Una risposta di Gianfranco La Grassa all'articolo di Mimmo Porcaro pubblicato sul Bollettino n. 12
Caro Mimmus,
ho letto il tuo saggio sul bollettino degli althusseriani e ne ho ricevuto,
come sempre accade normalmente, le solite sensazioni altalenanti. Cominciamo,
perché anche questo è nella norma, da quelle piacevoli. Mi
sembra sia stato giustamente usato il pensiero di Althusser e di Machiavelli
in senso politico. Questo è in fondo un corretto omaggio al primo
che è sempre stato, nella sua battaglia teorica, un animale prettamente
politico, impegnato nel confronto-scontro all'interno del PCF e del movimento
comunista in generale. Quindi, approvo pienamente l'angolazione del tuo
scritto.
E' anche logico che, quando si utilizza un pensiero in direzione della politica,
si debba attualizzare quest'ultimo, impiegarlo nella battaglia in atto nel
presente. Inoltre, almeno in prima lettura, mi sembra che tu dica
cose senz'altro sensate per quanto riguarda la fondazione e la durata,
l'uno (il Principe o il Partito) e il molteplice (il Popolo?
La Classe? Il Movimento? I lavoratori subordinati? I dominati? I "produttori"
tutti?), ecc. C'è tuttavia in quello che dici un certo tono generale,
uno sfondo d'insieme, ecc. che sollevano le mie perplessità; termine
eufemistico che, come ben sai, si usa con gli amici ed in un'epoca in cui
sarebbe demenziale indossare i panni del polemista di tipo marx-leninista.
Dopo una prima parte teoricamente assai densa e pregnante, mi sembra di
notare un dolce scivolamento verso la leggerezza dell'essere della
congiuntura attuale nel suo "concreto darsi storico" che appare
assolutamente nuovo, abbagliante nella sua improvvisa presenza colma di...vuoto.
In effetti si parla di "movimento nuovo" dove quest'aggettivo
invitante copre un'assoluta mancanza di contenuti. Malgrado questa vuotezza,
il movimento operaio è da te invitato ad autoriformarsi per adeguarsi
alla sua novità (e al suo movimentismo); dove ancora una volta, l'espressione
movimento operaio non si capisce più bene a che si riferisca. Storicamente,
il movimento operaio non è mai stato un insieme empirico-sociologico
di individui di un certo tipo; è stato identificato a volte con il
movimento comunista, altre con quello socialdemocratico o ancora con le
sue organizzazioni sindacali, e via dicendo. Bisognerebbe capire meglio
di quale movimento operaio si tratti; e soprattutto se si possa ancora usare
questa espressione carica di significati storico-politici, che potrebbero
essere svianti arrivati a questo punto.
L'invito alla concretezza storica mi ricorda il PCI togliattiano all'epoca
della polemica con il PC cinese. Questa concretezza si è identificata
troppe volte con una sorta di pragmatismo storicistico per cui l'analisi
teorica era di volta in volta piegata alla giustificazione della prassi
comunistica del qui ed ora. Non vorrei che l'intellettuale organico
al partito venisse sostituito con quello organico al movimento detto nuovo.
Questa attitudine dell'intellettuale (non dell'ideologo ma dello studioso)
ad adattare la teoria - in una prima fase sviluppata persino con alta dottrina
e sapienza - alla prassi più contingente (e congiunturale) è
esattamente quella seguita anche da Stalin e presa in giro nella Fattoria
degli animali di Orwell. Se anche sostituiamo il "cattivissimo"
e "sanguinario" capo di un partito monolitico con il buon samaritano
del movimento nuovo e plurivariegato, non per questo l'attitudine servile
dello studioso "organico" può essere in un qualsiasi modo
riabilitata; né può conseguire alcun reale risultato scientifico.
Semplicemente, l'intellettuale - a questo punto soltanto ideologo - fa da
furiere di complemento del movimento "in battaglia", gli fornisce
l'alimento della sua superiore intelligenza e lucidità, ne giustifica
con argomentazioni capziose ma certo formalmente dignitose ogni giravolta,
e soprattutto copre l'ignominia della falsificazione (e inversione) sistematica
dei fatti, della manipolazione ipocrita della realtà, dell'orgia
di retorica (ed è evidente, ma lo dico apertamente, che mi riferisco
ai "fatti di Genova", dove tutto questo si è verificato
ad opera del "movimento nuovo" e dei suoi intellettuali d'appoggio).
Tu citi questa frase di Althusser alla fine del tuo scritto e la ripeto
anch'io: "Non raccontar(si) storie". E ancor più non raccontar(si)
dei vari Enrico Toti (quello della stampella lanciata contro il nemico),
dei Pietro Micca, dei Balilla (quello di cui "fischia il sasso e il
nome squilla"). Anche qualora si parli di "rossi", sempre
di retorica si tratta, e non accetterò mai l'idea che la retorica
diventi arma dei comunisti.
Comunque interrompiamo questa linea di sviluppo della discussione perché
certo diventerei polemico, visto che ho rotto tanto tempo fa con la mia
classe di appartenenza, prima di leggere il Manifesto e Il Capitale,
proprio a causa di ipocrisia, menzogna e retorica; non le accetto né
da "destra" né da "sinistra", né dai "neri"
né dai "rossi". In questo caso, mi trasformo da uomo di
mondo (quello che "ha fatto tre anni di militare a Cuneo" come
Totò) in moralista. A scanso di fraintendimenti, preciso che diventerei
eventualmente polemico non nei tuoi confronti, ma comunque in riferimento
al movimento nuovo cui tu purtroppo dai credito. Che esso abbia una "storia"
in futuro, lo penso anch'io; che sia una storia "pulita" e "positiva",
lo metto proprio in dubbio. Il fatto, indubitabile, che in esso sia presente
una folta schiera di persone animate dalle migliori intenzioni, anche anticapitalistiche
e antimperialistiche, non può cambiare il "significato storico"
di un movimento che non sia in grado di darsi una direzione di marcia consona
a quanto dirò un po' più sotto. Ed io non credo che questo
movimento sia in grado di darsi una siffatta direzione di marcia. Cercate
di smentirmi, se vi sentite capaci di fargli assumere altri connotati che
non siano: "il centrosinistra è male, ma è il meno peggio".
E adesso ad altro.
Per comprendere il fallimento del "comunismo", la sua degenerazione
nel cosiddetto totalitarismo, con l'assunzione del potere da parte di un'oligarchia
partitica, diventata oligarchia di Stato, di tipo anche un po' criminale,
non bastano le argomentazioni - un tempo si diceva: sovrastrutturali - circa
l'unicità del Principe e la molteplicità del Popolo e altre
cose consimili. E' necessario fare qualche altra ipotesi più "sostanziosa".
Mi limiterò a citarne alcune, tutte certo abbastanza generiche e
non veramente strutturali come sarebbe necessario e desiderabile.
La prima lo è anche in ordine cronologico ed è quella giustificazionista
ben nota: l'accerchiamento dell'URSS per alcuni decenni, la necessità
della transizione in un paese solo, per di più ancora arretrato capitalisticamente.
Si è dovuto tenere conto della presenza del nemico tutto intorno,
nemico che aveva addentellati all'interno. In questa situazione, la famosa
tesi (di Marx come di Lenin) della graduale estinzione dello Stato (di dittatura
proletaria) non ha potuto verificarsi. Stalin - e non necessariamente con
consapevole mistificazione - adattò la tesi dell'estinzione alle
sole funzioni statali verso l'interno mentre andavano rafforzate quelle
di difesa dal nemico esterno. Poiché tuttavia quest'ultimo si infiltrava
anche in URSS (gli agenti dell'imperialismo, i nemici del popolo, ecc.),
alla fin fine dovettero essere rafforzati anche gli apparati di politica
interna. Spiegazione che oggi ci sembra aberrante, ma che fu accettata da
molte generazioni di comunisti (fino alla mia e anche successive) e che
non era allora poi così peregrina come appare oggi con piena evidenza.
La seconda tesi è una variante della prima. La rivoluzione sovietica
fu una "rivoluzione contro Il Capitale" (quello di Marx).
Rivoluzione in un paese a basso sviluppo delle forze produttive, con scarsa
classe operaia (la classe rivoluzionaria per eccellenza). Fu necessario
promuovere lo sviluppo con sforzi eccezionali (e senza tanto rispetto per
la democrazia, del resto formale); soprattutto, si dovette procedere
all'industrializzazione a tappe forzate, e con la priorità dell'industria
pesante, sia per i pericoli di guerra (previsti peraltro con esattezza)
sia perché solo tale tipo di industria, incorporante tecnologie più
avanzate, avrebbe poi consentito più accelerati ritmi di crescita
anche degli altri settori. Lo sviluppo dell'industria avrebbe inoltre dato
incentivo ai due fattori decisivi della transizione al comunismo: quello
soggettivo costituito dalla classe operaia, inizialmente deficitaria, e
quello riguardante il fluire della copiosa messe di beni indispensabile
a soddisfare completamente i bisogni degli individui in società.
Comunque, non insisto su tale punto, perché ogni comunista e marxista
ha capito di che cosa sto parlando.
Esiste però la possibilità di un'altra ipotesi, della quale
mi dichiaro più convinto; premettendo però che anch'essa è
formulata a grandi linee e non può certo sostituire (ma potrebbe
guidare) più articolate ed esaurienti ricerche intorno all'autentica
catastrofe del comunismo novecentesco. La classe operaia non è poi
quella classe rivoluzionaria (ed universalistica) che si sosteneva fosse.
Essa è una "povera" (e disgraziata) classe di subordinati
incapace di altro che di lotte redistributive (come del resto Lenin aveva
capito, cercando però la soluzione rivoluzionaria nel partito in
quanto dichiarata, e presunta, avanguardia di detta classe). Nessuna trasformazione
dei rapporti decisivi del modo di produzione capitalistico può essere
promossa da questa classe che sta tutta dentro i meccanismi riproduttivi
di detti rapporti.
Del resto, è possibile mostrare che Marx aveva ad un certo punto
indicato nel lavoratore collettivo cooperativo (con lavoro intellettuale
e manuale, direttivo ed esecutivo, fortemente integrati fra loro) il vero
soggetto rivoluzionario, che sarebbe stato formato dagli stessi meccanismi
interni di sviluppo del modo di produzione capitalistico. Credo sia sicuro
che Marx stesso pensasse alla violenza come mezzo essenziale affinché
questo soggetto potesse rompere l'involucro formale, le sovrastrutture
politiche e ideologiche, che impedivano la transizione alla formazione sociale
prima socialista e poi comunista (i famosi due stadi della transizione).
Tuttavia, è altrettanto certo che, sulla base di questa analisi (scientifica)
di Marx, non poteva essere nemmeno pensata la transizione in assenza di
una vera "maturità" del modo di produzione capitalistico,
che doveva possedere in sé la trama dei nuovi rapporti (quelli del
lavoratore collettivo cooperativo); altro che "rivoluzione contro Il
Capitale"!
E' quindi una vera mistificazione (inconsapevole) quella che tutti noi (e
anche gli althusseriani) abbiamo ripetuto per decenni: Marx pensava la transizione
al comunismo in modo asimmetrico rispetto a quella dalle società
precapitalistiche al capitalismo. E' vero il contrario. Secondo Marx, si
passa dal feudalesimo al capitalismo quando il primo contiene già
nelle sue viscere il secondo ad un notevole grado di maturità; la
rivoluzione ha avuto solo il compito di spazzare via il vecchio mondo dal
punto di vista della politica (e dello Stato) e delle ideologie. La stessa
cosa dicasi della trasformazione del capitalismo, che deve contenere già
in sé i due elementi della "base" della futura società
comunista: i rapporti del lavoratore collettivo cooperativo e lo sviluppo
delle forze produttive potenzialmente in grado di far scrivere sulle bandiere
della società tutta: "da ciascuno secondo le sue capacità,
a ciascuno secondo i suoi bisogni". A quel punto, e solo a quel punto
(e lo scrive Marx nel capitolo del Capitale sull'accumulazione originaria),
la rivoluzione - evidentemente volta a sovvertire le sovrastrutture
(e solo queste) capitalistiche - diventa la "levatrice di un parto
ormai maturo" (corsivo mio).
Nessuno (almeno non io) vuol rimettere in discussione la giustezza della
scelta rivoluzionaria di Lenin nel '17. Con il senno di poi, va comunque
detto con risolutezza che non poteva in ogni caso trattarsi di una rivoluzione
comunista per quanto fatta sinceramente nel nome del comunismo.
Ogni discussione sul rapporto tra l'uno e il molteplice, tra il Partito
e il Popolo (o il movimento, o quello che si vuole), diventa oziosa - forse
addirittura ideologica, mistificante - se non parte dal dato di fatto dell'impossibilità
della rivoluzione comunista. E non si tratta, sia chiaro, solo dell'impossibilità
in un paese arretrato come l'URSS (e gli altri che sono seguiti a livelli
di sviluppo sempre più bassi). In realtà, Marx si è
sbagliato nella previsione delle tendenze intrinseche al modo di produzione
capitalistico: non è in formazione alcun lavoratore collettivo ecc.
ecc.; e nemmeno si può presumere - come ho scritto nel mio recente
commento ad un testo di Preve - che sussista un limite allo sviluppo delle
forze produttive oltre il quale esse possano soddisfare in misura totale
i bisogni degli uomini, per cui verrebbe meno ogni problema di scarsità
dei beni. Le due condizioni fondamentali del passaggio al comunismo non
maturano per nulla nel grembo del capitalismo. Questo secondo la mia opinione,
logicamente; non però affermata cervelloticamente così come
cervelloticamente alcuni "coglioni" parlano oggi di comunismo
in termini pauperistici, miserabilisti, da "terzo mondo", da "Fra
Dolcino", ecc.
Forzare la rivoluzione in una presunta direzione del comunismo, sulla base
di una scienza che, non rispecchiando le tendenze reali dello sviluppo capitalistico,
tende a diventare ideologia di legittimazione di date forze politiche -
che non è detto debbano sempre ripresentarsi nella forma del partito
unico del sedicente movimento operaio - significa trasformare dette forze
in apparati di dominio staccati dal cosiddetto Popolo, in apparati in processo
di riproduzione autoreferenziale. Questo non spiega ancora quello che è
avvenuto nei paesi del socialismo reale, non chiarisce bene quale classe
dominante esisteva in essi. Chiarisce però l'errore che non deve
essere ripetuto, la mistificazione ideologica che non deve mai più
essere riproposta (poiché "errare è umano, ecc.").
E non si finisce qui.
In assenza delle condizioni di "maturità del comunismo",
riproporre ancora quest'ultimo in puri termini di sapore mistico-cristiano
- sia che ci si voglia riaffidare alla presunta avanguardia monolitica della
Classe o invece ad un mitico movimento nuovo in cui si dà tutto e
il contrario di tutto (contro l'Impero ma non contro l'imperialismo USA,
contro il capitalismo tout court o contro quello "cattivo"
delle transnazionali, contro il solo capitale finanziario "parassita"
che va tassato, per la remissione del debito ai paesi sottosviluppati, per
l'elemosina ad essi onde aiutarli a sopravvivere così come si fa
con i barboni incontrati per strada, per i poveri e contro i ricchi che
"non entrano in Paradiso", e via sproloquiando) - non è
altro che la riproposizione di una via errata che non può non condurre,
alla fine, a nuove forme di rafforzamento dello Stato e della "borghesia
di Stato" che ne è il supporto e che si erige in importante
frazione delle classi dominanti. Come tu stesso dici, un popolo non può
accettare l'anarchia perpetua, vuole poi delle regole, una nuova
statuizione; e questa non può che essere fornita - partendo dalle
premesse errate della costruzione di una nuova società comunista
o anche semplicemente "socialista" - dal rafforzamento dello Stato
e della "borghesia di Stato".
Sembra che nessuno si accorga che il `900 non è stato il secolo del
fallimento del "comunismo", che è stato una pura "visione
ideologica"; è invece stato il secolo in cui si è verificata
la rivincita del "socialismo di Stato" di lassalliana memoria
contro la marxiana Critica al Programma di Gotha. Tale socialismo
è però fallito, nella sostanza, sia nella sua versione hard
("socialismo reale") sia in quella soft (socialdemocrazia
e politiche dette keynesiane). Purtroppo, tale fallimento è avvenuto
sulla base della rimondializzazione del capitalismo centrato sull'imperialismo
USA. La protrazione del non riconoscimento - da parte del socialismo
governativo europeo (che logicamente difende la sua sopravvivenza) - del
fallimento dello statalismo in tutte le sue forme (non solo in quella hard)
coadiuva fortemente la parallela non formazione in Europa di nuovi
blocchi sociali dominanti che si costituiscano in centri imperialisti antagonisti
di quello statunitense. Come è stato un grande evento "liberatorio"
(nel senso della fine di un periodo di stagnazione e imputridimento) il
crollo del socialismo reale ('89-'91), sarebbe un evento ancora più
liberatorio, anzi definitivamente liberatorio, il crollo, la dispersione,
l'annientamento, del socialismo europeo (il cosiddetto "centrosinistra",
i "progressisti"), il quale è il nemico; cioè
è quel bandolo della matassa che, nel sistema complesso costituito
dal sistema politico del capitalismo rimondializzato, deve essere afferrato
per dipanare la matassa stessa e rimettere in moto, in tempi non secolari,
la Storia. Certamente - questa è ormai da tempo la mia più
ferma convinzione - sulla base decisiva dell'esplosione delle contraddizioni
tra i dominanti.
Non voler prendere atto di questa situazione, continuare a credere di poter
mantenere in piedi il "filo rosso" della possibile rivolta dei
dominati (filo rosso ormai definitivamente spezzatosi) è un'operazione
apertamente reazionaria, che non ha molto a che vedere con il luddismo o
altre cose consimili, bensì segnala l'ascesa di nuovi settori di
ceto politico al servizio dei vecchi blocchi dominanti europei capitolazionisti
nei confronti dell'imperialismo USA. Non voglio sostenere che sia inutile
anche riprendere una riflessione sulla riorganizzazione dei dominati e della
loro lotta. E, in questa direzione, ti assicuro che sono convinto della
sensatezza di molte cose da te scritte nel tuo saggio, che andrebbero anzi
adeguatamente valorizzate. E' il contesto in cui le inserisci che mi appare
ambiguo e foriero di slittamenti verso direzioni del tutto contrarie a quelle
che vorresti perseguire.
Facciamo un esempio per chiarirci le idee. In una "informativa"
- non ricordo bene se dei "servizi" o della polizia, ecc. - si
parla di una riunione tenuta ai primi di maggio dai Centri sociali,
in cui si è deciso che il comportamento degli stessi a Genova, in
caso di vittoria elettorale del centro-sinistra, sarebbe stato abbastanza
benevolo, mentre nel caso contrario (quello verificatosi), si sarebbe stati
durissimi. Non so se l'informativa è reale, se la riunione indicata
ci sia stata o meno. Non ho però nessun dubbio circa il suo realismo.
Ed è qui che scatta la mia più netta opposizione a questo
"movimento nuovo". Qui siamo in presenza di una precisa posizione
che considera il centrosinistra - l'autentico nemico per quanto ho
detto poco più sopra - come il "meno peggio". E tale posizione
è in tutta evidenza anche quella di Rifondazione. Su questa
base non può essere nemmeno iniziato un minimo di dialogo con gente
siffatta, perché non c'è possibilità di alcuna concessione
in merito, che si configurerebbe come pura compromissione intrisa di ipocrisia.
Tu dirai che anche il centrodestra è filoamericano, non assicura
alcuna possibilità di crescita a centri antagonistici nei confronti
degli USA. Certamente lo so; ed infatti non propongo mica di essere teneri
nei confronti di questa forza politica. Tuttavia, è evidente che
l'atteggiamento di quest'ultima è anche dovuto alla necessità
di ricercare l'appoggio di Bush per non essere schiacciata dall'unione del
nostro centrosinistra con il socialismo governativo, in specie tedesco e
francese. Ancora una volta lo ripeto: in un sistema complesso, dove evidentemente
il tout se tient, dove ogni causa è un effetto e viceversa,
bisogna saper afferrare la "causa prima", quella decisiva, quella
senza la quale il sistema stesso potrebbe entrare in fibrillazione, magari
anche in sfasciamento e trasformazione. Nel sistema politico del capitalismo
rimondializzatosi con centro negli USA, il "punto di rottura"
può essere solo l'annientamento del nemico primario,
il socialismo europeo con il suo statalismo (e connessa borghesia di Stato)
che dà pieno appoggio al mantenimento dei vecchi blocchi dominanti
europei capitolazionisti nei confronti degli USA.
Quindi mi ripeto. Tu dici cose utilissime, sensatissime, da tenere nella
massima considerazione. Dovresti però inserirle in un chiaro atteggiamento
di rottura, senza compromissioni, con chiunque sostenga che il centrosinistra
è il meno peggio. Altrimenti, le cose più meravigliose si
trasformano nel loro contrario: il mero travestimento, formalmente
più dignitoso, di una presa di posizione reazionaria, che mantiene
la palude attuale e vuole rafforzare il "socialismo" italiano
per rafforzare quello europeo per perpetuare, in definitiva e malgrado tutte
le intenzioni in contrario (anche sincere, per carità), la centralità
imperialistica USA.
Queste sono, al momento, le riflessioni che il tuo scritto mi ha sollecitato; e che io ti propongo con sincerità proprio perché credo che si possa restare amici malgrado valutazioni a questo punto abbastanza distanti. Non è neanche minimamente in discussione la stima che ho per te, e non certo da poco tempo, ma sto andando per una "mia" direzione che, in questo momento almeno, è "parallela" rispetto alla tua (e non solo alla tua); nel senso del parallelismo nella geometria euclidea dove le parallele si incontrano all'infinito. Speriamo di poter passare in un futuro non lontano alle geometrie non euclidee. Con questo ti saluto e abbraccio
Gianfranco
Conegliano agosto 2001