imprenditoriali», facendo sì che «le classi proprietarie [dispongano] [...] in forza di questo intreccio, di una notevole capacità di influenzare o controllare i poteri pubblici» (vol. III, p. 58).
Di contro Poulantzas, più che fissare lo sguardo sul legame élites statali-classe dominante, attraverso una originale sintesi teorica di grasmscismo e althusserismo, afferma che lo Stato, «nella società capitalistica, ha l’irrinunciabile funzione di organizzare, coordinare e tutelare l’operare integrato delle diverse strutture, facendo sì che esse concorrano alla riproduzione del modo di produzione capitalistico» (vol. III, p. 68). Le istituzioni dello Stato hanno dunque la funzione di consolidare il potere della classe egemone: «la classe capitalista incanala il proprio potere attraverso le istituzioni statali, le quali lo espandono, lo rafforzano e lo riproducono per mezzo delle politiche intraprese dallo Stato e delle diverse funzioni politiche, economiche e repressive», in altre parole «il mantenimento del modo di produzione capitalistico necessita [...] della funzione dello Stato, relativa alla conservazione dell’equilibrio asimmetrico tra le classi» (vol. III, pp. 68-69). Questa funzione dello Stato come elemento di coesione che troviamo in Potere politico e classi sociali, sarà ripensato negli scritti degli anni Settanta in termini di «condensazione materiale di un rapporto di forze fra classi e frazioni di classe», concezione che ne farà uno dei teorici di “sinistra” dell’eurocomunismo.
Nel capitolo dedicato da Luca Basso al Marxismo nelle scienze umane troviamo, in una prima parte, un veloce sorvolo del nesso marxismo-psicologia/psicoanalisi da Vigotskij a Reich e Marcuse, da Sartre a Althusser, fino all’Anti-Edipo con cui Deleuze e Guattari «tentano di dare vita a una psicologia materialistica, fondata sull’incrocio tra marxismo e psicoanalisi, ma a partire da una critica dell’impostazione freudiana, e quindi all’ “asservimento” dell’inconscio all’Edipo, e alla legittimazione della famiglia borghese. In tale prospettiva feconda non vengono sottoposti a critica solo l’approccio freudiano, ma anche le correnti dell’antipsichiatria contemporanea, le quali in modo surrettizio riproducono un “familiarismo” allargato e confortevole [...] e anche il “freudo-marxismo” di Reich e Marcuse, incapace di cogliere fino in fondo la co-appartenenza di produzione desiderante e produzione sociale» (vol. III, p. 145). Nella seconda parte viene affrontata la questione del nesso antropologia-marxismo a partire dall’opera di Lévi-Strauss e dal dialogo che con essa stabilirono alcuni antropologi marxisti, primo fra tutti Maurice Godelier. Da questo nesso emergono a parere di Basso «due plessi teorici particolarmente rilevanti»: «il primo plesso concerne la sfera simbolica, immaginativa, religiosa, si potrebbe dire anche ideologica, sulla base di una concezione che non riduce l’ambito indicato a mera sovrastruttura. [...] Il secondo plesso riguarda l’analisi delle forme precapitalistiche, e in particolare di quelle primitive. Nonostante alcuni limiti del discorso marxiano, tra cui l’esistenza di uno schema troppo lineare dello sviluppo storico, il marxismo e lo strutturalismo al riguardo, presentano [...] aspetti comuni» (vol. III, p. 161).
Il saggio di Cinzia Arruzza sul Femminismo marxista ci offre una limpida ricostruzione della questione che ha avuto una «fioritura [...] intensa ma breve» tra la metà degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta ed una ripresa negli ultimi anni. L’autrice di offre una schematizzazione dei filoni principali: «Il primo filone tematico può essere definito come quello del ripensamento della critica marxiana dell’economia politica dal punto di vista non solo dell’oppressione delle donne, ma del ruolo svolto dal genere nella produzione e riproduzione del capitale. I maggiori dibattiti hanno riguardato la questione del lavoro domestico, del rapporto strutturale tra capitalismo e patriarcato, e, infine, della riproduzione sociale [...]. Il secondo filone ha posto al centro della propria attenzione la relazione tra genere, classe e razza. Infine, il terzo, più recente nasce dalla frattura determinatasi dall’affermarsi della teoria queer all’interno del dibattito femminista più generale» (vol. III, p. 173).
Last but not least, il saggio dedicato da Stefano Velotti ad Estetica, arte cultura nella riflessione marxista che ci offre una ricostruzione necessariamente selettiva delle differenti posizioni intorno all’estetica che si sono presentate nella storia del marxismo occidentale. È impossibile riassumere in poche righe la complessità delle posizioni trattate da Lukács a Adorno, da Bloch a Benjamin, è sufficiente forse ricordare i due fondamentali spunti marxiani a partire da cui è stato possibile in ambito marxista sviluppare un’estetica: da un lato la non contemporaneità della produzione culturale e artistica rispetto allo sviluppo della società, dall’altra un’antropologia che vede l’homo aesteticus come fondamentale paradigma dell’uomo disalienato.
Come risulta dalla rapida esposizione del contenuto dei tre volumi, si tratta di un’opera che ha l’indubbio merito di offrire alle nuove generazioni uno sguardo complessivo e sintetico sull’intera storia del marxismo. Più di quanto si sia potuto evidenziare, nei differenti saggi non vi è solo la costante preoccupazione di mettere in luce il legame tra gli autori trattati e le congiunture storiche in cui essi si trovarono a pensare e ad agire, ma anche a restituirci la non linearità dei percorsi dei singoli autori, i cambiamenti e le discontinuità che li hanno caratterizzati. Certo, un’opera di questo genere non poteva che tracciare i contorni di un territorio, lasciando al lettore gli approfondimenti necessari, e tuttavia forse, a figure di primo piano come Sorel, Rosa Luxemburg e Benjamin si sarebbe dovuto concedere uno spazio maggiore. L’opera, nel complesso, però, non solo porta davanti ai nostri occhi il glorioso spettacolo di una lotta intellettuale combattuta con straordinario coraggio e intelligenza dentro o al fianco del movimento operaio (basti pensare che molti delle figure prese in considerazioni hanno pagato con la prigione e con la vita il coraggio delle loro idee), ma ci fornisce anche un arsenale di concetti raffinati e potenti per continuare questa lotta in nuove congiunture.
In cauda, qualche riga sull’unico saggio che a mio avviso non coglie l’obiettivo della raccolta, che resta quello di fornire una conoscenza di base degli autori trattati all’interno della congiuntura storica in cui vissero. Mi riferisco a Marx in Francia, di Manlio Iofrida. La lettura di queste pagine provoca un forte senso di “spaesamento”: gli autori trattati sono riconoscibili per il nome, per qualche loro celebre concetto, e allo stesso tempo resi inintellegibili sotto il peso di una grande quantità di etichette vaghe quali «spontaneismo», «luxemburghismo», «leninismo», «stalinismo», «antistalinismo», «marxismo occidentale», «esistenzialismo», «post-strutturalismo», etichette che si sostituiscono all’esposizione del pensiero e dei suoi sviluppi. Iofrida inoltre mi sembra non decida quale debba essere l’oggetto del suo saggio: il marxismo francese, la lettura di Marx in Francia, l’interpretazione del capitalismo e del blocco sovietico. Le congiunture storiche hanno lo stesso grado di vaghezza delle etichette teoriche, tutto è dominato dall’attribuzione di un carattere fondamentale che pretende di stabilire una volta per tutte l'essenza del marxismo francese: il suo “spontaneismo”. E chiaramente Iofrida ha difficoltà a situare in questo orizzonte le due figure maggiori del dopoguerra, Sartre e Althusser. Rispetto a quest’ultimo è interessante rilevare come fatto di costume che Iofrida ne fa uno dei veri figli del surrealismo (vol. II, p. 47), un esempio di radicamento nella tradizione esistenzialistica francese (vol. III, p. pp. 68-69) e che propone una derivazione del concetto di «rivoluzione come evento imprevedibile» da Husserl, Heidegger, Nietzsche e perfino Derrida (vol. II, p. p. 66). Come esempio, mi sembra sufficiente, ma si potrebbe citare anche un passaggio sul Foucault delle Parole e le cose che sembra il prodotto di un vero e proprio automatismo psichico (cfr. vol. II, p. 65). Più in generale, e questo è forse un limite della progettazione dell’opera, ad Althusser e alla sua scuola si sarebbe dovuto dedicare un capitolo, così come si è fatto per la scuola di Francoforte, nel tentativo di misurare gli effetti che la lettura althusseriana di Marx ha prodotto non solo nel campo più strettamente filosofico e della teoria della storia, ma sia in ambito epistemologico, che nelle scienze umane, dalla psicoanalisi, all’antropologia, dalla sociologia alla teoria del discorso, dalla teoria del diritto, dello Stato, dell’ideologia sino alla teoria estetica. In parte questo lavoro è stato fatto in alcuni capitoli del terzo volume, ma una visione d’insieme sarebbe stata tanto più utile se si pensa al fatto che la ripresa mondiale del marxismo in questi anni sta passando in buona parte per la discussione di questo “nodo” storico e teorico fondamentale: quello che potremmo chiamare, prendendo a prestito l’espressione coniata da Pocock in riferimento a Machiavelli, il “momento” althusseriano.