Seminario 9 aprile 2014:
Althusser e l'operaismo: un incontro mancato?

 

 

Althusser e l’operaismo: un incontro mancato?
Appunti sulla riedizione di Operai e Capitale.

Andrea Girometti

La domanda che focalizza il tema di questo seminario - Althusser e l’operaismo: un incontro mancato? - è una domanda non scontata, che potrebbe sottendere un’uniformità di pensiero e pratiche – da una parte Althusser, dall’altra l’operaismo – perlomeno opinabile. Infatti, se il pensiero di Althusser è stato continuamente in tensione, forse preso in un’impietosa autocritica permanente, l’operaismo non è stata certo una corrente omogenea. La matrice impressa nei Quaderni Rossi non era univoca, le stesse figure di Raniero Panzieri, Mario Tronti e Toni Negri, solo per ricordare le più note, evidenziano non poche dissonanze. Si può persino distinguere “un operaismo razionale” da uno “irrazionale”, come emerge dall’importante testo di Steve Wright L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo.[1] La stessa Maria Turchetto, tratteggiando, ormai oltre dieci anni fa, la storia dell’operaismo come sconcertante parabola “dall’operaio massa all’imprenditoria comune”[2] intravedeva già nella fuoriuscita di Tronti, Negri e Romano Alquati dai Quaderni Rossi una prima rottura che riguardava il nesso – centrale nell’operaismo – tra lotte di fabbrica e progetto rivoluzionario. In particolare l’impossibilità, per Panzieri, di mettere in campo una strategia rivoluzionaria che ignorasse “il problema dei contenuti specifici e degli strumenti necessari alla costruzione di tale strategia”[3], diversamente dai fuoriusciti che scommettevano su una centralità politica della classe operaia (gli operai dequalificati delle grandi fabbriche fordiste) e sul processo espansivo in ambito sociale del dominio impresso nella fabbrica.
Ad ogni modo, le posizioni del primo operaismo risultavano sicuramente innovative rispetto alle posizioni difensive e/o ortodosse della sinistra italiana tradizionale, ancora centrate, nella lettura delle dinamiche del capitalismo, sulla contraddizione classica tra forze produttive e rapporti di produzione, senza peraltro cogliere, salvo rare eccezioni, nemmeno il cambiamento di fase con l’avvento del cosiddetto “miracolo economico”. Letture dominate da una sorta di credenza in un cammino progressivo, se non ineluttabile, verso il socialismo.
La non neutralità delle forze produttive e delle macchine; la rilevazione di un “piano del capitale” in cui economia e società erano legate e allo stesso tempo subordinate; il metodo dell’inchiesta come parzialità necessaria per rilevare la realtà dei lavoratori e intervenire politicamente in essa, e dunque la centralità dell’analisi della composizione di classe e della “conricerca” come metodo intenzionato a stabilire un rapporto collaborativo tra intellettuali e operai; ecco, queste sono, sicuramente, le principali scoperte della partica operaista più propriamente di matrice panzieriana.  In questo contesto, la figura di Tronti è in qualche modo paradigmatica dei salti avvenuti nella corrente operaista e ci porta a riformulare meglio il fuoco della nostre argomentazioni, concentrando l’attenzione sul potenziale incontro riguardante Althusser e Tronti, in una congiuntura in cui prendevano forma, allo stesso tempo, da una parte Per Marx e Leggere il Capitale, dall’altra, come dicono Cavazzini e Carlino nella loro densa introduzione alla prossima riedizione di Operai e Capitale, “il testo filosofico più ambizioso prodotto dalla “sequenza rossa” italiana”[4]. Riformulata in questi termini – l’incontro Althusser/Tronti – mi sembra di poter dire che ci troviamo di fronte ad una domanda scomoda e allo stesso tempo non rivolta (solo) al passato, non tanto perché ogni discussione è sempre, inevitabilmente, al presente e dunque c’interroga sull’oggi, sulla pratica politica-e-teorica odierna, sui vuoti così evidenti e perfino accecanti. E’ scomoda perché prende in considerazione un incontro mancato, ma almeno, parzialmente, possibile, se si riconoscono alcuni tratti comuni agli autori:
a) le indubbie affinità di alcuni presupposti comuni da cui muovevano le argomentazioni di entrambi: antistoricismo, anti-umanismo, anti-economicismo;
b) il luogo da cui provenivano (i due principali partiti comunisti d’occidente, Pci e Pcf);
c) il tentativo di prendere una giusta distanza, dopo l’avvio della destaliniazzazione e “l’indimenticabile 1956”, sia dalle ortodossie sclerotizzanti, sia dalle derive socialdemocratiche senza peraltro rinunciare ad un’azione all’interno delle rispettive organizzazioni;
d) l’intenzione comune a rimettere a tema una strategia rivoluzionaria in Occidente rileggendo Marx insieme a Lenin e cercando di procedere oltre.
Pertanto è interessante rivedere i percorsi dei due autori. Da un lato, come ricordano Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba nella postfazione al testo di Wrigth, “il percorso di Tronti [parte] da Panzieri e rompe con Panzieri” [5]. Se con Panzieri è il lavoro vivo che diventa il vero limite del capitale, in quanto elemento non integrabile, portatore di lotte, di soggettivazione politica, per Tronti ne consegue un rovesciamento del “punto di vista” (sulle cui modalità deve molto ad una rilettura dell’hegeliana Fenomenologia dello spirito). Non c’è più spazio per un marxismo che analizza la società capitalistica e i lavoratori come forza-lavoro integrata nel capitale, ma subentra un marxismo rivoluzionario che assume la classe operaia come datità prima di entrare nel processo produttivo. Utilizzando il lessico tardo-althusseriano in merito alla formazione del modo di produzione capitalistico, potremmo dire che il singolo possessore di denaro non incontra mai il singolo operaio, ma già la classe. Con la differenza sostanziale che per Althusser il possibile incontro è sempre tra elementi eterogenei, portatori di storie specifiche, che non hanno inscritto in sé alcun fine che li consegnerebbe ad una presa, mentre in Tronti la formazione/determinazione della classe capitalista avviene dopo l’incontro tra capitale e operai e le due classi principali – non c’è spazio, se non residuale, per le altre componenti sociali[6] – diventano le parti scisse (e in lotta per essere riconosciute) di un unico processo di produzione. La forza-lavoro viene prima del capitale, e tramite la lotta di classe, che è già presente a questo primo stadio, ne modifica strategia e organizzazione, in altri termini costituisce il rapporto capitalistico di produzione e ne forza gli sviluppi. Assistiamo, pertanto, ad un’assunzione tutta politica della marxiana teoria del valore – rispetto alla quale trova un solido appoggio il successivo salto negriano, come suggeriscono Bellofiore e Tomba, che assumerà come produttrice di valore ogni attività umana, radicalizzandone il costituivo antagonismo[7] –, tanto che la sua stessa difesa “scientifica” in ambito marxista è giudicata inutile perché “politicamente improduttiva, cioè praticamente neutra”[8]. In fin dei conti, per Tronti, si tratta di una teoria già in gran parte presente in Ricardo (e prima in Hegel), rispetto alla quale Marx ha fatto un passo in avanti cambiando punto di vista, assumendo quello della classe operaia e indicando come “il lavoro è misura del valore perché la classe operaia è condizione del capitale[9]. Diversamente da Althusser che in Leggere il Capitale[10], applicando una lettura sintomale al testo marxiano, vi intravede un (difficile) cambio di problematica teorica – in cui il valore di posizione di una scienza non è indifferente, tanto meno neutrale – non un semplice rivolgimento del “punto di vista” e, potremmo aggiungere, della capacità di vedere meglio, più lucidamente.
Pertanto, uno dei punti di frattura essenziali nel mancato incontro Althusser/Tronti si consuma proprio qui: se da un lato si pone l’accento sull’autonomia (relativa) della teoria – c’è sempre uno scarto tra conoscenza e realtà – come in Althusser, dall’altro, per Tronti conoscenza e azione si annullano nel punto di vista di classe. Con il rischio, particolarmente evidente nelle fasi di declino della lotta delle classi subalterne, suggeriscono Cavazzini e Carlino, da una parte, di feticizzare la teoria, dall’altra, di piegarla alle esigenze tattiche della politica, sino a legittimare ogni possibile involuzione. Eppure, un accordo significativo tra Althusser e Tronti lo troviamo proprio nel momento in cui, in polemica con ogni presunto lineare evoluzionismo storico, la teoria diventa pensiero declinato al presente, intervento nella e sotto la congiuntura. Che si tratti di teoria come anticipazione che si manifesta nel momento di verità interno alle lotte o di teoria per la politica il piano d’azione rimane immutato. Non a caso, nella sua autobiografia politica Noi operaisti, Tronti si soffermerà positivamente su un passaggio althusseriano[11] (prossimo alle teorizzazione più compiute sul materialismo aleatorio del filosofo francese) tratto dal testo postumo Machiavelli e noi in cui si riconosce in Machiavelli il primo pensatore che abbia coscientemente “pensato “nella” congiuntura, cioè nel concetto di caso singolo aleatorio”[12].
Se le strategie divergono, perché alla priorità althusseriana della teoria corrisponde la priorità trontiana della politica (sicuramente entrambe influenzate anche dai diversi limiti di azione presenti nel Pcf e nel Pci), mi sembra che ciò avviene perché sottotraccia si afferma una diversa concezione del tempo storico e dell’articolazione sociale, nonché un distinto apparato concettuale. In Tronti, alle capacità della classe di totalizzare le lotte e guidarle partendo da un centro nella società – la fabbrica fordista – in cui avviene lo scontro decisivo tra tendenze contrapposte, ed in cui, nel momento di rottura o allentamento della riproduzione dei rapporti di dominio, si manifesta un momento di verità nella storia, corrisponde, in Althusser, l’assenza di un centro che non sia costruzione ideologica e l’impossibile totalizzazione delle contraddizioni nella combinazione delle istanze (economia, politica, ideologia) del tutto complesso strutturato a dominante, in cui le contraddizioni, sottoposte ad una reciproca surdeterminazione, si spostano, si coagulano, sino a poter esplodere in alcuni punti, ma l’ora dell’ultima istanza non arriva mai[13], e dunque l’eccedenza e la non-contemporaneità sembrano diventare la norma di un tempo diseguale, plurale e materiale, privo di un principio espressivo essenziale[14].
Ma torniamo a Operai e Capitale. Cavazzini e Carlino, tramite Perry Anderson, iscrivono il testo di Tronti nella tradizione del “marxismo occidentale”[15], storicamente segnato da una progressiva separazione tra teoria e prassi, conseguente alla mancata presa della rivoluzione in Occidente, e vi si possono rintracciare i legami con le principali figure intellettuali marxiste non separate dalle lotte di massa: Gramsci, Luckács e Korsch. Ma, significativamente, non Rosa Luxemburg, una figura che ebbe modo di criticare in diretta, e non certo dal campo avverso, l’esperimento profano[16] che prendeva avvio con l’Ottobre bolscevico, e la conseguente istituzionalizzazione di uno stato d’eccezione che sottovaluterà la questione democratica. Questione che Tronti stesso tende a leggere, ma non è certo l’unico in ambito marxista, in termini, mi pare, riduttivi: come sovrastruttura tendenzialmente borghese, luogo contaminato dal mercato delle opinioni, dal non-pensiero, dall’inautentico, prima che come ipotesi egualitaria e libertaria su cui far leva in termini antigerarchici ed espansivi[17]. Su questo versante, mi pare indicativo il modo in cui Tronti ricorda, nella sua autobiografia politica, le differenze con Panzieri: “come Rosa, leggeva Il Capitale e immaginava la rivoluzione. Non come Lenin, che leggeva Il Capitale per organizzare la rivoluzione”[18]. Non a caso la centralità della classe operaia sarà letta da Tronti come centralità di una “minoranza di massa”, “aristocrazia del popolo”, capace di dirigere un processo rivoluzionario incardinato su uno “Stato operaio, non mai realizzato, [che] si è presentato, nel Novecento, come forma possibile di governo dei migliori”[19]. E ancora: “né dittatura, né democrazia, governanti e governati non contrapposti né identificati, invece in reciproco riconoscimento”[20]. Da qui, mi pare, che si possa leggere la torsione verso l’”autonomia del politico” (e la lunga marcia dentro le istituzioni) come tentativo di “prendere alle spalle” l’avversario di classe sul suo terreno, disarmandolo, e la necessità di portare nella classe dall’esterno un surplus di politica in termini, innanzitutto, di organizzazione e direzione.
Ad ogni modo, in Operai e Capitale il legame con il giovane Luckács – come sottolineano Cavazzini e Carlino – è evidente: “la Classe” diventa un “principio filosofico”, “l’Idea di un soggetto che accede all’autonomia e alla verità” attraverso la sua azione di opposizione alla falsa “totalità” del mondo capitalista. Che – sola –, dunque, è in grado di rovesciare. Lo scarto con l’opzione althusseriana, il mancato incontro – hanno ragione Cavazzini e Carlino – non è però addebitabile al taglio che Althusser, troppo sbrigativamente attua con le figure principali del marxismo occidentale, in una congiuntura storico-politica in cui la posta in gioco consisteva, prioritariamente, nel recupero “da destra” dell’umanismo del giovane Marx per svalutarne l’apporto “scientifico” nel tentativo di conciliare modello socialista e capitalista. In particolare, mi riferisco alla figura di Gramsci, rispetto al quale s’instaura un relazione perlomeno ambivalente. In effetti, un rapporto complesso tra struttura e sovrastruttura, la focalizzazione sulla dimensione riproduttiva dei rapporti di produzione, la strategia del “blocco storico” trovano vasta eco, in forma più o meno implicita, nel pensiero di Althusser. Si pensi solo alla valenza assunta dal concetto di surdeterminazione o agli Apparati Ideologici di Stato. E come non vedere un’influenza su Althusser nella stessa proposta gramsciana del “blocco storico” – non nelle sue letture successive più strumentali e riduttive –, dunque di una vasta alleanza di forze popolari, quasi frontista, come un’alternativa di transizione al comunismo rispetto all’opzione “classe contro classe” cara al giovane Luckács così come alla tradizione operaista? Molto si potrebbe dire, inoltre, e ciò evidenzierebbe un ulteriore scarto rispetto alla prospettiva trontiana, sulla successiva, disperata rottura althusseriana che nella seconda metà degli anni ’70, proclamando “la crisi del marxismo”, apriva alle nuove forme e ai nuovi soggetti della politica, fuori da partito e sindacato, e allo stesso tempo tentava di scindere partito e Stato (per prevenire l’effetto sovietico) mantenendo aperta la prospettiva comunista di un’estinzione dello Stato e richiedendo, per questo, un supplemento di teoria[21].

La parte finale dell’introduzione di Cavazzini e Carlino richiama l’ultima riflessione trontiana, in particolare la fecondità, da porre sotto costante verifica, di due concetti qualificanti: “il punto di vista” di classe e la natura “antimoderna” e antiprogressista delle lotte operaie. Cioè l’idea che il pensiero “vero”, autentico, si manifesti in funzione di un antagonismo irriducibile e che “la Classe operaia non è il motore di una modernizzazione lineare”, ma si presenta come un ostacolo alla (presunta) “naturalità” dello sviluppo capitalistico. Da qui, divergendo dall’escatologica scelta negriana, incentrata sulle nuove contraddizioni e i nuovi soggetti antagonisti che verrebbero generati dall’incessante processo modernizzatore (secondo uno schema scopertamente teleologico), il recupero del concetto di Katéchon (di matrice paolina) ereditato da Carl Schmitt – con un evidente slittamento su un piano meta-politico – dove diventa centrale “rallentare l’accelerazione della modernità” e assumere il “frattempo” per riorganizzare le soggettività disperse “e comporle in forme organizzate, storicamente nuove”[22]. Una scelta – notano Cavazzini e Carlino – convergente con la riflessione dell’intellettuale della Germania orientale Heiner Müller che individua nella borghesia e nel capitale la classe rivoluzionaria in senso materialista e interpreta la rivoluzione comunista (dalla Comune parigina alla Russia sovietica) come il tentativo di porre in atto “un grande arresto”, di alzare un muro di protezione per “trattenere il tempo”[23], sospenderlo per costruire un’alternativa. Da questa prospettiva occorre riprendere il cammino per sviluppare “una differenza”, un “Altro dal capitalismo” che si coniuga, forse, “nella capacità di tessere legami tra esseri e epoche” e resistere “ai processi sociali di accumulazione capitalistica”[24]
Ora, il discorso di Tronti e Müller è sicuramente suggestivo e imporrebbe una riflessione assai articolata e raffinata, rispetto alla quale devo segnalare una mia evidente inadeguatezza. In prima battuta si potrebbe rilevare come in realtà il movimento comunista abbia più che frenato ricalcato in forme subalterne – è lo stesso Tronti a riconoscerlo – l’ordine capitalistico. Si pensi solo alla priorità assegnata allo sviluppo delle forze produttive rispetto al mutamento dei rapporti sociali di produzione. Su questo versante, fuori da ogni idillio bucolico, si considerino anche le ricadute ecologiche. La stessa statizzazione dei mezzi di produzione mi pare qualcosa di diverso dalla loro socializzazione. Per tacere del nuovo assetto politico-istituzionale, che dalla costruzione di contropoteri tendenzialmente orizzontali è slittato verso una concentrazione/verticalizzazione inedita dei poteri.   
Limitandomi a Tronti e provando a decostruirne l’impianto meta-politico, mi pare di vedere che il compito della classe operaia, non più soggetto politico forte, diventi da massimo a minimo, da sopravvalutato a sottovalutato. Da soggetto e condizione determinante del capitale e del suo sviluppo a ostacolo debole, lungo un processo storico-temporale che torna a essere omogeno, preso, dopo la sconfitta del movimento operaio (di cui occorre preservare la memoria), in una deriva decadentista, livellatrice, propria del processo modernizzatore, da cui è stata espulsa la politica. O meglio la “grande politica”, come la chiama Tronti, che ha abitato solo la prima metà del ‘900 e sembra essersi configurata prioritariamente come intervento esterno, contro la storia, con tratti decisionistico-volontaristici e richiami, sempre più evidenti nell’ultimo Tronti, apocalittico-messianici[25]. Di fatto, si ri-afferma un processo storico-temporale che sembra già tracciato e si avvale di tutta la retorica sull’ineluttabilità della globalizzazione capitalista nell’economia-mondo coniugata con il (presunto) “pensiero unico”. Dubito che la mossa di “ritenere il tempo” sia sufficiente (o forse anche solo possibile) e che qualsiasi strategia che non rimetta a tema, materialisticamente, i referenti sociali (a partire dal lavoro eterodiretto), non solo che frenano ma tentano di progettare/prefigurare una trasformazione sociale e politica, partendo dai luoghi della produzione e della riproduzione capitalista, che s’interrogano su ‘cosa’, ‘come’ e ‘quanto’ produrre, che tracciano linee di conflitto in ambito locale e globale, tentando di coniugare “politica di trasformazione” e “politica di civiltà[26], possa avere qualche successo non effimero.   


 

[1] Cfr. S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma 2008.

[2] Cfr. M. Turchetto, Operaismo in Dictionnaire Marx contemporain, a cura di J. Bidet e E. Kouvélakis, PUF, Paris, 2OO1

L’articolo, accresciuto, è comparso successivamente con il titolo “Operaismo”: ascesa, metamorfosi, eclissi in “Cassandra”, n. 22, Febbraio 2008 http://www.cassandrarivista.it/riviste/22.pdf

[3] Cfr. R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei "Quaderni Rossi" 1959-1964, a cura di S. Merli, BFS Edizioni, Pisa 1994, p. XLVIII

[4] Cfr. A. Cavazzini – F. Carlino, Situation d’Ouvriers et Capital http://althusser.it/

[5] Cfr. R. Bellofiore - M. Tomba, Quale attualità dell’operaismo, in L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo cit. p. 297

[6] Mi pare significativo che Tronti in Operai e Capitale non consideri affatto una lacuna l’incompiuto capitolo sulle classi sociali del III libro del Capitale. A suo dire l’essenziale sulle classi era già stato detto nelle analisi del Capitale, inoltre squalifica come meramente ideologico – “la sociologia è un’ideologia dell’economia” (Cfr. M. Tronti, Operai e Capitale, Einaudi, Torino, 1977 p. 228) – un approccio sociologico. Di più: l’interruzione del manoscritto, dopo aver mostrato “la spaccatura interna alle drei grossen Klassen, governata dalla divisione del lavoro sociale, risultava talmente inessenziale e addirittura pericolosa che non poteva essere continuata. Quel fermarsi lì ha tutta l’aria dell’improvvisa rinuncia a proseguire un ragionamento che ha preso una strada sbagliata” (Cfr. M. Tronti, Operai e Capitale, cit., p. 229)    

[7] Cfr. R. Bellofiore - M. Tomba, Quale attualità dell’operaismo, cit., p. 297

[8] Cfr. M. Tronti, Operai e Capitale, cit., p. 224

[9] Ivi, pp. 224-225

[10] Cfr. L. Althusser, Dal Capitale alla filosofia di Marx, in L. Alhusser, E. Balibar, R. Establet, P. Macherey, J. Rancière, Leggere il Capitale, a cura di Maria Turchetto, Mimesis, Milano, 2006, pp. 25-29

[11] Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma, 2009, p. 67

[12] Cfr. L. Althusser, Machiavelli e noi, Manifestolibri, Roma, p. 36

[13] Cfr. L. Althusser, Per Marx, a cura di Marai Turchetto, Mimesis, Milano-Udine, 2008, p. 104

[14] Su questo fronte si considerino i lavori di Vittorio Morfino. Tra gli altri Spinoza e il non contemporaneo, Ombre Corte, Verona, 2009, pp. 35-99. Per un inquadramento generale si veda Aa.Vv, Tempora multa. Il governo del tempo, Mimesis, Milano-Udine, 2013.   

[15] Cfr. P. Anderson, Sur le marxisme occidental, traduit par D. Letellier et S. Niémetz, Paris, Maspero, 1977

[16] Cfr. R. Di Leo, L’esperimento profano, Ediesse, Roma, 2012

[17] Per alcuni spunti sul concetto di democrazia, a partire dalla lettura marxiana della Comune parigina, mi permetto di rinviare a un mio articolo: Marx, la Comune di Parigi e la democrazia espansiva, in “Storia e Futuro”, n. 29, giugno 2012, http://storiaefuturo.eu/marx-la-comune-di-parigi-e-la-democrazia-espansiva/

[18] M. Tronti, Noi operaisti, cit., p. 29

[19] Ivi, pp. 95-96

[20] Ivi, p. 96

[21] Cfr. A. Cavazzini, Crise du marxisme, critique de l'Etat. Le dernier combat d'Althusser, Le clou dans le fer, Paris. 2009. Per un ampio commento al testo di Cavazzini cfr. A. Girometti, Sull'utilità di una crisi ancora attuale, in "Décalages" Vol I, Issue 2, Berkeley Electronic Press, 2012

[22] Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, cit., pp. 111-112

[23] Cfr. H. Müller, « Le siècle de la contre-révolution. Entretien avec G. Dietze et O. Kallscheuer  », in Fautes d’impression. Textes et entretiens, textes choisis par J. Jourdheuil, Paris, L’Arche, 1991, p. 171.

[24] Cfr. H. Müller, «Arracher l’utopie au terrorisme. Entretien avec F. M. Raddatz», in Fautes d’impression, cit., p. 155.

[25] A titolo esemplificativo si considerino la congiunzione e la complementarietà nel ‘900, per Tronti, delle figure di Schmitt e Marx, così come la concezione della politica non solo nel suo legame con la contingenza e l’occasione, ma come “soggettività-volontà, che è sempre un e un solo accadere irrazionale (corsivo mio) dentro le tante ragioni della storia” concepita come “longue durée [che] può essere interrotta o piegata dall’irruzione del salto nell’attimo del breve periodo” (Cfr. Politica al tramonto, Einaudi, Torino, 1998, p. 154). E ancora: “Marx nel novecento ha incorporato dentro di sé Schmitt. Perché rivoluzione e controrivoluzione, apocalittica rivoluzionaria e controrivoluzionaria, rivoluzione operaia e rivoluzione conservatrice, cioè la grande politica del novecento, non solo ha occupato l’intero territorio delle opzioni possibili, radicalizzandole in scelte di vita, ma le ha a tal punto riferite l’una all’altra che ciò che stava in mezzo, la democrazia liberale, ha subìto un giusto lungo periodo di subalternità culturale" (cfr. Politica al tramonto, cit., p. 155)    

[26] Cfr. E. Balibar, Violence et civilité, Galilée, Paris, 2010