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Seminario 9 aprile 2014: Althusser e l'operaismo: un incontro mancato?
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Althusser e l’operaismo: un incontro mancato?
Appunti sulla riedizione di Operai e Capitale.
Andrea Girometti
La domanda che focalizza il tema di questo seminario - Althusser e l’operaismo:
un incontro mancato? - è una domanda non scontata, che potrebbe
sottendere un’uniformità di pensiero e pratiche – da una parte Althusser,
dall’altra l’operaismo – perlomeno opinabile. Infatti, se il pensiero di
Althusser è stato continuamente in tensione, forse preso in un’impietosa
autocritica permanente, l’operaismo non è stata certo una corrente
omogenea. La matrice impressa nei Quaderni Rossi non era univoca, le
stesse figure di Raniero Panzieri, Mario Tronti e Toni Negri, solo per ricordare
le più note, evidenziano non poche dissonanze. Si può persino distinguere “un
operaismo razionale” da uno “irrazionale”, come emerge dall’importante testo di
Steve Wright L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo.[1]
La stessa Maria Turchetto, tratteggiando, ormai oltre dieci anni fa, la storia
dell’operaismo come sconcertante parabola “dall’operaio massa all’imprenditoria
comune”[2]
intravedeva già nella fuoriuscita di Tronti, Negri e Romano Alquati dai
Quaderni Rossi una prima rottura che riguardava il nesso – centrale
nell’operaismo – tra lotte di fabbrica e progetto rivoluzionario. In particolare
l’impossibilità, per Panzieri, di mettere in campo una strategia rivoluzionaria
che ignorasse “il problema dei contenuti specifici e degli strumenti necessari
alla costruzione di tale strategia”[3],
diversamente dai fuoriusciti che scommettevano su una centralità
politica della classe operaia (gli operai dequalificati delle grandi
fabbriche fordiste) e sul processo espansivo in ambito sociale del dominio
impresso nella fabbrica.
Ad ogni modo, le posizioni del primo operaismo risultavano sicuramente
innovative rispetto alle posizioni difensive e/o ortodosse della sinistra
italiana tradizionale, ancora centrate, nella lettura delle dinamiche del
capitalismo, sulla contraddizione classica tra forze produttive e rapporti di
produzione, senza peraltro cogliere, salvo rare eccezioni, nemmeno il
cambiamento di fase con l’avvento del cosiddetto “miracolo economico”. Letture
dominate da una sorta di credenza in un cammino progressivo, se non
ineluttabile, verso il socialismo.
La non neutralità delle forze produttive e delle macchine; la rilevazione di un
“piano del capitale” in cui economia e società erano legate e allo stesso tempo
subordinate; il metodo dell’inchiesta come parzialità necessaria per
rilevare la realtà dei lavoratori e intervenire politicamente in essa, e
dunque la centralità dell’analisi della composizione di classe e della
“conricerca” come metodo intenzionato a stabilire un rapporto collaborativo tra
intellettuali e operai; ecco, queste sono, sicuramente, le principali
scoperte della partica operaista più propriamente di matrice panzieriana.
In questo contesto, la figura di Tronti è in qualche modo paradigmatica dei
salti avvenuti nella corrente operaista e ci porta a riformulare meglio il
fuoco della nostre argomentazioni, concentrando l’attenzione sul potenziale
incontro riguardante Althusser e Tronti, in una congiuntura in cui prendevano
forma, allo stesso tempo, da una parte Per Marx e Leggere il Capitale,
dall’altra, come dicono Cavazzini e Carlino nella loro densa introduzione alla
prossima riedizione di Operai e Capitale, “il testo filosofico più
ambizioso prodotto dalla “sequenza rossa” italiana”[4].
Riformulata in questi termini – l’incontro Althusser/Tronti – mi sembra di poter
dire che ci troviamo di fronte ad una domanda scomoda e allo stesso tempo
non rivolta (solo) al passato, non tanto perché ogni discussione è sempre,
inevitabilmente, al presente e dunque c’interroga sull’oggi, sulla
pratica politica-e-teorica odierna, sui vuoti così evidenti e perfino
accecanti. E’ scomoda perché prende in considerazione un incontro mancato,
ma almeno, parzialmente, possibile, se si riconoscono alcuni tratti comuni agli
autori:
a) le indubbie affinità di alcuni presupposti comuni da cui muovevano le
argomentazioni di entrambi: antistoricismo, anti-umanismo, anti-economicismo;
b) il luogo da cui provenivano (i due principali partiti comunisti
d’occidente, Pci e Pcf);
c) il tentativo di prendere una giusta distanza, dopo l’avvio della
destaliniazzazione e “l’indimenticabile 1956”, sia dalle ortodossie
sclerotizzanti, sia dalle derive socialdemocratiche senza peraltro rinunciare ad
un’azione all’interno delle rispettive organizzazioni;
d) l’intenzione comune a rimettere a tema una strategia rivoluzionaria in
Occidente rileggendo Marx insieme a Lenin e cercando di procedere
oltre.
Pertanto è interessante rivedere i percorsi dei due autori. Da un lato, come
ricordano Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba nella postfazione al testo di
Wrigth, “il percorso di Tronti [parte] da Panzieri e rompe con Panzieri”
[5]. Se con Panzieri è il lavoro vivo che
diventa il vero limite del capitale, in quanto elemento non integrabile,
portatore di lotte, di soggettivazione politica, per Tronti ne consegue un
rovesciamento del “punto di vista” (sulle cui modalità deve molto ad una
rilettura dell’hegeliana Fenomenologia dello spirito). Non c’è più spazio
per un marxismo che analizza la società capitalistica e i lavoratori come
forza-lavoro integrata nel capitale, ma subentra un marxismo rivoluzionario che
assume la classe operaia come datità prima di entrare nel processo
produttivo. Utilizzando il lessico tardo-althusseriano in merito alla formazione
del modo di produzione capitalistico, potremmo dire che il singolo possessore di
denaro non incontra mai il singolo operaio, ma già la classe. Con la
differenza sostanziale che per Althusser il possibile incontro è sempre tra
elementi eterogenei, portatori di storie specifiche, che non hanno inscritto in
sé alcun fine che li consegnerebbe ad una presa, mentre in Tronti
la formazione/determinazione della classe capitalista avviene dopo
l’incontro tra capitale e operai e le due classi principali – non c’è spazio, se
non residuale, per le altre componenti sociali[6]
– diventano le parti scisse (e in lotta per essere riconosciute) di un unico
processo di produzione. La forza-lavoro viene prima del capitale, e
tramite la lotta di classe, che è già presente a questo primo stadio, ne
modifica strategia e organizzazione, in altri termini costituisce il rapporto
capitalistico di produzione e ne forza gli sviluppi. Assistiamo, pertanto, ad
un’assunzione tutta politica della marxiana teoria del valore – rispetto alla
quale trova un solido appoggio il successivo salto negriano, come
suggeriscono Bellofiore e Tomba, che assumerà come produttrice di valore ogni
attività umana, radicalizzandone il costituivo antagonismo[7]
–, tanto che la sua stessa difesa “scientifica” in ambito marxista è giudicata
inutile perché “politicamente improduttiva, cioè praticamente neutra”[8].
In fin dei conti, per Tronti, si tratta di una teoria già in gran parte presente
in Ricardo (e prima in Hegel), rispetto alla quale Marx ha fatto un passo in
avanti cambiando punto di vista, assumendo quello della classe operaia e
indicando come “il lavoro è misura del valore perché la classe operaia è
condizione del capitale”[9].
Diversamente da Althusser che in Leggere il Capitale[10],
applicando una lettura sintomale al testo marxiano, vi intravede un (difficile)
cambio di problematica teorica – in cui il valore di posizione di
una scienza non è indifferente, tanto meno neutrale – non un semplice
rivolgimento del “punto di vista” e, potremmo aggiungere, della capacità di
vedere meglio, più lucidamente.
Pertanto, uno dei punti di frattura essenziali nel mancato incontro Althusser/Tronti
si consuma proprio qui: se da un lato si pone l’accento sull’autonomia
(relativa) della teoria – c’è sempre uno scarto tra conoscenza e realtà – come
in Althusser, dall’altro, per Tronti conoscenza e azione si annullano nel punto
di vista di classe. Con il rischio, particolarmente evidente nelle fasi di
declino della lotta delle classi subalterne, suggeriscono Cavazzini e Carlino,
da una parte, di feticizzare la teoria, dall’altra, di piegarla alle esigenze
tattiche della politica, sino a legittimare ogni possibile involuzione. Eppure,
un accordo significativo tra Althusser e Tronti lo troviamo proprio nel momento
in cui, in polemica con ogni presunto lineare evoluzionismo storico, la teoria
diventa pensiero declinato al presente, intervento nella e
sotto la congiuntura. Che si tratti di teoria come anticipazione che
si manifesta nel momento di verità interno alle lotte o di teoria per
la politica il piano d’azione rimane immutato. Non a caso, nella sua
autobiografia politica Noi operaisti, Tronti si soffermerà positivamente
su un passaggio althusseriano[11]
(prossimo alle teorizzazione più compiute sul materialismo aleatorio del
filosofo francese) tratto dal testo postumo Machiavelli e noi in cui si
riconosce in Machiavelli il primo pensatore che abbia coscientemente “pensato
“nella” congiuntura, cioè nel concetto di caso singolo aleatorio”[12].
Se le strategie divergono, perché alla priorità althusseriana della teoria
corrisponde la priorità trontiana della politica (sicuramente entrambe
influenzate anche dai diversi limiti di azione presenti nel Pcf e nel Pci), mi
sembra che ciò avviene perché sottotraccia si afferma una diversa concezione del
tempo storico e dell’articolazione sociale, nonché un distinto apparato
concettuale. In Tronti, alle capacità della classe di totalizzare le lotte e
guidarle partendo da un centro nella società – la fabbrica fordista – in cui
avviene lo scontro decisivo tra tendenze contrapposte, ed in cui, nel momento di
rottura o allentamento della riproduzione dei rapporti di dominio, si manifesta
un momento di verità nella storia, corrisponde, in Althusser,
l’assenza di un centro che non sia costruzione ideologica e l’impossibile
totalizzazione delle contraddizioni nella combinazione delle istanze (economia,
politica, ideologia) del tutto complesso strutturato a dominante, in cui le
contraddizioni, sottoposte ad una reciproca surdeterminazione, si spostano, si
coagulano, sino a poter esplodere in alcuni punti, ma l’ora
dell’ultima istanza non arriva mai[13],
e dunque l’eccedenza e la non-contemporaneità sembrano diventare la norma
di un tempo diseguale, plurale e materiale, privo di un principio espressivo
essenziale[14].
Ma torniamo a Operai e Capitale. Cavazzini e Carlino, tramite Perry
Anderson, iscrivono il testo di Tronti nella tradizione del “marxismo
occidentale”[15],
storicamente segnato da una progressiva separazione tra teoria e prassi,
conseguente alla mancata presa della rivoluzione in Occidente, e vi si
possono rintracciare i legami con le principali figure intellettuali marxiste
non separate dalle lotte di massa: Gramsci, Luckács e Korsch. Ma,
significativamente, non Rosa Luxemburg, una figura che ebbe modo di criticare
in diretta, e non certo dal campo avverso, l’esperimento profano[16]
che prendeva avvio con l’Ottobre bolscevico, e la conseguente
istituzionalizzazione di uno stato d’eccezione che sottovaluterà la questione
democratica. Questione che Tronti stesso tende a leggere, ma non è certo
l’unico in ambito marxista, in termini, mi pare, riduttivi: come
sovrastruttura tendenzialmente borghese, luogo contaminato dal mercato
delle opinioni, dal non-pensiero, dall’inautentico, prima che come
ipotesi egualitaria e libertaria su cui far leva in termini
antigerarchici ed espansivi[17].
Su questo versante, mi pare indicativo il modo in cui Tronti ricorda, nella sua
autobiografia politica, le differenze con Panzieri: “come Rosa, leggeva Il
Capitale e immaginava la rivoluzione. Non come Lenin, che leggeva Il
Capitale per organizzare la rivoluzione”[18].
Non a caso la centralità della classe operaia sarà letta da Tronti come
centralità di una “minoranza di massa”, “aristocrazia del popolo”, capace di
dirigere un processo rivoluzionario incardinato su uno “Stato operaio, non
mai realizzato, [che] si è presentato, nel Novecento, come forma possibile di
governo dei migliori”[19].
E ancora: “né dittatura, né democrazia, governanti e governati non contrapposti
né identificati, invece in reciproco riconoscimento”[20].
Da qui, mi pare, che si possa leggere la torsione verso l’”autonomia del
politico” (e la lunga marcia dentro le istituzioni) come tentativo di “prendere
alle spalle” l’avversario di classe sul suo terreno, disarmandolo, e la
necessità di portare nella classe dall’esterno un surplus
di politica in termini, innanzitutto, di organizzazione e direzione.
Ad ogni modo, in Operai e Capitale il legame con il giovane Luckács –
come sottolineano Cavazzini e Carlino – è evidente: “la Classe” diventa un
“principio filosofico”, “l’Idea di un soggetto che accede all’autonomia e alla
verità” attraverso la sua azione di opposizione alla falsa “totalità” del mondo
capitalista. Che – sola –, dunque, è in grado di rovesciare. Lo scarto
con l’opzione althusseriana, il mancato incontro – hanno ragione Cavazzini e
Carlino – non è però addebitabile al taglio che Althusser, troppo
sbrigativamente attua con le figure principali del marxismo occidentale, in una
congiuntura storico-politica in cui la posta in gioco consisteva,
prioritariamente, nel recupero “da destra” dell’umanismo del giovane Marx per
svalutarne l’apporto “scientifico” nel tentativo di conciliare modello
socialista e capitalista. In particolare, mi riferisco alla figura di Gramsci,
rispetto al quale s’instaura un relazione perlomeno ambivalente. In effetti, un
rapporto complesso tra struttura e sovrastruttura, la focalizzazione
sulla dimensione riproduttiva dei rapporti di produzione, la strategia del
“blocco storico” trovano vasta eco, in forma più o meno implicita, nel pensiero
di Althusser. Si pensi solo alla valenza assunta dal concetto di
surdeterminazione o agli Apparati Ideologici di Stato. E come non vedere
un’influenza su Althusser nella stessa proposta gramsciana del “blocco storico”
– non nelle sue letture successive più strumentali e riduttive –, dunque di una
vasta alleanza di forze popolari, quasi frontista, come un’alternativa di
transizione al comunismo rispetto all’opzione “classe contro classe” cara al
giovane Luckács così come alla tradizione operaista? Molto si potrebbe dire,
inoltre, e ciò evidenzierebbe un ulteriore scarto rispetto alla prospettiva
trontiana, sulla successiva, disperata rottura althusseriana che nella
seconda metà degli anni ’70, proclamando “la crisi del marxismo”, apriva alle
nuove forme e ai nuovi soggetti della politica, fuori da partito e sindacato, e
allo stesso tempo tentava di scindere partito e Stato (per prevenire
l’effetto sovietico) mantenendo aperta la prospettiva comunista di
un’estinzione dello Stato e richiedendo, per questo, un supplemento di teoria[21].
La parte finale dell’introduzione di Cavazzini e Carlino richiama l’ultima
riflessione trontiana, in particolare la fecondità, da porre sotto costante
verifica, di due concetti qualificanti: “il punto di vista” di classe e la
natura “antimoderna” e antiprogressista delle lotte operaie. Cioè l’idea che il
pensiero “vero”, autentico, si manifesti in funzione di un antagonismo
irriducibile e che “la Classe operaia non è il motore di una modernizzazione
lineare”, ma si presenta come un ostacolo alla (presunta) “naturalità” dello
sviluppo capitalistico. Da qui, divergendo dall’escatologica scelta
negriana, incentrata sulle nuove contraddizioni e i nuovi soggetti antagonisti
che verrebbero generati dall’incessante processo modernizzatore (secondo uno
schema scopertamente teleologico), il recupero del concetto di Katéchon
(di matrice paolina) ereditato da Carl Schmitt – con un evidente slittamento su
un piano meta-politico – dove diventa centrale “rallentare l’accelerazione della
modernità” e assumere il “frattempo” per riorganizzare le soggettività disperse
“e comporle in forme organizzate, storicamente nuove”[22].
Una scelta – notano Cavazzini e Carlino – convergente con la riflessione
dell’intellettuale della Germania orientale Heiner Müller che individua nella
borghesia e nel capitale la classe rivoluzionaria in senso materialista e
interpreta la rivoluzione comunista (dalla Comune parigina alla Russia
sovietica) come il tentativo di porre in atto “un grande arresto”, di alzare
un muro di protezione per “trattenere il tempo”[23],
sospenderlo per costruire un’alternativa. Da questa prospettiva occorre
riprendere il cammino per sviluppare “una differenza”, un “Altro dal
capitalismo” che si coniuga, forse, “nella capacità di tessere legami tra esseri
e epoche” e resistere “ai processi sociali di accumulazione capitalistica”[24].
Ora, il discorso di Tronti e Müller è sicuramente suggestivo e imporrebbe una
riflessione assai articolata e raffinata, rispetto alla quale devo segnalare una
mia evidente inadeguatezza. In prima battuta si potrebbe rilevare come in realtà
il movimento comunista abbia più che frenato ricalcato in forme subalterne – è
lo stesso Tronti a riconoscerlo – l’ordine capitalistico. Si pensi solo alla
priorità assegnata allo sviluppo delle forze produttive rispetto al mutamento
dei rapporti sociali di produzione. Su questo versante, fuori da ogni idillio
bucolico, si considerino anche le ricadute ecologiche. La stessa statizzazione
dei mezzi di produzione mi pare qualcosa di diverso dalla loro socializzazione.
Per tacere del nuovo assetto politico-istituzionale, che dalla costruzione
di contropoteri tendenzialmente orizzontali è slittato verso una
concentrazione/verticalizzazione inedita dei poteri.
Limitandomi a Tronti e provando a decostruirne l’impianto meta-politico, mi pare
di vedere che il compito della classe operaia, non più soggetto politico forte,
diventi da massimo a minimo, da sopravvalutato a sottovalutato. Da
soggetto e condizione determinante del capitale e del suo sviluppo a
ostacolo debole, lungo un processo storico-temporale che torna
a essere omogeno, preso, dopo la sconfitta del movimento operaio (di cui occorre
preservare la memoria), in una deriva decadentista, livellatrice, propria del
processo modernizzatore, da cui è stata espulsa la politica. O meglio la “grande
politica”, come la chiama Tronti, che ha abitato solo la prima metà del
‘900 e sembra essersi configurata prioritariamente come intervento esterno,
contro la storia, con tratti decisionistico-volontaristici e richiami,
sempre più evidenti nell’ultimo Tronti, apocalittico-messianici[25].
Di fatto, si ri-afferma un processo storico-temporale che sembra già tracciato e
si avvale di tutta la retorica sull’ineluttabilità della globalizzazione
capitalista nell’economia-mondo coniugata con il (presunto) “pensiero unico”.
Dubito che la mossa di “ritenere il tempo” sia sufficiente (o forse anche solo
possibile) e che qualsiasi strategia che non rimetta a tema, materialisticamente,
i referenti sociali (a partire dal lavoro eterodiretto), non solo che frenano
ma tentano di progettare/prefigurare una trasformazione sociale e politica,
partendo dai luoghi della produzione e della riproduzione capitalista, che
s’interrogano su ‘cosa’, ‘come’ e ‘quanto’ produrre, che tracciano linee di
conflitto in ambito locale e globale, tentando di coniugare “politica di
trasformazione” e “politica di civiltà”[26],
possa avere qualche successo non effimero.
[1] Cfr. S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma 2008.
[2] Cfr. M. Turchetto, Operaismo in Dictionnaire Marx contemporain, a cura di J. Bidet e E. Kouvélakis, PUF, Paris, 2OO1
L’articolo, accresciuto, è comparso successivamente con il titolo “Operaismo”: ascesa, metamorfosi, eclissi in “Cassandra”, n. 22, Febbraio 2008 http://www.cassandrarivista.it/riviste/22.pdf
[3] Cfr. R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei "Quaderni Rossi" 1959-1964, a cura di S. Merli, BFS Edizioni, Pisa 1994, p. XLVIII
[4] Cfr. A. Cavazzini – F. Carlino, Situation d’Ouvriers et Capital http://althusser.it/
[5] Cfr. R. Bellofiore - M. Tomba, Quale attualità dell’operaismo, in L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo cit. p. 297
[6] Mi pare significativo che Tronti in Operai e Capitale non consideri affatto una lacuna l’incompiuto capitolo sulle classi sociali del III libro del Capitale. A suo dire l’essenziale sulle classi era già stato detto nelle analisi del Capitale, inoltre squalifica come meramente ideologico – “la sociologia è un’ideologia dell’economia” (Cfr. M. Tronti, Operai e Capitale, Einaudi, Torino, 1977 p. 228) – un approccio sociologico. Di più: l’interruzione del manoscritto, dopo aver mostrato “la spaccatura interna alle drei grossen Klassen, governata dalla divisione del lavoro sociale, risultava talmente inessenziale e addirittura pericolosa che non poteva essere continuata. Quel fermarsi lì ha tutta l’aria dell’improvvisa rinuncia a proseguire un ragionamento che ha preso una strada sbagliata” (Cfr. M. Tronti, Operai e Capitale, cit., p. 229)
[7] Cfr. R. Bellofiore - M. Tomba, Quale attualità dell’operaismo, cit., p. 297
[8] Cfr. M. Tronti, Operai e Capitale, cit., p. 224
[9] Ivi, pp. 224-225
[10] Cfr. L. Althusser, Dal Capitale alla filosofia di Marx, in L. Alhusser, E. Balibar, R. Establet, P. Macherey, J. Rancière, Leggere il Capitale, a cura di Maria Turchetto, Mimesis, Milano, 2006, pp. 25-29
[11] Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma, 2009, p. 67
[12] Cfr. L. Althusser, Machiavelli e noi, Manifestolibri, Roma, p. 36
[13] Cfr. L. Althusser, Per Marx, a cura di Marai Turchetto, Mimesis, Milano-Udine, 2008, p. 104
[14] Su questo fronte si considerino i lavori di Vittorio Morfino. Tra gli altri Spinoza e il non contemporaneo, Ombre Corte, Verona, 2009, pp. 35-99. Per un inquadramento generale si veda Aa.Vv, Tempora multa. Il governo del tempo, Mimesis, Milano-Udine, 2013.
[15] Cfr. P. Anderson, Sur le marxisme occidental, traduit par D. Letellier et S. Niémetz, Paris, Maspero, 1977
[16] Cfr. R. Di Leo, L’esperimento profano, Ediesse, Roma, 2012
[17] Per alcuni spunti sul concetto di democrazia, a partire dalla lettura marxiana della Comune parigina, mi permetto di rinviare a un mio articolo: Marx, la Comune di Parigi e la democrazia espansiva, in “Storia e Futuro”, n. 29, giugno 2012, http://storiaefuturo.eu/marx-la-comune-di-parigi-e-la-democrazia-espansiva/
[18] M. Tronti, Noi operaisti, cit., p. 29
[19] Ivi, pp. 95-96
[20] Ivi, p. 96
[21] Cfr. A. Cavazzini, Crise du marxisme, critique de l'Etat. Le dernier combat d'Althusser, Le clou dans le fer, Paris. 2009. Per un ampio commento al testo di Cavazzini cfr. A. Girometti, Sull'utilità di una crisi ancora attuale, in "Décalages" Vol I, Issue 2, Berkeley Electronic Press, 2012
[22] Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, cit., pp. 111-112
[23] Cfr. H. Müller, « Le siècle de la contre-révolution. Entretien avec G. Dietze et O. Kallscheuer », in Fautes d’impression. Textes et entretiens, textes choisis par J. Jourdheuil, Paris, L’Arche, 1991, p. 171.
[24] Cfr. H. Müller, «Arracher l’utopie au terrorisme. Entretien avec F. M. Raddatz», in Fautes d’impression, cit., p. 155.
[25] A titolo esemplificativo si considerino la congiunzione e la complementarietà nel ‘900, per Tronti, delle figure di Schmitt e Marx, così come la concezione della politica non solo nel suo legame con la contingenza e l’occasione, ma come “soggettività-volontà, che è sempre un e un solo accadere irrazionale (corsivo mio) dentro le tante ragioni della storia” concepita come “longue durée [che] può essere interrotta o piegata dall’irruzione del salto nell’attimo del breve periodo” (Cfr. Politica al tramonto, Einaudi, Torino, 1998, p. 154). E ancora: “Marx nel novecento ha incorporato dentro di sé Schmitt. Perché rivoluzione e controrivoluzione, apocalittica rivoluzionaria e controrivoluzionaria, rivoluzione operaia e rivoluzione conservatrice, cioè la grande politica del novecento, non solo ha occupato l’intero territorio delle opzioni possibili, radicalizzandole in scelte di vita, ma le ha a tal punto riferite l’una all’altra che ciò che stava in mezzo, la democrazia liberale, ha subìto un giusto lungo periodo di subalternità culturale" (cfr. Politica al tramonto, cit., p. 155)
[26] Cfr. E. Balibar, Violence et civilité, Galilée, Paris, 2010