Pensare l'impensabile: Althusser e Machiavelli

di Silvia Bianchi

L'incontro Althusser - Machiavelli costituisce una "questione viva" perché densa di provocazioni/implicazioni attuali e aperta ad ogni sorta di interrogativi. Si tratta di un incontro, avvenuto nel periodo della formazione del pensatore francese, ma consolidatosi nell'estate del 1961, durante un soggiorno in Italia, che comporterà, stando almeno alle intenzioni manifeste, non un'interpretazione `ordinata' (alla maniera di Claude Lefort), ma l'assunzione di un punto di vista inaudito: quello dei lettori diretti delle opere politiche del Fiorentino, quello dei suoi contemporanei.
Ma c'è di più: ad Althusser risulta agevole sostare non solo nell'ottica di questi primi lettori anonimi, ma anche in quella dell'Autore, nel senso che con lui si identifica (e l'identificazione rinvia sempre nella psicoanalisi freudiana alle idee di contagio mentale, imitazione e soprattutto di incorporazione), si identifica, dunque, con la costante oscillazione machiavelliana tra "volontà di realismo" (espressa dalla rivendicazione nel XV capitolo de Il Principe di un'analisi spietata della "verità effettuale della cosa" contrapposta alla "immaginazione di essa") e "situazione derealizzante" (la lacerata congiuntura italiana fra il Quattrocento e il Cinquecento, assai lontana dall'Unificazione). Questo atteggiamento è confermato da diverse lettere inviate a Franca Madonia, in particolare quella del 26 gennaio 1962, in cui il docente dell'École Normale si dichiara "straordinariamente e ironicamente colpito" dal fatto che, "sotto le specie della pretesa coscienza di Machiavelli" è di sé che sta parlando nel primo corso che gli dedica nel gennaio dello stesso anno. E precisa: "La volontà di realismo" è la "volontà di essere qualcuno di reale, di occuparmi della vita reale" e "la situazione derealizzante" è "esattamente il mio delirio presente".
Si fisserà così per sempre, come rileva François Matheron, "una matrice di lettura", che è senza dubbio una delle chiavi essenziali per la comprensione del lavoro teorico di Althusser, tanto più stupefacente se si considera il dato di fatto per cui essa è rimasta sepolta negli archivi durante la vita del filosofo, quasi per effetto di un imponente lapsus.
Tuttavia, è opportuno mettere a fuoco un punto: gli stralci conservati del corso del '62, pur presentando passaggi folgoranti per le loro intuizioni, non si spingono oltre la semplice descrizione. Essi dimostrano, osserva Antonio Negri in Machiavel selon Althusser, un primo "vuoto di una distanza presa" dalle letture tradizionali che appiattiscono Machiavelli sul machiavellismo e/o sul totalitarismo, la cui origine potrebbe essere fatta risalire paradossalmente al moralismo volterriano di Federico II di Prussia, autore dell'ormai classico Anti-Machiavelli. Questi materiali, però, sono complessivamente deludenti, giacché fortemente ancorati alla linea ermeneutica, che si estende dal romanticismo al risorgimento (con Foscolo, De Sanctis fino a Volpe) sino al fascismo italiano, che individua nello scrittore di Firenze il `profeta della Nazione' o, nel linguaggio di Althusser di questo periodo, "il testimone immaginario di un evento reale, o il testimone reale di un evento immaginario".
Di tutt'altro spessore sono gli scritti successivi al corso del '62 che pongono in evidenza un approccio marcatamente differente alle riflessioni del segretario fiorentino, innanzi tutto perché più problematico, surdeterminato e rimaneggiato. Qui troviamo Machiavelli e noi, costituito da due versioni; la prima, intitolata semplicemente Corso è redatta fondamentalmente fra il 1971 e il 1972, mentre la seconda, intitolata Machiavelli e noi da Althusser stesso, è elaborata, per lo più, fra il 1975 e il 1976, ma corretta probabilmente sino al 1986. Successivi sono: La solitudine di Machiavelli, una conferenza tenuta alla Fondazione nazionale francese di scienza politica nel 1978, L'unica tradizione materialista, composto nel 1985 (facente parte, in origine, de L'avvenire dura a lungo) e, infine, La corrente sotterranea del materialismo dell'incontro del 1986.
Questa seconda fase del lavoro althusseriano su Machiavelli porta in sé le tracce (di certo, non pienamente coscienti) della grandiosa rottura operata dal Maggio parigino del '68 con le sue manifestazioni di massa, i suoi elogi e le sue sfide all'Impossibile, il suo carattere di Evento, di Inizio assoluto che desta stupore, che fa tabula rasa delle strutture di dominio, delle Certezze inoppugnabili, dei Padri sacri della Tradizione e che inaugura un Nuovo Tempo. L'intellettuale è ora obbligato a pensare la politica come istanza dotata di autonomia, in grado di congiungere la Teoria alla Prassi, l'Universale al Particolare, al caso circoscritto e determinato (e la spinoziana `conoscenza del terzo genere' può adesso fungere da utile modello). In sostanza, bisogna sviluppare il pensiero della pratica concreta della politica aperta al futuro. Il nobile Montesquieu, l'altro grande scopritore del Continente Politica, oggetto di studio da parte di Althusser verso la fine degli anni '50, è, sì, "armato di idee nuove", ma, arruolato com'è "al servizio di vecchie cause", si rivela del tutto inadeguato ad un simile scopo.
È così che si crea lo spazio e compare a chiare lettere "il pensiero dell'impensabile" che coincide con la radicalità del gesto di Machiavelli, capace di compiere un salto decisivo, un salto nel vuoto teorico, consistente nel pensiero delle condizioni di uno Stato Nuovo a partire da una congiuntura (quella dell'Italia) dove le condizioni erano al tempo stesso interamente favorevoli (basti vedere l'appello che conclude Il Principe) e interamente sfavorevoli, poiché in questa stessa Italia nessun movimento politico reale, nessuna istituzione politica reale, che si trattasse del Papato o persino di Firenze, senza parlare di Venezia o del Sud, prospettava la promessa e il principio di questo Stato Nuovo. Ecco che, allora, l'impensabile si caratterizza come "questione dell'Inizio a partire da niente di un Nuovo Stato assolutamente indispensabile e necessario" e non rappresenta, pertanto, secondo una visione ingenua, immediata, "a libro aperto", l'Inaccessibile al pensiero, il non - pensabile, l'Alterità trascendente non questionabile. Esso non ha nulla a che fare con l'Indicibile o il Mistico e, situandosi "là dove non si identifica ancora l'autorità, il potere, il Nome distinto di qualcuno o di qualcosa" costringe a discuterli, per così dire, nella loro idealità, il che, però, non può produrre una posizione puramente contemplativa, ma deve spingere ad imitare la condotta dei bravi arcieri, evocata nel VI capitolo de Il Principe, "a' quali parendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira, pervenire al disegno loro". Mirare molto in alto, allora, significa mirare al di là di tutto ciò che esiste, cioè il feudalesimo agonizzante, la rappresentazione soggettiva della politica ereditata dall'Antichità e dal Cristianesimo, i discorsi estetizzanti degli umanisti rinascimentali, i sermoni rivoluzionari di un Savonarola, per conseguire un fine che non esiste, ma che deve esistere, giacché "qui è disposizione grandissima", conferma il XVI ed ultimo capitolo de Il Principe.
Da tali premesse si può già intuire che nei testi di Althusser degli anni '70 e '80 Machiavelli non si presenta come lo Scienziato galileiano della Politica, alla ricerca, come vorrebbe Horkheimer ne Gli inizi della filosofia borghese della storia (1930), delle variazioni di elementi uniti in un rapporto costante attraverso la logica positiva dell' `è così' e dell' `ecco le leggi', secondo una visione statica che, sembra piuttosto contraddistinguere Guicciardini, il diplomatico, che si limita a ratificare l'esistente per giustificarlo e razionalizzarlo. Machiavelli, al contrario, è filosofo, e "acutissimo", per giunta, fa presente Spinoza nel Trattato politico. In altri termini, è una creatura visionaria che enuncia delle tesi, che prendono posizione in e contro altre posizioni (le proposizioni classiche della politica di Platone, Aristotele, Cicerone, citati, per altro, solamente di sfuggita), tesi, dunque, che divergono da quelle scientifiche, esclusivamente teoriche, visto che sono teorico - pratiche, destinate a non poter essere verificate di persona e ad occupare un loro rilevante spazio nella battaglia teorica di classe della Modernità. Ecco che, allora, acquisisce spessore la dichiarazione del pensatore francese nell'Avvenire dura a lungo per cui Machiavelli, insieme ai suoi compagni sovversivi Spinoza e Rousseau, costituisce "la strada maestra" per approdare a Marx: è un lungo détour. Ci si può spingere persino più in là e dire che Machiavelli è anche uno dei molteplici volti di Marx, al futuro anteriore, naturalmente. Almeno, sotto quattro versanti intrecciati: 1) Machiavelli è autore di un Manifesto; 2) è un antiumanista; 3) mostra come la violenza sia levatrice della Storia; 4) si fa erede della tradizione materialista epicurea. Vediamo in che senso.
Il primo, nella storia della filosofia, ad aver accennato ad una correlazione fra Machiavelli e Marx è Benedetto Croce, il quale nel 1900 in Materialismo storico ed economia marxista discorrendo del pensatore di Treviri in qualità di "sociologo" afferma che "egli insegna, pur con le sue proposizioni approssimative nel contenuto e paradossali nella forma, a penetrare in ciò ch'è la società nella sua realtà effettuale". Subito dopo aggiunge: "Mi meraviglio come nessuno finora abbia pensato a chiamarlo, a titolo d'onore, "Il Machiavelli del Proletariato"". Benedetto Croce in tal modo stabilisce una combinazione fra due Nomi, che diverrà produttiva, perché in grado davvero di `fare presa', in Antonio Gramsci, nel suo Quaderno 13 (1932-34), da cui esce una icastica descrizione de Il Principe come Manifesto utopico rivoluzionario, "esemplificazione storica", sostiene lo scrittore sardo, "del "mito" sorelliano, cioè di un'ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva". Queste parole sono un passaggio obbligato, uno spunto imprescindibile per Althusser, il quale traccia un parallelismo e, al contempo, una linea di demarcazione fra il presente Manifesto e il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels. Entrambi sono dei testi scritti, non come gli altri, in quanto `urgenti', appartenenti cioè alla letteratura ideologica della loro epoca, sono partigiani di una Causa, strumento per diffonderla, farla crescere e continuare tramite forme letterarie e risorse retoriche nuove. Entrambi, inoltre, formulano teoricamente il problema posto dalle rispettive congiunture: l'Unità italiana da un lato e la Rivoluzione dei rapporti capitalistici di produzione e di proprietà, e, quindi, di tutto l'insieme dei rapporti sociali, dall'altro. Il primo è datato 1513, mentre il secondo 1848.
Il Manifesto-Principe "instaura dei rapporti particolari tra il discorso e il suo `oggetto', tra il discorso e il suo `soggetto'", per delle ragioni che chiariremo, e il suo stile nitido, vigoroso e concitato, in nulla affine alla scrittura dei trattati medievali o delle rigide dissertazioni accademiche, suscita l'ammirazione di Antonio Gramsci, che vi scorge lo spirito di un giacobinismo ante litteram. Rivelatrice di un linguaggio siffatto è già la dedica a Lorenzo il Magnifico, dove si legge: "Né voglio sia reputata presunzione se un uomo di basso ed infimo stato ardisce discorrere e regolare e' governi de' principi; perché, così come coloro che disegnano e' paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de' monti e de' luoghi alti, e per considerare quella de' bassi si pongono alti sopra e' monti, similmente, a conoscere bene la natura de' populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de' principi, bisogna essere populare". Althusser ritiene questo passo veramente denso, giacché Machiavelli vi fissa il preciso tópos per il suo testo e il suo punto di vista: il Popolo. L'appartenenza di classe è tutt'uno con la posizione di classe: l'essere trova voce nella coscienza. Lo sguardo incarnato dal segretario fiorentino può arrivare a cogliere ciò che ai Principi sfugge: la loro natura. Che si affermi anche il contrario, e cioè che i Principi possano conoscere la realtà essenziale del Popolo, è soltanto un virtuosismo verbale che presume di essere simmetrico, visto che Machiavelli "non pretende di parlare del popolo, e non ha scritto un Manifesto intitolato Il Popolo". Ed è proprio qui che si fa strada la differenza specifica de Il Principe da Il Manifesto del partito comunista. Di certo, un manifesto non è un opuscolo propagandistico, uno sciopero, una manifestazione o un'insurrezione, tuttavia, sebbene tali luoghi siano distinti, essi non divergono nel caso del Manifesto comunista. Il tópos ora conquistato mostra una coincidenza del punto di vista di classe con il partito di classe, perciò, di posizione e forza destinata ad essere protagonista della trasformazione del mondo: tale luogo è il proletariato che, essendo lo strato più basso della società attuale, sostengono i due intellettuali militanti tedeschi, non può sollevarsi "senza che tutti gli strati sovrapposti, che costituiscono la società ufficiale, vadano in frantumi".
La situazione descritta ne Il Principe è assai lontana da tutto ciò, perché esibisce un dualismo irriducibile tra il Soggetto del Punto di Vista Politico, il Popolo, e il Soggetto (o Agente) della Pratica Politica, il Principe. Quest'ultimo è determinato unicamente "dalla funzione che deve compiere, cioè dal vuoto storico che deve riempire, è una forma vuota", scrive Althusser, "un puro possibile - impossibile aleatorio: nessuna appartenenza di classe lo dispone a compiere il suo compito storico, nessun legame sociale lo lega a quel popolo che deve unificare in nazione". Nulla, d'altra parte, impone al Popolo di muoversi e organizzarsi. D'altronde, il panorama delle città italiane, dipinto con precisione da Machiavelli, è caratterizzato da una totale divisione, data sia dall'assoluta mancanza di una rete di collegamento tra una città e l'altra sia dalla divisione interna ad ogni città: da un lato i signori feudali godono dei loro antichi privilegi di sangue, garantiti da una lunga Tradizione di ozio, dall'altro c'è una plebe lavoratrice senza unità, che coltiva la terra, fila la lana, batte il ferro, separata da un'altra plebe, che apre traffici, esercita il commercio e specula.
Ecco la ragione profonda del dualismo irriducibile anzidetto, confluente nell'alterità dell'Utopia, che otterrà, però, dal corso della storia la peculiarità sorprendente, al contempo perturbante e familiare, di avere un luogo, di realizzarsi. Il Principe come Manifesto può, allora, richiamare alla mente la funzione dei drammi epici di Brecht che, rompendo i vincoli teatrali tradizionali fra pubblico e spettacolo, e determinando in chi legge o assiste un `effetto di straniamento' (non c'è, infatti, alcun eroe protagonista in cui identificarsi), intendono spingere il pubblico ad uscire dalla dialettica della coscienza, attraverso una critica in atto della pièce, e a concludere l'opera incompiuta sulla scena, per dare ad essa consistenza nella vita reale. Pertanto, come il teatro brechtiano non assegna ad alcun personaggio la `morale della favola', la verità del testo, la fine del dramma, giacché soltanto `a cose fatte', terminata la rappresentazione, l'attore si smaschera, avanza in modo provocatorio verso la platea e `trae le conclusioni', così anche l'opera machiavelliana del 1513 si dimostra `eccentrica', non potendo affidare hegelianamente ad alcun individuo cosmico-storico pieno, perfetto, il compimento della Missione, pur richiesta a gran voce dalla congiuntura. Del resto, anche Cesare Borgia, personificazione della Virtù, come Soggetto della Storia è inesorabilmente votato allo scacco. Egli, in cammino da un pezzo di provincia, ai confini, in Romagna, regalatogli da suo padre, il Papa Alessandro VI, resterà al di qua del Rubicone, non riuscendo a conquistare Roma. La morte del padre e la sua lunga malattia, infatti, gli saranno fatali e a lui non resterà, scrive Althusser, che "andare, più tardi, a morire oscuramente al servizio del re di Navarra sotto le mura di una piccola piazza spagnola. Avvenimento che apre un altro capitolo: quello dei limiti assoluti al di là dei quali non è più possibile dominare la Fortuna". La pièce de Il Principe, insomma, potrà ricevere la sua verità solo nell'a posteriori della Storia.
Ma c'è un altro aspetto in cui l'analogia Brecht - Machiavelli, sebbene non costruita direttamente dal filosofo francese, può essere utile alla comprensione della sua lettura dei testi politici del segretario fiorentino: l'opposizione ad Aristotele, che unisce il drammaturgo tedesco a Machiavelli attraverso un filo teorico eterodosso. Il primo rompe, osserva Althusser nelle Note su un teatro materialista, "con le forme classiche dell'identificazione che tenevano sospeso il pubblico al destino dell'eroe e investivano tutte le sue forze affettive nella catarsi finale". E rompe, altresì, con la concezione di Wagner, rifiutando `la messa in scena totale', in cui la musica, la scenografia, i costumi, la recitazione concorrevano all'evocazione della medesima impressione. Chi guarda ora deve essere collocato a distanza dallo spettacolo, in modo da sperimentare effetti diversi e contrapposti. Sullo sfondo di questa presa di posizione, c'è la critica radicale ai canoni della tragedia greca scaturenti dalla Poetica aristotelica. Essi riducono coloro che assistono allo svolgimento del racconto, il mythos, ad una completa passività, perché gli eventi che vi sono rappresentati appaiono immutabili, secondo una logica serrata che li lega gli uni agli altri in modo consequenziale verso uno scopo solenne: la purificazione dell'animo dalle passioni (katharsis). La struttura della narrazione tragica, dunque, risponde ad un disegno prestabilito: il suo télos non si raggiunge imprevedibilmente, non è affidato all'istinto generico del poeta, ma è il risultato di norme rigorosamente determinate. Affinché, infatti, si possa verificare quel thaumaston, l'inatteso meraviglioso, che suscita i sentimenti di pietà (per l'eroe colpito da sventura) e terrore (al pensiero che possa accadere la medesima sorte), nulla può avvenire apo tyches, cioè per caso.
Ma proprio là dove esce di scena la Tyche o Fortuna, rientra in gioco Machiavelli a riabilitarla. Egli, però, a differenza di Brecht, si oppone allo Stagirita più silenziosamente. I suoi scritti sostanzialmente tacciono il nome dell'autore della Poetica e della Politica. E in una lettera all'amico Vettori del 26 agosto 1513 rivela di non conoscerlo neppure a fondo, affermando: "né so quello si dica Aristotele delle repubbliche divulse". Eppure, questo silenzio è un sintomo teorico, contiene un discorso, che Althusser chiarisce sollevando un problema non ancora affrontato: quello dell'origine di tutti i governi e, dunque, di tutto ciò che si trova prima di loro e di ogni società.
È qui che affiora il discorso machiavelliano, secondo cui al principio assoluto, sciolto e libero da ogni legame, si trova il Caso, il che significa asserire che all'origine gli esseri umani erano dispersi (e la dispersione è congenita al caso, da Democrito ad Epicuro fino a Rousseau nel Secondo discorso), rifiutando così ogni antropologia della società e della politica. Ciò implica un antiumanismo teorico che produce, in particolare, la negazione del fondamento deterministico, sul quale è edificata la polis aristotelica: l'essere umano non è animale politico per natura. I governi e le loro costituzioni, pertanto, non sono il risultato di un Ordine preesistente, inscritto nella natura stessa, che unisce gradualmente le parti in un armonioso organismo complesso, come se si trattasse di un processo biologico. Lo Stato, dunque, non è un'aggregazione spontanea, orientata teleologicamente da una forza intrinseca.
Esso, però, non è neppure il prodotto di un patto. Avanza, allora, un'ulteriore qualificazione di Machiavelli, un teorico della politica che non fa menzione di contratti sociali. Altro silenzio pieno di significato. Egli sostiene che al principio vi fu la elezione del più forte e la promessa di obbedirgli, ma non chiama in causa alcun contratto reciproco. Ciò gli varrà la condanna alla solitudine da parte del tribunale della filosofia politica successiva, quella del diritto naturale, che a partire dal XVII secolo sommergerà retroattivamente tutto. I suoi sostenitori, d'altronde, hanno come posta in gioco principale il fatto compiuto della monarchia assoluta e costituzionale: sia per fondarla nel diritto (come Hobbes) sia per rifiutarla nel diritto (come Locke e Rousseau). In ogni caso, non possono evitarla. Machiavelli, al contrario, ragiona nel fatto da compiersi. È qui che Althusser propone un parallelo pregnante: Machiavelli sta ai filosofi del diritto naturale, gli ideologi della borghesia in ascesa, come Marx agli economisti classici, gli ideologi del capitalismo. Entrambi, infatti, sono, nella definizione di Emmanuel Terray, degli "svelatori del segreto" o dei "venditori di miccia" che, al di là delle finzioni consolatrici del consenso e del patto, "rendono manifesti l'uso della forza e il ruolo della violenza". Se Marx, da un lato, elabora un racconto degli orrori all'origine dell'accumulazione capitalistica, assai lontano dall'arringa moralizzante degli economisti, Machiavelli, dall'altro, non può più essere meramente considerato il primo portavoce della teoria della ragion di Stato, alla maniera di Meinecke, perché è uno dei rari testimoni di quella che Althusser denomina "l'accumulazione politica primitiva", insomma un teorico dell'Inizio dello Stato nazionale.
Egli è creatore di un linguaggio altro: "Non parla il linguaggio del diritto", nota Althusser, "parla il linguaggio della forza armata indispensabile per costituire qualsiasi Stato, parla il linguaggio della crudeltà necessaria agli inizi dello Stato, parla il linguaggio di una politica senza religione che deve ad ogni costo utilizzare la religione, di una politica che deve essere morale ma potere non esserlo, di una politica che deve rifiutare l'odio ma ispirare la paura, parla il linguaggio della lotta fra le classi, e quanto al diritto, alle leggi e alla morale, li mette al loro posto, subordinati". Ciò che ora è in discussione, quindi, non è la capacita di vivere, di sopportare o immaginare la violenza dell'infanzia dello Stato, ma la capacità di pensarla. Così, è gettata una luce cruda sull'aurora delle società borghesi, il nostro tempo.
Concludendo, si può affermare che il Machiavelli di Althusser, che fuoriesce dai testi degli anni '70 e '80, assomiglia fortemente al perverso polimorfo di Freud, perché in grado di racchiudere in se stesso molteplici forme, al pari del Centauro Chirone, al di là di ogni interpretazione univoca rassicurante. Egli è migrante, come la Virtù che mette in scena e che soltanto a volte incontra la Fortuna in modo duraturo, pronto a saltare su quel "treno in corsa" senza Origine né Fine, che Althusser evoca nel Ritratto di un filosofo materialista. In ogni caso, acquisisce lo spessore di una grande Metafora. E, se si tiene conto dell'insegnamento che Aristotele dà nella Retorica, secondo cui, come scrive Eco, "le metafore migliori son quelle che rappresentano le cose "in azione"", bisogna ammettere che il discorso metaforico "è conoscenza di dinamismi del reale". Proprio qui, allora, può riposare la ragione essenziale, che ha spinto il filosofo francese ad eleggere Machiavelli contemporaneamente come suo Magister ed Alter Ego, latore di un pensiero al limite, estremo, capace di una lettura opaca, seconda, della Violenza del mondo e proiettato costitutivamente verso l'Oltre. Egli, infatti, parlando d'altro, di un Altro, parla di sé, di un'epoca cruciale per la vita politica francese ed internazionale, delle difficoltà, dei desideri di cambiamento nel proprio tempo, del comunismo e del sempre problematico rapporto Teoria/Prassi rivoluzionaria.